Franz Schubert – An Silvia D. 891; […]Richard Strauss – Mädchenblumen, quattro canti op. 22; […]Alban Berg – Sieben frühe LiederFrancis Poulenc – Fiançailles pour rireArnold Schönberg – Brettl-Lieder

F

Franz Schubert

An Silvia D. 891

 

Der liebliche Stern D. 861

 

Der blinde Fiabe D. 833

 

Auflösung D. 807

 

Du bist die Ruh D. 776

 

Richard Strauss

Mädchenblumen, quattro canti op. 22

 

Kornblumen

Mohnblumen

Epheu

Wasserrose

 

Ich wollt ein Straüsslein binden op. 68 n. 2

 

Suste, liebe Myrte! op. 68 n. 3

 

Als mir dein Lied crklang op. 68 n. 4

 

Alban Berg

Sieben frühe Lieder

 

Nacht

Schilflied

Die Nachtigall

Traumgekr int

In Zimmcr

Llebcsode

Sommertage

 

Francis Poulenc

Fiançailles pour rire

 

Le dame d’André

Dans l’herbe

Il vole

Mori cadavre est doux corame un gant

Violon

Fleurs

 

Arnold Schönberg

Brettl-Lieder

Der Genügsame Liebhaber

Aria aus dem “”Spiegel von Arkadien””

Mahnung

Gigerlette

Verso e oltre il crepuscolo del lied

 

Il programma che Barbara Hendricks e Roland Poentinen presentano questa sera offre uno spaccato della evoluzione del Lied fra Otto e Novecento, verso e oltre il suo splendido crepuscolo. Nato nel primo Ottocento come espressione massima dell’intimismo romantico in un connubio perfetto di poesia e musica, il Lied nella forma principe dell’unione di canto e pianoforte divenne un genere capace di spaziare all’interno dei sentimenti e degli stati d’animo più differenziati, creando una rete di associazioni sempre più estesa sotto il profilo sia psicologico che musicale. Dopo la fioritura romantica, che ne aveva per così dire spremuto l’essenza nella molteplicità delle sue diverse manifestazioni tanto domestiche quanto tese all’assoluto, il Lied tedesco si collocò ai confini della storia, riassorbito com’era da altre e più ambiziose conquiste, senza tuttavia cessare di esercitare dai margini il suo influsso anche in campi attigui, dal teatro alla sala da concerto, e di rappresentare per i compositori cresciuti nella sua tradizione – come Strauss, Schönberg e Berg – un fenomenale banco di prova. L’aura crepuscolare che avvolge i loro Lieder per canto e pianoforte, dove la voce sempre più tende ad abbandonare il tracciato della pura melodia e il pianoforte si impone quasi come sostituto dell’orchestra, fino a richiederla esplicitamente, non è soltanto un dato storico ma anche un elemento di carattere psicologico, disposizione aperta alla sperimentazione e dunque al superamento della contemplazione lirica: sognare nel crepuscolo equivale a creare non solo illusioni d’incantata bellezza, in attesa che, oltre il crepuscolokmsorga una nuova aurora.

 

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Ben diversa è questa nuova aurora del tardo Ottocento e del primo Novecento da quella di Franz Schubert, che apre la stagione del Lied romantico: radiosa nella scoperta di un mondo poetico -musicale illimitato nelle sue possibilità combinatorie, equilibrata nell’economia dei mezzi anche quando nelle sue pieghe si celino, in pari tempo espressi e inespressi, segnali ambigui, riferimenti oscuri. I cinque brani che di lui ascolteremo sono intrisi di intensa soggettività, permeati da un lirismo che trova il proprio spazio dal punto di vista musicale nel nesso tra contenuto poetico e configurazione formale, che completa sotto l’aspetto architettonico e tonale una linea melodica di marcata cantabilità. Ora è un verso o la strofa (talora perfino una parola, una assonanza o una rima) a determinare la cadenza della melodia, l’ordito dell’accompagnamento pianistico; ora è la caratteristica ritmica, metrica o formale a guidare unitariamente il processo musicale attraverso ripetizioni, varianti, variazioni e metamorfosi; ora è il tono generale del contenuto poetico a ispirare o plasmare, in una profonda penetrazione di suggestioni emotive e di stati dell’animo, il clima musicale: così che questo si sovrappone alla stessa articolazione dei versi e la trasfigura. Quasi a suggellare il rilievo della musica si ha allora l’aggiunta di brevi, pregnanti preludi o interludi pianistici, o l’insistenza su sfumature caratterizzanti, alcune delle quali, come l’alternanza tra modo maggiore e modo mino-re o il collegamento armonico per terze, assumono il significato di un vero e proprio codice cifrato. Il testo è un impulso che può essere minuziosamente registrato come in un sismografi), o ripercuotersi anche molto lontano, in regioni psichiche e spirituali nascoste nel profondo.

