Fontane, pini e altro: il descrittivismo paesaggistico di Respighi, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1988

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Fontane, pini e altro: il descrittivismo paesaggistico di Respighi

 

In un saggio apparso per la prima volta nel ’33 e ripubblicato sotto nuovo titolo nel ’44 nella raccolta Cent’anni di musica moderna, Massimo Mila scriveva a proposito di Respighi: «Con le famose Fontane di Roma ( 1916) egli dava una delle prime affermazioni positive e convincenti del rinnovato sinfonismo italiano, libero ormai dalla schiavitù melodrammatica se non dall’imitazione di modelli stranieri. Una delle prime, ma si vorrebbe dire la prima, nonostante altri in quel tempo avesse già dato ragguardevoli saggi di musica pura: ma questi erano improntati a uno spiccato carattere sperimentale e d’avanguardia, ispirati a recentissime esperienze straniere, promesse d’un ordine nuovo che solo più tardi avrebbe trovato in Italia il suo tempo»(1). E poi di seguito Mila chiariva: «La modernità di Respighi è d’una generazione anteriore rispetto a quella dei Casella e dei Malipiero, è molto più vicina a Strauss che a Stravinsky, a Debussy che a Ravel» (2).

La felice formula coniata da Mila, che vede in Respighi un «artista di transizione» operante in un «intervallo d’attesa» protratto nel tempo anche oltre i mutamenti delle circostanze storiche (3), sembra racchiudere la figura del compositore in un quadro non privo di contrasti ma saldamente definito nei contorni ed equilibrato nelle proporzioni, tale che ci risulta immediatamente riconoscibile e identificabile. Perfino elementi in apparente opposizione – come quelli della modernità e di un rinnovamento del sinfonismo italiano del pari estranei alle correnti sperimentali e d’avanguardia – si compongono nel ritratto di lui in bella armonia. La sua fortuna, costante nel tempo, non ha mai subito revisioni o inversioni di tendenza, neppure in epoca più recente: alla nebbia che avvolge il teatro, dove Respighi si dimostra più sensibile alla seduzione di tentazioni moderniste (4), fa riscontro la luminosa freschezza dei poemi sinfonici, veicolo di una fama internazionale e di un successo perfino popolare: cosa, questa, nient’affatto ovvia nel caso di un compositore del Novecento italiano, e per di più in un campo come quello della musica sinfonica.

D’Amico ha brillantemente spiegato in che cosa consista questa perpetua freschezza di certa musica di Respighi. Non in qualcosa di stilistico o formale, ma in un dato spirituale: l’assenza di quel sentimento di crisi (e di «critica» e di «problema») che degli altri suoi coetanei italiani, nelle direzioni più diverse, è invece la premessa (5). La definizione di Respighi artista estraneo ai problematismi dell’epoca e insieme creatore di musiche vive sembra essere nel panorama novecentesco – che si orienta sulla rappresentatività dell’impegno e della ricerca – inattuale, se non contraddittoria: spiegabile soltanto, come Mila aveva precocemente intuito, collocando Respighi in un «intervallo di attesa» che si prolunga nel tempo nonostante il mutare delle condizioni storiche, al fine di garantirsi non soltanto un margine di autonomia ma anche un punto esterno di fermo equilibrio.

In Respighi questo atteggiamento non è la conseguenza di una presa di posizione ideologica, bensì la manifestazione di una connaturata necessità espressiva, quasi inconscia e spontanea, che determina il modo di accostarsi e di intendere la musica. Come scrive ancora D’Amico, Respighi rappresenta «la figura d’un poeta d’immagini valide in quanto immagini, ratificate dalla pura e semplice condizione d’immagini, ossia d’immagini altrettanto attraenti quanto moralmente indifferenti» (6). Questa poetica dell’immagine s’individua nei poemi sinfonici romani come qualcosa di assoluto: Fontane di Roma (1916), Pini di Roma (1924) e Feste romane (1928) ripetono a distanza di anni la celebrazione dell’immagine attraente e gratificante, riempiendo di suoni e di gesti fastosi quell’intervallo d’attesa in cui Respighi s’apparta per esprimere anche la sua diffidenza verso la dimensione intellettualistica della musica pensata e impegnata.

