L’opera di Strauss in forma di concerto con Janis Martin e la bacchetta di Simonov
Firenze — La stagione lirica 1991 si è aperta sabato scorso in un evidente clima di disagio e di mestizia. Disagio per la perdurante chiusura della sala del Comunale, che costringe artisti e pubblico a scomodi adattamenti negli spazi tutt’altro che confortevoli del Teatro Verdi (e non sapere fino a quando durerà l’emergenza accresce l’inquietudine e il nervosismo). Mestizia per la recente, improvvisa scomparsa di Walter Boccaccini, segretario generale del teatro: per molti anni uno dei suoi punti di riferimento più sicuri. Insomma, a Firenze si vivono momenti amari. Che non possono non ripercuotersi sull’attività di un Ente che ha una grande tradizione da difendere.
La prevista Salomè di Richard Strauss è stata eseguita comunque, sia pure in forma di concerto: per rispettare gli impegni presi con una compagnia di canto importante e con un pubblico ansioso di continuare l’avventura — un leitmotiv della programmazione degli ultimi anni con il maggiore compositore di teatro del nostro secolo. Certo, non poteva essere un’esecuzione ideale. Per quanto a volte si sia indotti a invocarle contro certe stravaganze e ingerenze dei registi, le opere in forma di concerto rimangono pur sempre una soluzione insoddisfacente; soprattutto quando si tratti di lavori di forte tensione drammatica o, come nel caso di Salomè, di drammi nei quali l’azione è parte attiva della definizione musicale e della stessa interpretazione del testo.
Si pensi per esempio alla famigerata danza dei sette veli, mezzo attraverso il quale si compie la seduzione di Salomè e la sua decisione di fronte al meraviglioso che l’attira, o alla figura del Battista, sempre presente come un’ombra minacciosa ma invisibile nella cisterna da cui provengono solo la sua voce e i suoi inesorabili ammonimenti. Questi equilibri drammaturgici essenziali, calcolati con estrema cura in un atto unico che si svolge in un crescendo drammatico di violenza tanto inaudita quanto necessaria, vengono inevitabilmente distrutti da qualsiasi esecuzione in forma di concerto. A Firenze, per di più, le anguste dimensioni del palco costringevano non solo a ribaltare i rapporti fra orchestra (collocata dietro) e cantanti (davanti), ma anche a sopprimere alcuni strumenti dall’organico: come la seconda arpa e perfino l’organo, protagonista nel momento decisivo del finale di uno degli interventi più stupefacenti e celebrati di tutta la storia dell’orchestrazione moderna.
Una volta manifestata la più piena solidarietà a chi è costretto, suo malgrado, a compiere scelte senza dubbio spiacevoli, occorre aggiungere che esprimere una valutazione obiettiva dei risultati artistici diviene in questi frangenti molto difficile. Arduo dire fino a che punto la prestazione della protagonista, Janis Martin, dotata di grande temperamento e forza drammatica, sia stata penalizzata dalla mancanza della scena: probabilmente anche certi imbarazzi nel registro acuto (ma la Martin è oggi un soprano un po’ corto per questa parte) si sarebbero risolti nella tensione della recitazione. E lo stesso vale per la voce tonante di Knut Skram, verosimilmente abituato a sentire e a declamare il personaggio di Jochanaan non alla ribalta, ma appunto fuori scena (non si creda che questi problemi si possano risolvere sul momento).
Eppure, con l’entrata di Erode e di Erodiade nella quarta scena improvvisamente, come per magia, è apparso il teatro con tutti i suoi requisiti, e la recita si è fulmineamente infiammata. L’intelligenza di Ragnar Ulfung (a tutti noto come Monostatos nel Flauto magico diretto da Bergman) e la classe ancora cristallina di Brigitte Fassbaender hanno travolto ogni ostacolo, trasportandoci immediatamente nel cuore della tragedia, e nel vivo della musica. Da quel momento tutto è salito di tono, e la stessa scena finale ha trovato nella Martin una interprete di formidabile rilievo.
Chiamato a dirigere una partitura di straordinaria complessità e finezza, Jurij Simonov non ha brillato per acume interpretativo e varietà di colori ma ha avuto il merito di tenere saldamente in pugno il discorso, accentuandolo via via e giungendo ancora lucido al culmine drammatico finale. Molto crescerà nelle repliche. E con lui l’orchestra, responsabilizzata dal trasferimento in palcoscenico e perciò orgogliosamente impegnata a dare il massimo di sé con buoni esiti. A tutti, pubblico compreso, va dato atto di aver fatto il possibile per volgere in positivo la difficile prova.
«Salomè» di Richard Strauss al Teatro Verdi di Firenze: (repliche il 15, 17, 20 e 23 gennaio)
da “”Il Giornale””