Modi e forme dalle tradizioni e dai caratteri assai diversi si annodano in queste pagine che innalzano il canto a principio d’individuazione di uno stile. La prima di esse, An Silvia D. 891, fa parte di un piccolo ciclo di tre Lieder composti nel luglio 1826 su testi di Shakespeare nella traduzione di Eduard von Bauernfeld: la serenata cantata sotto le finestre di Silvia nel quarto atto de I due gentiluomini di Verona diviene un Lied stronco dallo slancio irresistibile, tenero e lminoso, grandiosamente evocativo di sotterranee intermittenze del cuore e di non meno misteriose consonanze tra mondi solo apparentemente lontani. Dcr liebliche Stern D. 861 è il secondo di tre Lieder su testi di Ernst Schulze composti di getto il 12 dicembre 1825: utile verifica di come per Schubert non vi fosse distinzione tra poeti grandi e piccoli, quando un’immagine poetica (qui la contrapposizione tra una diffusa contemplazione nella melodia e una inquietudine interiore nell’accompagnamento pianistico sincopato) accendesse la fantasia del compositore. È ancora la poesia inglese, nella fattispecie quella di Collev Cibber nella traduzione tedesca di Jakob Nikolaus Craigher, a ispirare il Lied Der blinde Knabe D. 833, dell’aprile 1825: nella sua semplicità una delle pagine più commoventi di Schubert, tutta giocata sulla pacata, solidale consolazione di una tragica, simbolica infermità. Con Auflnsung D. 807 (marzo 1824) e soprattutto Du bist die Ruh D. 776 (1823) siamo trasportati ai vertici del Licd schubertiano: il primo, su testo di Johann Mavrhofer, è un brano drammaticamente appassionato che raggiunge la densità estatica, altra faccia di quella estatica fissità lirica che l’inno alla pace di Friedrich Rückert celebra con accenti musicali di calma, definitiva acquisizione, mutando la rassegnazione in rigenerata forza vitale.

 

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Il ciclo Mädchenblumen op. 22 su testi di Felix Dahn (1834 – 1912) fu composto da Richard Strauss nel marzo 1888, in un periodo di intensa fascmazione per il Lied per canto e pianoforte e alla vigilia della folgorante affermazione di una nuova fase della sua produzione (la più nota, accanto a quella operistica) con il poema sinfonico Don Jucin. Si tratta di quattro Lieder su temi “”floreali””, ognuno dei quali ne illustra appunto una specie in immagini preziose e assai raffinate, ancor più di quanto descriva il testo: rispettivamente i Fiordalisi (Kornblumen), i Papaveri (Mohnblumen), l’Edera (Epheu) e la Rosa d’acqua o Ninfea ( Wasserrose). Il titolo complessivo del ciclo, “”Fiori-fanciulle””, curiosa metamorfosi delle “”fanciulle-fiore”” parsifàliane e variante della poetica delle jeunes filles en fleurs di tanta letteratura moderna, allude a una simbologia che accosta analogicamente fiori e fanciulle in un comune destino di effimera felicità minacciata, e anzi presto devastata, dalla perdita della purezza o dalla morte precoce: lo sfiorire ineluttabile, più che il rigoglioso fiorire, è lo stato d’animo che la musica di Strauss vuole fissare, concentrando la bellezza della visione in un istante tanto utopico quanto meravigliosamente ideale, magicamente fiabesco. Gran parte di queste suggestioni sono affidate, più che al canto, alla presenza dominatrice del pianoforte, ai suoi timbri non meno che alle ricchissime, variegate armonie: emblema di un ribaltamento tra gli clementi del Lied che mira al decorativismo coloristico, alla tavolozza timbrica più che alla nettezza del disegno e dei contorni.