Osservati da questo punto di vista, i poemi sinfonici di Respighi hanno caratteristiche tali da farne sembrare la sottotilazione alquanto incongrua. Non conoscendo l’indole mite del compositore, si potrebbe pensare perfino a un intento provocatorio o a una sfida, che invece sarebbero del tutto fuori luogo. La critica, specialmente quella giornalistica, è caduta sovente in un tranello, tirando in ballo il nome di Strauss per riscontrare alcune supposte affinità o discendenze: a tanto portano le associazioni automatiche. Ma allora perché non rifarsi direttamente alle origini, cioè a Liszt? In realtà i poemi sinfonici di Respighi non hanno niente in comune con l’omonimo genere ottocentesco e con Strauss in particolare, e non rientrano neppure in senso stretto nella categoria romantica della musica a programma: ad essi è costituzionalmente estraneo il riferimento a uno specifico contenuto extramusicale e a un altrettanto specifico stile sinfonico. In altri termini, rispetto a Respighi di ben altro tipo è il referente contenutistico – sia esso letterario, psicologico, spirituale o concettuale – del poema sinfonico ottocentesco e del suo programma estetico di marca romantica, tutto teso a interiorizzare e spiritualizzare la musica per farne un atto di espressione e di confessione totale. Del pari assente è quella continuità del flusso orchestrale che mira, sull’esempio di Wagner, e con un’armonia cromaticamente finalizzata, ad allargare gli spazi simbolici della musica, a concatenare tematicamente, in un arco unico e coerentemente sviluppato, le suggestioni legate a un poema, a una storia, a un personaggio: condensando sinfonia e dramma, introspezione e narrazione.

Non a ciò, a una interiorizzazione della musica per mezzo della continuità ininterrotta dello sviluppo sinfonico, mirano i poemi sinfonici di Respighi, ma semmai al contrario, cioè alla esteriorizzazione dell’immagine; e non in modo da esprimere direttamente l’io dell’autore, ma la visione che il mondo esterno gli suggerisce, sotto forma di paesaggi, spettacoli naturali, opere d’arte, monumenti di storia. A Respighi non interessa spremere il succo da sottintesi letterari o psicologici, ma reagire in modo sensibile e partecipe a certe sollecitazioni formali del mondo circostante, e farne materia di evocazione sonora.

Per trovare un ascendente, dobbiamo perciò abbandonare l’Ottocento e incrociare un altro filone, quello della musica descrittiva dei secoli precedenti, anteriore al travaso nel gran fiume romantico. Inscrivere senz’altra precisazione i poemi sinfonici di Respighi nell’orbita della musica descrittiva sarebbe però ugualmente azzardato. In questa luce tuttavia non pare ingiustificato vedere nella loro fioritura un esito assai speciale di quel movimento caratteristico della musica italiana del primo Novecento che tese a ristabilire i legami con il passato, riscoprendo e rinnovando l’antico: movimento in cui del resto Respighi stesso fu tra i protagonisti. Se in opere come Gli uccelli (1928) o le Antiche arie e danze la saldatura di antico e di moderno è immediatamente percepibile, nella veste sgargiante dei poemi sinfonici romani sembrano rivivere – quasi ombre – lo spirito del madrigale rappresentativo cinquecentesco, insieme aristocratico e popolaresco, lo sfarzo dei contrasti accesi dell’arte barocca, cui l’occhio attinge per ricavarne sensazione sonora, la forza figurativa del nuovo descrittivismo strumentale: ma in forma mascherata dalla solidità di un meticoloso ordine strutturale, distribuito con equilibrata economia, e dalla ricchezza affatto moderna delle risorse della tavolozza orchestrale. È su questo piano che il linguaggio di Respighi afferma la sua attualità; «antichi» restano però i contenuti, e in duplice senso: come rifiuto di un peso psicologico e critico che possa influire sulla neutralità della musica e trasformarla soggettivamente, da un lato; come scelta di immagini emblematiche appartenenti al passato o inserite in una tradizione antica, consolidata, aristocratica e popolare, dall’altro.

