Franz Schubert – Lieder

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Appunti su Schubert

 

Considerazioni preliminari

 

Per tutto l’Ottocento la fama di Schubert rimase legata in modo stretto alla produzione liederistica. Ciò significò non soltanto prendere atto che, all’interno di un’opera tanto vasta quanto concentrata nel tempo, quella parte occupava un posto di assoluto rilievo per qualità e quantità (circa seicento composizioni, distribuite in un arco creativo che va dalla prima fanciullezza alla precoce maturità, alla morte prematura del musicista), ma anche a codificare un’immagine di Schubert che influì profondamente sulla storia della sua ricezione, in almeno due sensi opposti: da un lato pesando su tutti i compositori che si accostarono al Lied dopo di lui (un peso che può essere paragonato solo a quello esercitato da Beethoven, con forza tanto più perentoria, nel campo della Sinfonia); dall’altro, più in generale, restringendolo in un quadro, talora convenzionalmente oleografico e persino caricaturale, di molle intimismo soggettivo, di pura espressione lirica e sentimentale. Sfondo nel quale Schubert era stato del resto più volte fissato nei dipinti e nei disegni popolari della sua epoca.

Anche a non voler insistere troppo sulle divergenze esistenti nel modo di considerare quell’immagine da parte dei compositori e del pubblico, è indubbio che così per gli uni come per l’altro la parabola creativa di Schubert nel Lied presentasse una unità nella varietà e una varietà nell’unità (in altri termini, una gradualità e una progressione verso la definitiva compiutezza del genere) quali nessuno altro capitolo della sua opera possedeva: da Gretchen am Spinnrad (1814), prima superba individuazione di un tipo di Lied assolutamente nuovo per carattere e forma, fino ai grandi cicli degli ultimi anni, la traccia segue una linea continua e si richiude in un cerchio perfetto, nulla lasciando ancora da dire o da precisare. Gli Heine-Gesänge, composti poche settimane prima della morte e poi volgarizzati da un editore privo di scrupoli nella miscellanea dello SchwanengesangCanto del Cigno, titolo orribile per un’operazione già equivoca – sono sotto questo aspetto l’inizio di un nuovo ciclo, soffocato sul nascere, l’annuncio di una nuova epoca della storia del Lied la cui eredità sarà raccolta non da Schumann o da Brahms, ma, coerentemente, da Wolf e da Mahler.

Non si può dire lo stesso per gli altri generi con i quali Schubert si confrontò. La sua produzione sinfonica e pianistica, e in minor misura quella da camera, procedono a sbalzi, per strappi violenti, talora esaurendo uno specifico problema linguistico e formale in un gruppo ravvicinato di lavori, e poi lasciandolo decantare. Non seguono, almeno in modo esplicito, una linea continua di evoluzione: ciò non significa, è ovvio, che non l’abbiano latente in sé. Sappiamo che dopo la morte di Beethoven, nel breve spazio di tempo che un destino crudele gli assegnò da vivere, come sbloccato dal peso schiacciante dell’ombra del gigante tanto venerato quanto temuto, Schubert andò prefigurando e pianificando un nuovo stile sinfonico e pianistico, di cui rimangono realizzazioni incomparabili come la Sinfonia in do maggiore (che significativamente nelle intenzioni del musicista doveva costituire appena una tappa nella conquista della «strada verso la Sinfonia») e le tre Sonate in do minore, in la maggiore e in si bemolle maggiore. Realizzazioni che, nonostante l’appassionata difesa di Schumann, non furono comprese e valutate né per quello che erano né per quello che aprivano al futuro.

Soltanto partendo dal Lied era possibile costruire un’immagine autonoma della personalità di Schubert. E così fu. L’unità palese anche nella estrema varietà, il cerchio chiuso pur nella immensa ampiezza del raggio, consentirono dunque di fissarla con una certa approssimazione. Schubert era il Lied. E nello stesso tempo il Lied di Schubert, proprio in virtù delle sue molteplici realizzazioni irradiate e tenute insieme da un unico centro unificatore – il cui ambito si trasforma ma non ci sfugge -, poteva essere letto, compreso, gustato, consumato nei modi più diversi, senza venir mai frainteso o deformato. Ciò che l’ascoltatore da esso richiedeva, esso era in grado di dare, adattandosi ai più svariati livelli di ricezione: sotto il profilo linguistico e formale in un ascolto consapevole e adeguato, sotto quello emotivo ed intuitivo in un ascolto viceversa irriflesso e ingenuo, vòlto al puro godimento dell’invenzione melodica, della «spontanea» illustrazione del testo, delle immediate suggestioni liriche o sentimentali. Anche a non saper cogliere nulla delle incredibilmente complesse simmetrie e coerenze strutturali sottese al ciclo della Winterreise, l’ascoltatore sarà in grado di goderne tutte intere le bellezze e di spremerne il senso globale, espressivo e musicale; sia che costui lo interpreti come la storia di un innamorato tradito che precipita nell’angoscia e nella follia, sia che invece lo traduca nel simbolo di un’umanità alle prese col mistero insoluto della gioia e del dolore, della speranza e della disperazione, della vita e della morte, facendone così un’allegoria di un destino universale: nulla andrà perduto del carattere originario, eloquente e commovente, della composizione. Essa è questo e quello. L’equilibrio di individualità e universalità nel quale l’arte schubertiana riposa, oscilla sul perno di una profonda ambiguità, nelle cui pieghe si celano, in pari tempo espresse e inespresse, ricchezze tangibili e insondabili, tesori comunque irriducibili a una maniera unica di approccio.