A un’epoca successiva e profondamente diversa della carriera di Strauss – l’anno di composizione è il 1918, tra febbraio e maggio – appartengono i Sechs Lieder nach Gedichten von Clemens Brentano op. 68, di cui qui vengono presentati il secondo (Ich wollt ein Sträusslein binden), il terzo (Säusle, liebe Myrte!) e il quarto (Als unir dein Lied erklang), dedicato, quest’ultimo, “”alla mia Pauline””. Si tratta di brani assai depurati e quasi privi di pathos, poco inclini, nonostante il ritorno di immagini floreali, a descrittivismi e variazioni coloristiche, e tesi invece a rendere una suggestione di estrema rarefazione espressiva. Qui si coglie, del crepuscolo straussiano, l’aspetto più intimo e delicato, il sorriso partecipe ma non compiacente che si distende scorrendo tranquillo e sereno nel canto, appena increspato da un tracciato pianistico che sembra provenire da lontano (Schumann in controluce), eco di ricordi e di improvvisi trasalimenti non più in grado di ferire né di alimentare perdite antiche.

 

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Con il titolo di Sieben frühe Lieder (Sette Lieder giovanili) Alban Berg pubblicò nel 1928 in una duplice versione, quella originaria per canto e pianoforte e quella appena orchestrata, una scelta di sette pezzi scritti negli anni di studio con Schönberg, tra il 1905 e il 1908. L’ordine in cui Berg li dispose non corrisponde a quello cronologico; i più antichi risalgono al 1905 e sono Im Zimmer (n. 5) su testo di Johannes Schlaf e Die Nachtigall (n. 3) su testo di Theodor Storm. Del 1906 è la Liebesode (n. 6) su versi di Otto Erich Hartleben, dell’estate 1907 Traurngekrönt (n. 4) di Rilke, del 1908 Schilflied (n. 2) di Nikolaus Lenau, Nacht (n. 1) di Carl Hauptmann e Sommertage (n. 7) di Paul Hohenberg. Già l’elenco dei nomi dei poeti indica che non vi è alcuna ricerca di unità nell’insieme dei sette Lieder: due noti protagonisti della letteratura dell’Ottocento come Lenau e Storm si trovano affiancati a scrittori contemporanei di diversa estrazione e fama, e perfino a un amico di Berg, Paul Hohenberg, che era stato suo compagno di scuola. Tuttavia l’ordine della serie è rivolto a cercare tra pagine non omogenee, e tanto meno nate organicamente, un percorso evolutivo non lineare ma già consapevole delle svolte e degli influssi più o meno dichiarati che avevano presieduto alla loro nascita; in altri termini, Berg sembra applicare qui una sorta di autocritica alla sua stessa esperienza di compositore, scandendo nella successione dei suoi Lieder giovanili prima i punti estremi – costituiti da Nacht, primo della raccolta ma ultimo in ordine di composizione, e da Sommertage, ultimo di nome e di fatto – e poi via via tutti i passaggi intermedi con i riferimenti al-la tradizione del Lied romantico così come essi si manifestavano nei singoli brani. E se da un lato questi riferimenti sono evidenti e spaziano da Schubert a Schumann, da Brahms a Wolf e Mahler per aprirsi da ultimo alla scrittura più moderna derivata dall’insegnamento di Schönberg, dall’altro lato l’autore sembra osservare qua-si con orgoglio l’emergere di una personalità originale, la propria, con accenti, toni e caratteri che si liberano della tradizione con gesto consapevole.

Sicché non stupisce che molti anni più tardi, nel 1928, Berg recuperasse nel pieno della sua maturità questi Lieder provvedendoli di una strumentazione che non solo ne assicurò la circolazione su più vasta scala ma ne realizzò ulteriormente le qualità implicite, svelando fino in fondo proprio il tratto originale innestato sul ceppo di una lucida assimilazione dell’eredità romantica prima, moderna poi. E ciò che sembrava frutto di un apprendistato giovanile si mostrò ipoteca di uno stile individuale; fatto che appare in modo inequivocabile, sotto l’aspetto compositivo, proprio nella primitiva versione per voce e pianoforte, che di quello stile è la quintessenza rivelata: ben più di una semplice prova d’autore.