Si spiega così la visione di Roma nei poemi sinfonici di Respighi. Essa non nasce da uno stato d’animo decadente, crepuscolare, estetizzante, men che mai dannunziano, ma da un vero e proprio culto della bellezza della «città eterna» e della sua civiltà, che si esprime nelle sue opere d’arte, nei suoi paesaggi, nella sua storia e nelle sue tradizioni. Respighi glorifica il mito di Roma, senza voler dare a questa celebrazione alcun significato ideologico: gli oggetti della sua contemplazione evocano sensazioni e visioni ora solenni, ora trionfali, ora radiose, ora nostalgiche, ma come se si trattasse di realtà immutabili e oggettive, di per se stesse eloquenti; colte, sempre, nel momento di massima armonia col paesaggio circostante e nelle condizioni in cui la loro bellezza significante possa rifulgere, interamente, in modo pittoresco (7).

In questo senso le fontane, che sono «la voce stessa di questa città », e i pini, testimoni muti di giochi di bimbi, di canti e di antiche processioni (8), appartengono a un paesaggio ideale, che si uniforma all’immagine stessa, universale, di Roma. Di fronte alla traduzione musicale di Respighi ogni ascoltatore di qualunque paese non avrà difficoltà a sentire quell’immagine come vera e attraente, la conosca dal vivo o dai libri. Tanto più che la sua suggestione fa palpitare l’eco di ricordi lontani e di fantastici ripensamenti: per esempio delle descrizioni fatte in epoche diverse, ma con uguale trasporto, da poeti, letterati e viaggiatori; per non dire delle memorabili trascrizioni dei musicisti, Liszt in testa. È questo paesaggio ideale, trasfigurato ma pur sempre riconoscibile nella sua identità, a rivivere nei poemi sinfonici di Respighi: guardato per così dire con l’occhio sensibile di una coscienza comune e impressionato da sensazioni e visioni musicali suscitate quasi per reazione spontanea, oggettivamente immediata.

Si vuol dire che il descrittivismo paesaggistico di Respighi è la traduzione in suoni delle impressioni che può provocare, in ogni persona dotata di gusto e di cultura, o anche semplicemente sensibile, la visione di quei luoghi imperituri di Roma, carichi di storia e di vita, d’arte e di memorie: una traduzione animata e grandiosa, come se essi stessi improvvisamente cominciassero a esprimersi per mezzo della musica. Non mancano a questo proposito veri e propri effetti di tipo naturalistico: rintocchi di campane, canti di uccelli, brusii di foglie, scrosci d’acqua; ma anche squilli potenti di búccine nella rievocazione di Roma antica, o citazioni di danze e melodie caratteristiche in quella della Roma popolare.

Determinante è però la veste del linguaggio scelto per la descrizione. Da un lato la profilata nettezza dei temi, che sembrano quasi il corrispettivo delle immagini visibili; dall’altro la ricchezza coloristica e plastica della materia orchestrale, esaltata dall’uso magistrale delle combinazioni e degli insiemi strumentali. Nasce di qui, dalla fusione dell’evidenza tematica con la qualità affatto moderna dell’orchestrazione, lo stile personale di Respighi. Decisiva è altresì la rinuncia al principio dello sviluppo sinfonico e tematico in favore di una articolazione per quadri staccati, autosufficienti e compiuti in se stessi, che si diversificano sia per carattere sia per atmosfera e si tramutano l’uno nell’altro impercettibilmente, succedendosi secondo una tecnica che ricorda quella cinematografica della dissolvenza. Prima di sfumare, l’immagine viene colta e messa a fuoco, diviene sequenza che vive animandosi, poi si richiude su se stessa: impreziosita di sensazioni e paludata di ricchi drappeggi rimane consacrata e intatta nella sua fulgida bellezza.