 

 

«Schubert compositore viennese»

 

È forse, per assurdo, proprio questa molteplicità ad aver condizionato la diffusione dell’arte schubertiana nel suo tempo, facendola apparire attuale per noi oggi, nel nostro secolo? La massa incredibilmente ricca di capolavori – in tutti i generi, e per di più composti in un arco di vita così breve, accrescendo lo stupore – che gli storici della musica e il pubblico sono disposti a riconoscere a Schubert, non fu affatto riconosciuta come tale – meglio sarebbe dire, semplicemente, conosciuta – dai contemporanei e dalle generazioni immediatamente successive. La riscoperta di Schubert, che ha inizio nella seconda metà dell’Ottocento, è un fenomeno lento e composito al quale hanno contribuito da un lato l’iniziativa di singoli musicisti guidati o istradati da Schumann, che fu il primo a proclamarne su vasta scala la grandezza, dall’altro l’affermarsi di una disciplina storico-critica vòlta all’indagine e al recupero del passato, sia in sé che per il presente; e vi incidono anche un nuovo spirito del tempo (l’attualità di Schubert nella fase più acuta della crisi vissuta dall’ultima generazione romantica), come pure nuovi stimoli e interessi editoriali, culminati nella faticosa ricostruzione degli opera omnia.

Che Schubert fosse conosciuto o riconosciuto dai contemporanei sembra in flagrante contraddizione anche col modo in cui la sua arte e la sua personalità furono intese, descritte e interpretate dai posteri. E ciò almeno per due motivi principali: anzitutto per la tendenza a inscrivere Schubert nell’area romantica, come sua vetta dichiarata non soltanto per quanto attiene il Lied; in seconda linea per la tesi comune racchiusa in una formula mai del tutto smessa – «Schubert compositore viennese» – che egli esprimesse la quintessenza non soltanto della civiltà viennese, con le sue vivide tradizioni musicali e culturali, ma anche di Vienna come città, come centro artistico e sociale, addirittura come ambiente paesaggistico secondo la celebre immagine schumanniana: «E’ vero: questa Vienna, col suo campanile di Santo Stefano, le sue belle donne, il suo aperto sfarzo, cinta dai rami del Danubio come da innumerevoli nastri, si distende nel piano fiorito, che a poco a poco sale verso i monti sempre più alti; questa Vienna, con tutti i suoi ricordi dei più grandi maestri tedeschi, dev’essere un fertile terreno per la fantasia d’un musicista! (…) Nella Sinfonia di Schubert, piena di chiara, fiorente vita, la città mi sorge oggi innanzi più nitida che mai, e mi persuade meglio che proprio da luoghi come questi possano nascere opere simili». Ma, allora: se Schubert apparve perfettamente integrato (o integrabile) in un movimento estetico trainante per la musica dell’Ottocento come quello romantico e in un ambiente pienamente definito come quello viennese, come si spiegano le vicende della sua oscura fortuna presso i contemporanei?

Il paradosso di «Schubert compositore viennese» ma nient’affatto importante per Vienna si può certo spiegare con le condizioni nelle quali si maturò, anche sotto il profilo strettamente biografico, il rapporto fra il compositore e una metropoli da sempre distratta, indaffarata, commerciale, eppure sollecita come nessun’altra prima a fornire le premesse, gli stimoli e la cassa di risonanza per una compiuta affermazione artistica. Entrato con le sue sole forze in questa città dal sobborgo periferico in cui era nato, Schubert non se ne staccò mai, se non per brevi viaggi; vivendo però sempre in essa per così dire ai margini. La sua figura umana non si integrò mai con l’ambiente ufficiale della metropoli; e lo stesso vale per l’opera, come narrano le amare vicissitudini della sua diffusione (non solo editoriale) e circolazione: un’opera o troppo sottilmente esigente e inappagante per il consumo musicale d’uso e d’intrattenimento, o troppo poco energica e autorevole per conquistarsi un rango nella frenetica vita musicale del tempo (si pensi soltanto al teatro, la grande passione incompiuta dell’esistenza di Schubert; o al fatto che il primo e solo concerto pubblico di sue musiche cadde il 26 marzo 1828, l’anno della morte). E qui la radice di un altro paradosso, ancor più stridente: quello di «Schubert compositore» (la tremenda esclamazione «Io so di essere un artista, io sono Franz Schubert», secondo la testimonianza di Bauernfeld) nient’affatto importante per i contemporanei.

