“”Orfeo, cioè l’Arte””
Franz Liszt viene generalmente considerato l’inventore della musica a programma. S’intende con tale espressione un genere di lavoro ispirato da suggestioni extra-musicali, per lo più di argomento letterario, secondo una tendenza molto viva nella cultura romantica dell’Ottocento e che ingloba, prima di Liszt, anche Berlioz e Schumann e, dopo di lui, vari esponenti delle scuole nazionali, come Smetana e Dvořàk, fino all’apice toccato da Richard Strauss. Coniando il termine di Sinfonische Dichtung – poema sinfonico – Liszt dette a questa tendenza un nome e un carattere: precisi però più sotto l’aspetto formale (composizioni di varia durata, ma tutte per grande orchestra e in un solo movimento) che contenutistico. Nascendo in primo luogo da predilezioni personali, questi riferimenti a testi letterari o a soggetti pittorici sono riferimenti d’ambiente, di stile, di situazione, vagamente determinanti ai fini della concezione strutturale del pezzo, che rimane legato a dettami rigorosamente musicali e a forme tradizionali, anche se liberamente interpretate e condizionate dalla necessità di non costituire soluzione di continuità. Il titolo, il testo premesso alla partitura sono spesso soltanto dichiarazioni del compositore circa le motivazioni interiori della sua decisione di accingersi a comporre e, se si vuole, tutt’al più indicazioni di letture atte a creare per l’ascolto uno stato d’animo aderente a quello del compositore.
Orpheus, quarto dei dodici poemi sinfonici composti da Liszt durante il fecondo periodo di Weimar, cioè negli anni dal 1849 al 1861 (un tredicesimo e ultimo seguirà nella tarda età), conferma in modo esemplare questo carattere, sia nel programma che nella sostanza. Esso nacque sull’onda dell’entusiasmo per l’Orfeo di Gluck, come prologo introduttivo alla messa in scena dell’opera curata da Liszt stesso a Weimar nel 1854. La pubblicazione avvenne due anni dopo, presso Breitkopf & Härtel. Nel programma premesso alla partitura Liszt elogiava la toccante e sublime semplicità del grande maestro nel trattare uno dei più poetici miti della Grecia, simbolo rivelatore all’umanità della potenza benefica e della armonia civilizzatrice dell’arte. Poi proseguiva: “”L’umanità, benché guidata dalla più pura delle morali, istruita dai dogmi più sublimi, illuminata dai fari più brillanti della scienza, messa in guardia dai filosofici ragionamenti dell’intelligenza, circondata dalla più raffinata delle civiltà, ancor oggi come allora e come sempre conserva dentro di sé istinti di ferocia, di brutalità e di sensualità, che l’arte deve intenerire, addolcire, nobilitare. Oggi come allora e come sempre, Orfeo, cioè l’Arte, deve spargere le sue onde melodiose, i suoi accordi vibranti come una luce dolce e irresistibile sugli elementi contrari che feriscono e fanno sanguinare l’anima di ogni individuo e il cuore stesso di tutta la società. Orfeo piange Euridice, simbolo dell’ideale inghiottito dal male e dal dolore, che egli ha il permesso di strappare ai morti dell’Erebo, di fare uscire dalle tenebre cimmeriche ma che, ahimè, non saprà conservare su questa terra. Possano mai più tornare quei tempi di barbarie quando le passioni furiose, come menadi ebbre e sfrenate, vendicandosi del disprezzo dell’arte per i loro piaceri grossolani, lo fanno perire coi loro tirsi portatori di morte e le loro stupide furie””. E questo dunque l’argomento del poema sinfonico; ad esso doveva seguire un epilogo conciliante da posporre alla rappresentazione, che però non fu composto. Liszt ne accennava nella conclusione del programma: “”Se avessi potuto formulare fino in fondo il mio pensiero avrei desiderato rendere il carattere serenamente civilizzatore dei canti e di tutte le opere d’arte, la loro soave energia, il loro augusto impero, la sonorità che nobilmente alletta l’anima, il loro ondeggiare dolce come la brezza dell’Eliso, il loro graduale alzarsi come vapori d’incenso, l’atmosfera diafana e azzurrata in cui avvolgono il mondo e l’intero universo come in una veste trasparente d’ineffabile e misteriosa armonia””.
L’Orfeo che ci viene incontro nelle battute iniziali del poema sinfonico di Liszt è la rappresentazione di questa armonia che precede la tragedia, affidata a una musica semplice e piana. L’apollineo del mito è confinato al solo “”Andante”” iniziale: ben presto la “”soave energia”” diviene cantabilità calda e tormentata, avviluppata su un tema in canone tra corno inglese e clarinetto, cui segue una melodia più spianata fondata sullo sviluppo di questo dialogo. Al centro della composizione sta una prepotente esaltazione delle sonorità, irruzione tragica che a poco a poco si richiude su se stessa digradando cromaticamente fino a una sorta di ripresa, in cui prevale l’intonazione dolente. La conclusione, irta di spigolosi singhiozzi dei fiati che si placano solo nel lunghissimo accordo finale, è caratterizzata da un visionario allargarsi dell’armonia verso l’acuto e verso il grave, fino a una dispersione totale della sonorità nella maestà del dolore. E un momento solenne di disperazione in cui sarebbe vano cercare l’ottimismo della forza catartica dell’arte, spazzata via dagli istinti più feroci. Liszt abbandona Orfeo nella desolazione della barbarie: e la sua musica è la voce del silenzio dopo le catastrofi.
Zubin Mehta / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
60° Maggio Musicale Fiorentino