La partizione di ogni poema sinfonico in quattro quadri o scene o semplicemente episodi nasconde forse l’intelaiatura della sinfonia classica. La loro disposizione non segue però dinamiche prestabilite schematicamente né tanto meno forme preordinate, dosando invece la varietà e l’alternanza in base ad associazioni di pensieri, di suggestioni, di ricordi, di spunti sentimentali o fantastici. E non c’è alcuna remora a raggruppare – per esempio nei Pini – visioni puramente paesaggistiche e naturalistiche – il primo e il terzo episodio – e rievocazioni di remote pagine di storia romana con i loro suoni e i loro strumenti: l’inno cristiano che si diffonde solenne salendo dal profondo di una catacomba nel secondo brano, la marcia trionfale dell’esercito consolare lungo la Via Appia nel quarto e conclusivo. Questi diversi momenti influenzano le scelte linguistiche e quelle del rivestimento strumentale, come se nel paesaggio fosse già insito implicitamente anche un clima sonoro; qua melopee gregorianeggianti e arcaismi modali, o squillanti fanfare di búccine e serrati ritmi di marcia; là canzoni e danze popolari all’aria aperta, o idilli pastorali e fremiti di voci della natura realisticamente riprodotti: il canto dell’usignolo registrato su disco nel plenilunio dei pini del Gianicolo; gli echi di caccia, i richiami del corno, la serenata col mandolino, i tintinnii di sonagliere nell’Ottobrata delle Feste romane; motivi rusticani, cadenze di saltarelli, la voce dell’organo meccanico d’un baraccone e l’appello del banditore, il canto rauco dell’ubriaco e il fiero stornello popolaresco («Lassàtece passà, semo Romani!») nella Befana che chiude l’ultimo poema sinfonico. E, ricorrenti un po’ dovunque, tocchi e rintocchi e tripudi di campane, sovente anche al fine di combinare compositivamente inediti studi timbrici.

La funzionalità di questi procedimenti sta nella congruenza tra la scelta di un’immagine – a definire la quale bastano pochi tratti fissati successivamente per iscritto in testa alla partitura: più che un programma, la ratifica a posteriori di uno spunto sentimentale – e la capacità di farne sensazione sonora, pittura musicale, senza preoccuparsi di fornire la giustificazione di un più ampio programma estetico. In altri termini, neppure qui a far premio è un intervento di tipo soggettivo, un coinvolgimento emotivo che porti a immedesimarsi e identificarsi con l’immagine, entrando per così dire a far parte del quadro. Respighi ne rimane al di fuori, separato da un vetro artificiale: così non entra in contatto diretto con l’oggetto di sua stessa creazione. Soprattutto non prende posizione o giudica, ma semplicemente registra ed espone, rievocando e contemplando. In Circenses, per esempio, primo episodio di Feste romane, ci si attenderebbe un palpito speciale nella raffigurazione del sacrificio orribile dei cristiani. Niente di tutto questo: la sfavillante onomatopea descrittiva delle búccine, ancora loro, introduce nel clima animato e variopinto della plebe in festa, assetata di sangue; il tema dei cristiani, «pesante», è appena un’ombra che serve a far risaltare per contrasto, ma senza alcuna adesione sentimentale o morale, l’aspra lotta che li condurrà al martirio; sicché quando finalmente le belve entrano nell’arena, la musica è felice di scatenarsi con esse nella rappresentazione, peraltro assai efficace in se stessa, del macabro spettacolo. Ed è come se l’autore intendesse scaricare tutta la sua abilità nel rendercelo il più possibile verosimile e realistico.