 

 

Schubert e Beethoven

 

Durante la vita di Schubert, astraendo dal teatro e dalla musica dei virtuosi, la nozione non soltanto di capolavoro ma anche di opera d’arte fu influenzata dal modello di Beethoven: il gigante alla cui ombra, quasi fisicamente, nella stessa città, Schubert visse e creò. Questa vicinanza accrebbe sensibilmente l’incidenza di un condizionamento alla luce del quale, come è stato detto, potrebbe persino essere letta la storia della musica tedesca dell’Ottocento, e sulla cui scala di valori, sovente, essa è stata fatta.

Almeno sul piano biografico, la storia dei rapporti (meglio: della mancanza di rapporti) fra Schubert e Beethoven è stata già tutta scritta: quel continuo trovarsi di Schubert fianco a fianco col gigante, per strada, nelle sale da concerto, nelle librerie e perfino nelle trattorie, senza osare mai accostarlo direttamente, presentarsi e parlargli; la sua partecipazione, più che commossa, atterrita, al funerale, il brindisi oscuramente presago di una prossima fine nella locanda della Mehlgrube, presso il Neumarkt. Tutto ciò è impressionante ed eloquente, come lo sono tanti piccoli episodi, apparentemente insignificanti, nella grigia, monotona vita di Schubert: una vita fatta di rinunce per paura degli eventi, più che di eventi. Ai suoi occhi acutissimi di artista non poteva sfuggire quel che ogni dilettante e amatore di musica, ognuno di quei trentamila che avevano partecipato al funerale di Beethoven accanto a lui, aveva compreso appieno: Beethoven aveva cambiato l’immagine stessa della musica, toccato un vertice tanto irraggiungibile quanto ineludibile dopo il suo esempio. Beethoven il solitario, l’isolato, l’asociale, il sordo: colui che aveva parlato e creato per l’umanità intera, per la fratellanza, la solidarietà di tutti, ponendo tuttavia al singolo pretese estetiche e imperativi formali assoluti; colui che si era spinto tanto innanzi nella concezione della musica da spaventare i simili, lasciandoli annichiliti, persino incapaci di reagire e di protestare. Questo modello, seguito quasi passo dopo passo nel suo compiersi e diffondersi, rappresentava per Schubert la vera integrazione fra uomo e artista: un modello per lui irrealizzabile, paralizzante, quasi distruttivo.

Esiste invece una storia non ancora interamente scritta, ed è quella della produzione schubertiana dopo la morte di Beethoven: la storia di quei venti mesi nei quali la sua vita parve come rinnovarsi, accesa da nuove aspirazioni e da nuove esigenze, nella ferma coscienza di poter dire e fare qualcosa dopo Beethoven, oltre Beethoven. Scrive Piero Buscaroli, con felice concisione: «C’è uno Schubert contemporaneo di Beethoven e uno che di Beethoven è postumo e successore. Che questo successore di Beethoven sia sopravvissuto un anno e mezzo soltanto, assottiglia il margine disponibile per un giudizio, ma non può sopprimerlo». I lavori prodotti in questo pur breve periodo – seconda parte della Winterreise, i due Trii col pianoforte, le due serie degli Impromptus, la Sinfonia in do maggiore, la Fantasia in fa minore, la Messa in mi bemolle maggiore, i Rellstab e gli Heine-Lieder, il Quintetto per archi, le tre ultime Sonate, e non è che una scelta – annunciano l’inizio di una nuova fase creativa verso un linguaggio pienamente individuale nel campo delle grandi forme. E non è senza significato che proprio queste opere fossero quelle che più interessarono e colpirono i posteri, destandone l’ammirazione. L’artista che in vita sua era stato schiacciato dall’ombra di Beethoven al punto che i contemporanei non riconobbero la sua presenza perchè impegnati a giudicare seguendo metri e criteri beethoveniani, veniva ora riscoperto proprio attraverso quelle opere che, indipendenti da Beethoven, ne assumevano l’eredità, conquistandosi un proprio spazio storico. Fu da quel momento che Schubert cessò di essere soltanto un compositore di Lieder e divenne un musicista da riconsiderare nella sua interezza, magari valutando diversamente anche la sua produzione liederistica, dalla quale nel frattempo erano nati e si erano fatti avanti i legittimi discendenti testimoniando tutta la loro gratitudine al «piccolo viennese».

