Firenze: prepensionamento culturale?

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Veleni d’amianto nell’impianto d’aria condizionata, veleni di polemica fuori e dentro il Teatro Comunale, politici e amministratori alla sbarra

Da capitale europea della cultura a bella addormentata d’Italia: l’immagine, salvo il vero, è di Sylvano Bussotti. In soli cinque anni, Firenze sembra essere stata travolta da una rivoluzione copernicana che l’ha allontanata dal centro della vita musicale europea relegandola in un angolo della provincia italiana. Le grandi mostre, si dice, le proposte culturali incisive, i fermenti d’idee e le iniziative dell’aristocrazia intellettuale d’un tempo non abitano più qui. La vetrina di un Festival di prestigio internazionale, il Maggio Musicale Fiorentino, appannata: i suoi prodotti non tirano più come prima, neppure quando sono di buona qualità. Ciò che non riuscì a fare una catastrofe di proporzioni immani come l’alluvione è riuscito a fare l’amianto.

Quest’anno il Festival dovrà rinunciare alla sua sede naturale, il Teatro Comunale, per chiedere asilo e ospitalità in altri luoghi: o inadatti all’opera come il Teatro Verdi (già utilizzato per le stagioni sinfonica e lirica appena concluse), o di possibilità oggettivamente limitate, come la pur splendida Pergola. Il tentativo di recuperare al teatro e alla musica spazi un tempo già proficuamente impiegati per spettacoli importanti, come il complesso di Boboli e di Palazzo Pitti, è fallito; e altri spazi non ce ne sono. Almeno per il momento.

Cronaca di un’inchiesta annunciata Firenze è dunque in crisi? E se lo è, in che modo ne è investita la musica nel suo più importante polo di produzione, il Teatro Comunale? Su questi punti si è aperta una discussione. In un’intervista del critico musicale della Nazione, Leonardo Pinzauti, pubblicata martedì 19 febbraio sotto il titolo “”Questo Maggio senza rose””, il maestro Gianandrea Gavazzeni, invitato a Firenze per dirigere La sonnambula e un dittico formato da Cavalleria rusticana e La giara, denunciava la situazione con tutta l’amarezza di un vecchio innamorato di Firenze. Alla base della sua presa di posizione stava la misteriosa chiusura del Teatro Comunale, che aveva portato allo spostamento della stagione lirica nell’infelice Teatro Verdi; ma Gavazzeni non si limitava a esporre i disagi a cui il lavoro artistico e la stessa partecipazione del pubblico erano costretti in seguito a questo spostamento e individuava motivi di preoccupazione di carattere più generale: “”Conoscendo Firenze da mezzo secolo, ne vedo il degrado culturale, ma avverto anche il degrado di quelli che se ne occupa-no; e soprattutto avverto tanta indifferenza. (…) E questa deriva – lo dico a fiuto, per istinto – dall’atteggiamento dei ‘piani alti’ della politica… La mia ira contro i politici è proprio qui: il Comunale andrebbe difeso e potenziato perché ha coro, orchestra e tecnici di primissimo ordine, tra i migliori d’Italia e d’Europa. E dentro il teatro c’è ancora tanta gente che ha passione, anche se è ogni giorno di più messa a dura prova, con qualche primo segno di avvilimento passivo. Ci vorrebbe una grande mobilitazione delle forze intellettuali, se ancora ci sono in questa città, consapevoli delle tradizioni di Firenze…””. Fin qui Gavazzeni. Pochi giorni più tardi l’edizione fiorentina di Repubblica usciva con una pagina intera che riportava i giudizi di alcuni critici musicali sullo stato del Comunale, in generale abbastanza genericamente negativi, a integrazione di un’intervista a Lorenzo Arruga, introdotta da un titolo redazionale come si suol dire forte: “”La crociata di Arruga: ‘Salverò il Comunale’ “”. La sostanza dell’intervento di Arruga si può riassumere in questi tre punti: 1) al Comunale si manifesta uno stato di appiattimento e di assuefazione alla routine: il caso dell’amianto è solo la punta di un iceberg; 2) se il malessere è generale e investe anche gli altri enti lirici italiani, Firenze non mostra quei segni di reazione che in altri tempi la contraddistinguevano, se non con punte di violenza polemica, non costruttiva; 3) la programmazione è poco inventiva e di scarso interesse culturale, lontana dalle tradizioni del Maggio, con conseguente demotivazione del pubblico.