 

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Se i Lieder di Berg appartengono a pieno diritto all’aurora di una nuova età della musica che di lì a poco sarebbe esplosa con l’espressionismo, tranciando di netto ogni rapporto consolidato con la tradizione classica, i Brettl-Lieder di Arnold Schönberg rappresentano un caso clamoroso – tanto più clamoroso considerando l’evoluzione del loro autore, il più rigoroso esponente della spiritualità

novecentesca applicata alla musica – di contaminazione tra genere colto e leggero, di sperimentazione tra invenzione e parodia. Siamo alla preistoria di Schönberg, all’epoca in cui per guadagnarsi da vivere egli svolgeva l’attività di direttore e strumentatore di operette, partecipando per così dire dal basso, da intellettuale privo di intellettualismi, a quel fervore di iniziative che trovarono nella Berlino dell’inizio del secolo un terreno quanto mai fertile di stimoli e di proposte effervescenti: l’avanguardia artistica dei circoli letterari, teatrali e musicali allo stato nascente. Fu

lavorando come direttore d’orchestra presso un teatro di varietà fondato a Berlino da Ernst von Wolzogen, 1’””überbrettl””, a cui facevano capo poeti come Dehmel, Wedekind e Otto Julius Bierbaum, autore di un volume di poesie in stile di cabaret intitolato Deutsche Chansons (1900), che Schönberg musicò nel 1901 alcuni testi nati tutti da questo circolo letterario, salvo un’aria sbarazzina alla Papageno di Emanuel Schikaneder, e divenuti poi noti con il titolo di Brettl-Lieder: “”canzoni da cabaret””, appunto, più che veri e propri Lieder. Nelle quali, con vena ora di denuncia ora di satira, ora graffiante ora ironicamente disperata, si irrideva ai falsi valori dei nuovi potenti, al conformismo e alla volgarità di un’epoca già avviata verso la dissoluzione; il tutto con una serietà degna dei più ascetici veggenti. Ascoltare oggi queste canzoni solo apparentemente spensierate ed evasive, nelle quali l’immediatezza dello stile leggero si appoggia sulle solide basi di una profonda compenetrazione nella dignità dell’arte e dello spirito, divertendo e facendo pensare, desta un sottile brivido: qui anche il crepuscolo si consuma allegramente, e la notte, compiuto il periplo, annuncia la totale oscurità con i più orribili incubi. Dopo aver perduto, fatalmente, ogni iridescenza allegorica nei giochi sublimi evocati da Schikaneder nello Specchio d’Arcadia, riflesso d’infantili ombre mozartiane luccicanti di desiderio.

 

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Abbiamo lasciate per ultime, benché nel nostro programma siano inserite tra i fantasmi aurorali di Berg e quelli notturni di Schönberg, le sei ariose liriche che Francis Poulenc compose nel 1939 su testi di Louise de Vilmorin, Fiancailles pour rire: un ciclo che con la tradizione del Lied propriamente inteso non ha nulla a che fare, e che deriva piuttosto dal genere della melodie francese, cui Debussy e Ravel avevano dato spessore e preziosità novecentesca, rilevando una tradizione non meno aurea e differenziata di quella tedesca. Poulenc, oltre a essere un grande pianista, possedeva al massimo grado il dono raro della melodia, quasi originariamente pervasa di grazia e spontaneità, chiarezza e naturalezza. E se la facilità e la brillantezza della sua vena rispecchiavano la natura mondana e perfino un po’ scandalosa del personaggio, enfantgaté della società parigina per mezzo secolo e amico della maggior parte dei grandi artisti contemporanei, nella sua personalità di compositore le manifestazioni più frivole della vita e dell’espressione coesistevano con risonanze inquiete e talora fortemente drammatiche. Anche in questo ciclo la purezza di una fonte viva sembra sgorgare al di fuori e al di là di pretese sperimentali o intellettuali per dare libero corso soltanto all’invenzione e alla seduzione della musica, precisandone le atmosfere con slanci di libera improvvisazione. E la sua originalità sta nel modo in cui un’apparente, scherzosa banalità si anima, trasfigura e supera in una vasta gamma di sentimenti che vanno dalla gravità allo humour, dalla buffoneria alla malinconia, senza mai esibire ambizioni sofisticate ma realizzando con eleganza arguta la sensazione di un’indefinibile nostalgia, implacabile e sfuggente: come di chi, per descrivere un sogno, sentisse il dovere di essere infinitamente sveglio, eternamente presente nell’instabilità e nel mutare delle cose, serie anche nel riso, leggere anche nella gravità.

Barbara Heindricks e Roland Poentinen
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1993-94

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