 

 

Natura e ambiente

 

Lo spazio di Schubert, per riprendere l’immagine di Buscaroli, fu brutalmente troncato prima che avesse avuto il modo di rafforzarsi e consolidarsi. Neppure per una solida acquisizione in ambito romantico (ove si rifiutino le etichette di comodo) ci furono il tempo e lo spazio per la piena rivendicazione di Schubert, promettentemente avviata da Schumann. (Il fatto, per esempio, che la musica romantica tendesse a realizzarsi nella musica strumentale autonoma e «assoluta», affrancata da testi, programmi e funzioni come espressione o intuizione dell’«assoluto incondizionato», secondo un principio artistico-filosofico poi ribaltato ma non rinnegato da Wagner – cardini che soffocarono lo spazio storico di Schubert -, influì all’inizio negativamente sulla ricezione di Schubert quale liederista e portò per così dire a una seconda riscoperta della sua produzione più riconosciuta). Qualora si accetti la sottile distinzione di Dahlhaus fra Romanticismo musicale, movimento letterario e filosofico che si riverbera anche sulla musica del primo terzo dell’Ottocento, e Musica romantica, completa estrinsecazione sul piano linguistico e formale di quelle premesse, definire univocamente romantico l’atteggiamento di Schubert, romantica la sua natura, apparirà quanto mai problematico. L’ambiente ovattato e raccolto nel quale egli visse, non richiedendo per sé quasi altro che la possibilità di un’operosità tranquilla e concentrata – possibilità che del resto non arrivò mai a veder realizzata stabilmente -, il carattere estremamente schivo e riservato – più che incapace, restio a battersi per conquistare una posizione o per affermarsi pubblicamente come compositore -, contrastano in modo singolare con la coscienza di sé, fondata su convinzioni estetico-filosofiche e sulla certezza di una mèta, che contraddistinguono, costituzionalmente e storicamente, l’artista romantico nelle sue accese aspirazioni ricolme di attivismo. L’uomo Schubert non parla volentieri di sé, delle sue idee, delle sue aspirazioni, non si mette in mostra, o quando lo fa, lo fa modestamente, sottovoce, senza lanciare proclami o credersi depositario di verità certe; e anche la sua musica, ove si eccettui il teatro, che fa questione a sé – ma bisognerà pure cominciare a porla -, rifugge dal gesto emblematico, dal colpo ad effetto: quando c’è, è come sottratto e reso enigmatico, prolungando verso l’ambiguità la sua risonanza.

E, tornando all’ambiente, lo stesso rituale delle famose «Schubertiadi», che il musicista subiva ma non suo malgrado, talvolta degradandosi a guidare le danze con una gioia che perfino ai suoi amici sembrava accanita e disperata (la gioia di rendersi utile e di comunicare, certo; ma come rimanendo assente, per stordirsi e non pensare ad altro), per nascere e venir rafforzata dalla volontà di non fare uscire l’artista prediletto, ma non compreso nella misura della grandezza del suo genio, dai confini sicuri di un mondo circoscritto, piccolo e insieme grande, di non fargli spiccare il volo verso le incognite di avventure pericolose forse più per gli altri che per lui stesso. E da chi, da che cosa era formato quest’ambiente, poi! Stanze fredde e umide, alloggi precari sovente cambiati, salotti di seconda categoria di una borghesia ansiosa di salire e avida di emanciparsi; e, quando capitava che si aprissero le porte di una vera casa aristocratica, quell’atmosfera irrespirabile data dall’esser trattato alla stregua di un estraneo costretto a mettersi in vista, a farsi valere, o comunque a rendersi utile. Ci si è ricamato sopra forse troppo, ma la realtà è questa. Quanto agli amici, i rappresentanti della leggendaria «cerchia» schubertiana: compagni di convitto tanto fedeli all’amicizia quanto lontani dalle misure dell’arte, molti dei quali fecero strada come amministratori e funzionari dell’impero, allontanandosi dal colloquio intimo con Schubert; furono però probabilmente i migliori. Gli altri: virtuosi bizzarri e insofferenti, come Vogl, ma soprattutto uomini irrealizzati, dilettanti con velleità artistiche, come Schober, e artisti di valore ma senza nome nè parte, come il buon pittore Schwind, che vivevano drammaticamente la loro dissociazione esistenziale; alcuni dei quali finirono pazzi, come Sauter, o suicidi, come il tormentato Mayrhofer, censore imperial-regio e poeta di tante liriche schubertiane. Messi accanto a chi, come Schubert, si era rifiutato di guadagnarsi da vivere con un lavoro sicuro ma non aveva mai rinunciato a coniugare la libertà dell’arte con l’esigenza di un rigoroso esercizio professionale.