Che conclusione ne trarremo? Non certo quella di una insensibilità di Respighi di fronte ai grandi temi della vita e della storia, della natura e dell’arte. Al contrario. C’è però in lui un riserbo, una titubanza a dare al proprio mondo poetico e spirituale il valore dimostrativo di una poetica, il carattere di una affermazione di principi propagata per mezzo della musica, che rimane invece un fine. Può darsi, come ha scritto Mila, che le Fontane di Roma, sull’orlo della guerra mondiale, alla vigilia di tante catastrofi e delusioni morali, siano «la piena espressione artistica d’una società prospera e matura, borghesemente ricca e schiva di cure, quella società che coniava l’epiteto di ‘poeti maledetti’ per bollarne i pochi artisti pensosi e veggenti, società contenta a un’arte di barocca fastosità, di decorazione sontuosa e solenne ».9 Se ciò è vero, i poemi sinfonici che compongono il trittico romano esprimono il desiderio di fermare il tempo e di rinnovare fasti antichi, ritagliando oasi di serenità, immagini floride di vita e di storia, esplosioni di gioia collettiva e di festosa partecipazione popolare: non solo per esorcizzare i fantasmi di un’epoca inquieta e profondamente scossa, ma anche per compensare, rispecchiandosi nel mondo esterno, il peso di una solitudine e di un isolamento che Respighi dovette sentire incombere come una minaccia alla sua stessa sopravvivenza di artista.

Il riflusso nell’alveo ben protetto di più private speculazioni, quale si manifesta in opere come Vetrate di chiesa o Trittico botticelliano, non a caso nate nel periodo più critico degli anni Venti, rappresenta l’altra faccia della situazione storica di Respighi. Riproduzioni di lavori d’arte, sorvegliate e mediate dall’alto gusto estetico e dalla cultura, esse guardano al mondo antico per trarne non solo alimento di figure musicali e di impressioni poetiche, ma anche e soprattutto conferma e conforto. Il ricalco novecentesco della musica si fa più trasparente nelle scelte idiomatiche di familiari stili del passato, nella ambientazione sonora più intima e raccolta, nella eleganza delle forme armoniosamente tratteggiate, snelle e leggere.

Tra questi due poli – i colori mossi e accesi di un descrittivismo paesaggistico tutto all’aria aperta e pervaso di vita reale; la compostezza e l’essenziale misura retorica di ricreazioni mediate dal gusto personale dell’uomo di cultura erudito e raffinato – oscilla l’arte di Respighi sinfonista. Nell’un caso come nell’altro il punto di partenza è collocato in sollecitazioni esterne, in impressioni visibili o udibili: per Respighi la musica è uno specchio potentissimo che riflette il mondo, l’arte, la natura, la vita, ma non può più ambire ad essere modello e ragione a se stessa. Men che mai facendosi carico di un dramma o di un rovello interiore in un culto della personalità.

NOTE

 

(1) M. MILA, Problemi di gusto e d’arte in Ottorino Respighi, «La Rassegna Musicale», VI, 1933, n. 2. Con nuovo titolo ma sostanzialmente immutato, Un artista di transizione: Ottorino Respighi, in Cent’anni di musica moderna, Milano, Rosa e Ballo 1944 (ristampa Torino, EdT/Musica 1981). Poi anche in Ottorino Respighi, a cura di G. Rostirolla, Torino, ERI 1985, da cui qui si cita, p. 97.

(2) Ivi, p. 98.

(3) Ivi, p. 99.

(4) S. MARTINOTTI, Respighi tra modernità e arcaismo, in Ottorino Respighi cit., pp. 122-129.

(5) F. D’Amico, Situazione di Ottorino Respighi (1879-1979), in Ottorino Respighi cit., pp. 113-114.

(6) Ivi, p. 114.

(7) Nel «programma» del poema sinfonico Fontane di Roma Respighi scrive: «In questo poema sinfonico l’Autore ha inteso di esprimere sensazioni e visioni suggeritegli da quattro fontane di Roma, considerate nell’ora in cui il loro carattere è più in armonia col paesaggio circostante o in cui la loro bellezza appare meglio suggestiva a chi le contempli» (il corsivo è nostro).

(9) M. MILA, Un artista di transizione cit., p. 98.

Fontane, pini e altro: il descrittivismo paesaggistico di Respighi, Firenze, Leo S. Olschki editore, 1988
Estratto dal volume: Il Novecento musicale italiano tra Neoclassicismo e Neogoticismo, a cura di David Bryant

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