Non era questa la Vienna che contava, quella che avrebbe potuto «riconoscere» Schubert. Eppure l’importanza di questa cerchia eterogenea e instabile non potrà mai essere esagerata nella biografia di Schubert: è questa una parte del suo mondo, questa l’atmosfera nella quale si materializzano le sue creazioni, che di tanto la trascendono. Solo quando vi dovrà rinunciare, malato e lasciato solo, per tornare a vivere dal fratello Ferdinand, Schubert capirà che, nonostante tutto, solo lì aveva trovato la vera felicità, sia pure per brevi attimi. Non vale chiedersi a quale prezzo. Di questo circolo egli si sentiva ed era il punto di equilibrio, l’asse centrale e aggregante di destini tanto individuali da sembrare universali, perfino eterni: il punto di confluenza e la valvola di scarico di tensioni imperscrutabili, oscillanti fra improvvise, inspiegabili euforie e altrettanto repentine, profonde depressioni. Schubert poteva sopportare, fino a che non capisse che ne sarebbe stato condizionato negativamente. Solo allora, ricorda Spaun, «ammutoliva e si ritraeva». Anche in questo contesto, con le sue nevrosi represse, i suoi bisogni mal soddisfatti, le piccole manie quotidiane, i silenzi che nascondono tumulti devastanti, l’immagine umana di Schubert ci appare, più che romantica, inquietamente, enigmaticamente moderna: una voragine aperta sulle proporzioni equilibrate e sulla spontaneità dell’espressione soggettiva di una natura armonicamente classica. Quel che lo domina è la tendenza alla rassegnazione. Il modo in cui si esprime è la malinconia, una malattia del secolo e sua personale.

 

 

Classico e romantico

 

Ma è sul piano dell’opera creativa che il discorso, anche dopo fondamentali contributi della storiografia schubertiana, rimane ancora aperto. Non si dice del teatro, o della musica sacra, delle opere corali sacre e profane, dei lavori «minori» d’uso e d’intrattenimento, dei pezzi lirici per pianoforte, ciascuno a suo modo essenziale per definire la fisionomia artistica di un musicista che è sempre inconfondibilmente se stesso qualunque di questi generi intraprenda. Anche l’immagine del maestro del Lied da un lato, del compositore alla ricerca di un linguaggio pienamente suo nel campo delle grandi forme quali la Sonata, la Sinfonia e il Quartetto dall’altro, non possiede, a quanto pare, quell’evidenza e quella finitezza che da sole consentono di guadagnare un posto chiaramente definito nell’evoluzione storica. Ove non ci si accontenti della formula mista di «classico della musica romantica», peraltro ragionevolmente adeguata, Schubert sfugge a una definizione e a una collocazione storica univoca ed esauriente, e ciò ha influito, oltre che sulla sua ricezione, anche sul modo in cui il problema è stato affrontato nel-le varie epoche, criticamente, storicamente, perfino metodologicamente. A fronte di una musicologia d’impianto tradizionale ancora impegnata a dibattere l’appartenenza di Schubert al versante classico o a quello romantico, si è venuta sviluppando in questi ultimi anni tutta una serie di studi particolari sulle caratteristiche linguistiche e formali dell’opera schubertiana, con metodi analitici che tendono a saldare un’esperienza novecentesca d’approccio oggettivo e strutturale alla molteplice varietà di quel momento storico nel quale Schubert appare sospeso, come in bilico fra tradizioni consolidate e nuove esigenze espressive. La monografia di Bernhard Paumgartner, discontinua ma fertile di spunti, rappresenta il tentativo di ricongiungere i due opposti momenti; egli scrive già nel primo capitolo: «Anche Schubert, nella inflessibilità professionale del suo modo di vivere, fu senza dubbio un “”classico””. Come uomo egli rimase, nell’intensità impareggiata della sua capacità di lavoro, sempre un positivo, lontano le mille miglia da tutte le tendenze mutevoli dei romantici. Egli non tende mai, come sovente si sente dire, alla dissoluzione della forma. Romantica è invece la sostanza originaria delle sue idee musicali, che sembrano quasi tutte provenire dal mondo cangiante e sconfinato dei suoni della natura, attraverso i quali si fissano lo sviluppo e la forma dell’opera compiuta. Così, anche la trama compositiva schubertiana, pur realizzandosi sotto la spinta di una coscienza rigorosamente “”classica””, sbocca, proprio a causa della sua inesorabile coerenza, a soluzioni nuove, individuali, “”romantiche””».

Si è già detto che l’immagine di Schubert si basò a lungo sulla convinzione che egli rappresentasse il punto d’arrivo di un vasto processo evolutivo, la vetta di un movimento culminato nella creazione del Lied romantico: un genere di composizione cioè che si qualificava essenzialmente per i contenuti poetici lirico-contemplativi, intrisi di toni di intensa soggettività, di confessione intima, di accentuata forza espressiva, racchiusi in una forma musicale di piccole dimensioni. Una tesi simile, per quanto nel complesso fondata, rischia di eludere il fatto che Schubert usò con disinvoltura, sia contemporaneamente sia in periodi cronologicamente lontani della sua attività, modi e forme di Lieder dalle tradizioni e dai caratteri assai diversi: dal semplice Lied strofico (una stessa musica per ogni strofa) o strofico «modificato» (a strofe alternate) o variato (nella melodia, nel ritmo, nell’armonia, nell’accompagnamento), al Lied durchkomponiert, ossia musicato per disteso; dal Lied in forma di ballata popolare a quello modellato sulla grande «scena» operistica a sezioni chiuse. Definire il tipo romantico sulla base di un unico modello sarebbe dunque fuorviante. E quale tipo privilegiare, in definitiva? Il Lied durchkomponiert, nel quale il processo compositivo si evolve parallelamente alla poesia e che appare sotto questo aspetto la forma più libera ed emancipata di monodia lirica, Schubert lo conquistò assai presto e lo stabilizzò, con alto tasso di pregnanza espressiva e di proprietà stilistica, nei primi Lieder su testo di Goethe, Gretchen am Spinnrad ed Erlkönig. Dopo, tese piuttosto a recuperare e a innervare di nuova linfa vitale il tipo classico della «semplice» forma strofica, plasmandolo in una nuova unità secondo principi formali desunti dalla tradizione sonatistico-strumentale, ed estendendolo alle raffinate trasformazioni e relazioni di cui sono permeati i sommi cicli o raggruppamenti liederistici. Detto icasticamente: l’aspirazione schubertiana di fare del Lied un’opera organicamente, in sè compiuta, portatrice di nuovi contenuti lirico-poetici, accentua, sotto il profilo compositivo, la dialettica interna di integrazione e differenziazione, ma non intacca il disegno formale di fondo, che sempre più tende ad assumere proporzioni classiche. (Ciò spiega perchè, anche a un primo ascolto, si ricavi l’impressione che l’urgenza espressiva, per così dire romantica, anziché dissolvere la forma, la fortifichi e la chiarifichi strutturalmente, organicamente, pur ampliando e moltiplicando le relazioni). Ancora più problematica risulta una caratterizzazione generale in senso classico della grande produzione strumentale schubertiana, vuoi per gli aneliti nuovi, romantici, che già Schumann vi ravvisò e che, per così dire, alzano il tono simbolico di una costante espressività, vuoi per la stessa influenza, diretta e indiretta, del Lied su di essa. Come integrare nella forma, senza dissolverla, quella tendenza espressiva e quella pregnanza di motivi lirico-contemplativi che si erano acquisiti attraverso la poesia musicale del Lied e a cui, costituzionalmente, non si poteva più rinunciare: questo fu il problema che Schubert si trovò ad affrontare nel campo delle grandi forme. (Che nella produzione strumentale schubertiana appaiano sovente temi e melodie di Lieder è soltanto la faccia esterna, evidentemente metaforica, del problema).

Se nei tempi lenti era possibile assumerne il modello e sottoporre le melodie e i temi liederistici a un’elaborazione puramente musicale e «aperta» (tanto che ad essa venne poi dato generalmente il nome, vuoto dal punto di vista analitico ma indicativo, di «forma di Lied»), più difficile era sciogliere i nodi degli altri movimenti, soprattutto di quelli estremi, e della stessa concezione globale dell’opera. Nel modo di risolvere questo problema legato alle grandi forme – una conseguenza emblematica del «dopo Beethoven» – si attua una vera e propria svolta nella carriera artistica di Schubert. Si è già osservato che manca qui, almeno a prima vista, quella continuità evolutiva che contraddistingue, sia pure in forme diverse, la produzione liederistica. Fra le prime cinque Sinfonie dell’adolescenza (1813-16), la giovanile Sesta (1818), l’Incompiuta (1822) e la Grande (1828) corrono distanze temporali, stilistiche e concettuali sempre più vistose, i cui vuoti intermedi lasciano sconcertati; e lo stesso vale per le opere pianistiche e da camera dell’impegno maturo, dopo l’attuarsi di quella svolta. In esse si ravvisa semmai la tendenza, che era stata beethoveniana e che sarà brahmsiana, ma che è specialmente schubertiana, ad affrontare determinati problemi linguistici e formali – sovente un’unico, stesso problema – a distanza ravvicinata, per gruppi di opere dello stesso genere, o a tiro incrociato, per trasposizione da un genere all’altro: l’Ottetto, i Quartetti in la minore e in re minore e la Sonata in do maggiore a quattro mani (febbraio-giugno 1824); le Sonate in do maggiore, la minore e re maggiore (aprile-agosto 1825); il Quartetto in sol maggiore esplicitamente richiamato dalla Sonata-Fantasia in sol maggiore (giugno-ottobre 1826); i Trii in si bemolle e in mi bemolle e le due serie degli Impromptus (seconda metà del 1827); le tre ultime Sonate in do minore, la maggiore e si bemolle maggiore (settembre 1828). Su tutti, quasi a racchiuderne il significato in un ultimo tratto, la Sinfonia in do maggiore (marzo 1828) e il Quintetto in do maggiore (agosto-settembre 1828).

 

 

Il problema della forma

 

In queste opere, il problema della forma è centrale. Schubert, che come compositore di rango non fece mai mistero di sentirsi alla ricerca della propria identità e che riconobbe soltanto di aver imboccato la strada verso questa mèta (in altri termini, la consapevolezza artistica diviene in lui a poco a poco consapevolezza storica), sembra affrontarlo con la coscienza di un equilibrio perduto, e da riconquistare con uno sforzo di sintesi fra piccole e grandi forme. Se questa è la mèta, la via appare irta di incognite. Certo è che Schubert non seguì dissennatamente Beethoven nelle ardite sperimentazioni del suo ultimo stile, benché ne tenesse conto soprattutto sul piano linguistico. Nelle ultime opere, piuttosto, egli tese a rinsaldare, rinnovandola, la forma sonatisticosinfonica, a riviverla come una totalità organica cui i tempi richiedevano più approfondite differenziazioni e più sottili distinzioni, ma non una messa in discussione. Di essa, Schubert non smette mai, come invece aveva fatto Beethoven da ultimo, l’apparato esterno, l’originaria articolazione in quattro movimenti (l’Incompiuta è un caso a sé, che anticipa tragicamente il momento cruciale della svolta), l’ordinato fluire ricollegato a ben definite stazioni formali (Beethoven aveva drammatizzato perfino lo Scherzo; Schubert invece guarda nostalgicamente alla nobile semplicità dei Minuetti di Haydn e di Mozart).

Se l’apparato esterno rimane immutato, quel che accade al suo interno nel processo formale è profondamente, concettualmente nuovo. Gli ampliamenti smisurati, la dilatazione degli spazi e degli eventi, perfino le necessarie «lungaggini» (anche quelle non schumannianamente «celestiali», ossia intrise di cantabilità), sono la conseguenza più diretta di questa concezione strutturalmente nuova e dell’esigenza che la sorregge. Le categorie formali della sonata classica si scambiano le funzioni: al movimento lineare ed energicamente attivo si sostituisce una logica circolare che procede per sospensioni, ripetizioni, collegamenti lontani e ritorni ciclici. La dialettica tematica si sfuma, non presenta più la nuda contrapposizione di blocchi tematici tonalmente definiti ma tende a integrare le figure in un unico sfondo monotematico su cui si stagliano, con evidenza simbolica sovente attinta al patrimonio liederistico, in controluce o in ombra, apparizioni di un’originaria, latente identità; alla contrapposizione tonale subentra una differenziazione modale – fondata sul rapporto Maggiore – Minore – dalle molteplici gradazioni, sorretta da una chiara simbologia armonica nei cui risvolti continuamente mutevoli, ora con scarti improvvisi ora con passaggi quasi impercettibili, sta forse il momento più elevato e profetico della ricerca linguistica schubertiana. La stessa categoria dello Sviluppo è assunta con finalità nuove, estesa all’intero processo formale come continua irradiazione di cellule e di motivi: esso non collega più elettivamente l’Esposizione alla Ripresa, i cui confini tendono ad allargarsi, ma permea di sé già l’Introduzione e le stesse sezioni tematiche, spesso ripercuotendosi anche sulla Coda e di lì al movimento che segue: come accade per esempio nel Quartetto «La morte e la fanciulla», dove il Lied originario parafrasato nell’«Andante con moto» appare, quasi magicamente, il risultato e la trasfigurazione del movimento iniziale. Coerentemente, dunque, la Ripresa allenta le funzioni coesive che le sono tipiche e diviene uno dei possibili ritorni del materiale tematico elaborato compositivamente, un punto culminante ma non risolutivo. (Questo procedimento diverrà addirittura un paradigma ideologico nei compositori del tardo Ottocento). Se Beethoven aveva disintegrato il meccanismo sonatistico finalizzato a una mèta sforzando i nessi e intensificando le prerogative dello sviluppo tematico, Schubert lo sospende moltiplicando e ampliando le relazioni e le trasformazioni, fino ad annullare il fondamento stesso di una mèta, di un centro immobile e unico. Ed è forse qui che i caratteri distintivi dell’opera creativa si saldano compiutamente con i tratti costitutivi della personalità artistica e umana di Schubert.

 

 

Il ritmo

 

Questo senso dello scorrere del tempo, del farsi di un linguaggio attraverso le sue molteplici incarnazioni musicali all’interno di un processo formalmente chiuso, sostanzialmente aperto, è quasi materialmente dato dal ritmo che ne scandisce il divenire. I ritmi di marcia schubertiani, che hanno il loro nucleo poetico nella figura-guida del Viandante dei Lieder, costituiscono il simbolo più impressionante e commovente di una angosciosa dialettica tragica che si misura con l’incalzare del tempo quasi facendone il metro e lo specchio del proprio iter creativo. Non si tratta più qui di mere, per quanto differenziate, elaborazioni ritmiche, di ritmi usati a fini strutturali, di ritmi tematici: è invece un ritmo ben altrimenti eloquente, sia che scandisca il misurato, ordinato succedersi degli eventi musicali, sia che prorompa baldanzoso e scoppiettante negli Scherzi e palpiti nei Trii – con larvate movenze di danze popolari all’aria aperta ormai lontane nella memoria -, sia che si arresti in inquietanti sospensioni per lasciare spazio a indugi melodici di pregnante, arcano pathos, per riprendere poi la corsa verso spazi smisurati, ora quasi «senza tempo». Ma quel che più agghiaccia è l’uso che Schubert ne fa nei problematici rituali da vera «danza macabra» di alcuni suoi Finali maturi, per esempio in quelli della grande ultima Sinfonia, della Sonata in do minore e del Quartetto in re minore, do-ve, nel vorticoso impazzire di un classico Rondò, par quasi di avvertire il passo inesorabile della nera falciatrice che si avvicina, insieme invocata e temuta.

 

 

Epilogo

 

Quando Schubert morì, aveva raggiunto e da poco superato i trent’anni. I suoi ultimi lavori, che sono dunque lavori di un artista appena alle soglie della piena maturità biologica, miravano, a quanto pare, a rinnovare un ideale di forma che rimaneva, nei suoi connotati fondamentali, classico, per quanto essi si giovassero degli affrancamenti che la musica strumentale assoluta e il Lied avevano ricevuto nella sua opera e fuori di essa. Era stato così possibile travasare nel Lied esperienze formali proprie della musica strumentale (gli ultimi cicli) e rivestire di nuovi contenuti poetici le solide travature delle grandi forme strumentali. E questo era stato un traguardo.

Per un giudizio adeguato, non meramente storicistico, si deve tener presente che questo traguardo, benché a noi appaia finale, costituiva per Schubert una fase di passaggio, forse un trampolino di lancio verso quella sintesi rifondatrice cui, con una coscienza di sé mai prima avuta, gli sembrava ora di poter aspirare. Opere come il Quintetto e la Sinfonia, nonostante la loro compiutezza e autonomia estetica, sembrano colmare ognuna appena un tratto di cammino, ma non esaurirlo; le tre ultime Sonate per pianoforte posseggono un’unità sostanziale di fondo tale da farcele vedere come l’indagine di un unico, grande problema tecnico-compositivo in tre fasi distinte ma strettamente connesse (fatto del resto ampiamente riconosciuto anche nell’usanza di suonarle insieme in concerto): e forse questo problema è quello di un nuovo pianismo, anche dal punto di vista prettamente strumentale, che, se sviluppato, avrebbe potuto porre Schubert in un ruolo meno precario nella storia del pianoforte e della sua interpretazione. La stessa specifica concezione formale di alcuni suoi ultimi lavori, in una tessitura generale che tende alla rifondazione della forma equilibrata e in sé compiuta, può stare ad indicare un delicato momento di passaggio nel quale gli equilibri sono spostati e dilatati ma, se non conducono mai allo squilibrio del caos, probabilmente presuppongono una tensione verso la chiarificazione di altri, più avanzati equilibri tra contenuti e forme. Noi, in altri termini, vediamo quelle opere «finali» in una luce prospettica falsata, accentuando così, a scelta, da un lato il peso dell’espansione verso l’universo della sensibilità romantica, dall’altro il contrappeso del ripiegamento verso l’ordine delle misure classiche.

La morte di Schubert ci ha sottratto non soltanto un punto di riferimento importante per la storia della musica dell’Ottocento ma anche la possibilità di veder percorso tutt’intero un cammino e di farcelo comprendere appieno. Fuori dal Lied, la cui parabola è così ampia da sembrare conclusa, la sua opera è intimamente incompiuta, non finita, e ciò spiega, da ultimo, la sua immagine sfuggente. In realtà, dunque, la domanda su cosa sarebbe stato se Schubert fosse vissuto più a lungo, in quale direzione avrebbe proseguito la sua opera, per quanto oziosa, è ineluttabile.

Un segnale esiste. Ed è la decisione, presa poche settimane prima della morte, di ricominciare da capo lo studio del contrappunto con un maestro di valore quale Simon Sechter. In questa singolare decisione vi sono l’ottimismo e la fiducia certa in un «nuovo inizio», tutto il peso di una responsabilità finalmente accettata in pieno e da non deludere: un senso, finalmente, non di modestia, ma di chiara presunzione. Gli ultimi segni musicali tracciati da Schubert, il 4 novembre 1828, sono un esercizio di scuola, l’esposizione di una fuga a due voci nella quale l’inconfondibile scrittura dell’«allievo» si mescola con le correzioni del maestro. E l’ultimo regalo, involontario, che Schubert ha lasciato alla bramosia famelica dei biografi: una morte senza punti esclamativi e senza testamenti spirituali.

Musicacittà, a cura di Luciano Berio, in collaborazione con Massimo Fino e Carlo Majer
47° Maggio Musicale Fiorentino

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