Arruga proiettava dunque considerazioni sul ruolo di Firenze, e del suo teatro-simbolo come centro di cultura e di creatività, nel più vasto ambito dello stato de-gli enti lirici in Italia; riconoscendo comunque a Firenze, storicamente, uno statuto speciale. E di qui nascevano le preoccupazioni.

Intanto il discorso si focalizzava sempre più sul cartellone del Maggio 1991 che, già annunciato per sommi capi in una conferenza-stampa a Londra, di lì a poco veniva reso noto ufficialmente dal sovrintendente Massimo Bogianckino e dal direttore artistico Bruno Bartoletti. La sua pubblicazione trovava un difensore in Leonardo Pinzauti, che il 22 marzo lo commentava assai positivamente sulla Nazione sotto un titolo altisonante: “”Macché crisi, benvenga il Maggio””. “”Sedi ‘crisi’ si può parlare”” – scriveva Pinzauti – “”questa riguarda questioni che non sono di efficienza artistica ed organizzativa, ma investono semmai responsabilità amministrative e politiche: quelle stesse per le quali si è ignorato da decenni le necessità pratiche del Teatro Comunale, ora costretto a realizzare fuori casa il prossimo festival e in condizioni di grande difficoltà, ma con un programma ugualmente degno delle migliori tradizioni fiorentine””.

Al contrario di Arruga, che non vedeva più nel Comunale fiorentino quel “”teatro insostituibile nella cultura italiana per la sua specificità sperimentale””, Pinzauti ribadiva che era difficile trovare un altro organismo musicale (a parte la Scala, ormai destinata a far corsa a sé) in grado di competere con la produzione fiorentina; e attaccava apertamente “”il diffondersi di un’ assurda campagna di sciacallaggio proprio nei confronti di tutta l’attività del Teatro Comunale e un parallelo fiorire di ‘salvatori’ improvvisati, quasi si stessero ormai celebrando i funerali della Firenze musicale””.

 

L’amianto

Amianto in greco significa incorrotto. Secondo lo Zingarelli, “”varietà di anfibolo, in fibre flessibili e tessili, e delle quali si fa carta e tela che resistono al fuoco””. Mica vero. A Firenze l’amianto ha prima attizzato, poi propagato il fuoco. La decisione di chiudere il Teatro Comunale avvenne nel luglio dell’anno scorso, alla fine del Maggio 1990, quando si scoprì che l’inquinamento prodotto dall’amianto negli impianti del teatro, di natura cancerogena, costituiva un grave pericolo per la salute. Furono annunciati lavori di risanamento, dalla durata imprecisata; intanto l’attività fu sfrattata al famigerato Verdi, passabile per i concerti, assai meno adatto all’opera. La cosa venne accettata come un male necessario, nonostante costasse molto (anche in termini finanziari: l’affitto del Verdi ha sottratto alla produzione svariate centinaia di milioni). Dice Bartoletti: “”Avremmo potuto annullare la stagione. O modificarla, come abbiamo fatto, eseguendo la Salome in forma di concerto e sostituendo L’amore delle tre melarance con il dittico Cavalleria e Giara. Se avessimo annullato tutto, avremmo dovuto pagare a vuoto i contratti già stipulati da tempo e avremmo fatto una figura anche peggiore. Al pubblico abbiamc chiesto un sacrificio; e il pubblico ha risposto con una serie di esauriti tutte le sere. Questo i signori critici dovrebbero saperlo””. I lavori di risanamento non sono mai cominciati. Nuovi accertamenti hanno stabilito che non erano indispensabili. Il sindaco Morales ha annunciate poche settimane fa che il Teatro Comunale riaprirà nel gennaio 1992 senza bisogno di ulteriori interventi. Tutto per bene, dunque. L’amianto resta, incorrotto.


Ma la colpa è sempre dei politici

Se questa affermazione popolare è vera, a Firenze sembra un po’ più vera che altrove. Non soltanto per la pessima gestione dell’affare amianto. La situazione della musica rispecchia quella di un’intera città nei confronti della cultura; e qui le responsabilità dei politici vengono in primo piano. Dice Stefano Passigli, presidente degli “”Amici della musica”” ed editore nonché consigliere regionale: “”Le lotte politiche cittadine hanno portato a una destabilizzazione estrema. E a farne le spese è stata soprattutto la cultura, che dovrebbe essere invece il primo investimento di una città che non ha sbocchi industriali e che vive del terziario. Le tradizioni di Firenze sono da sempre nel campo della cultura: nelle arti, nell’editoria e nella musica. E proprio in questi campi si scopre il ritardo culturale della classe politica fiorentina, che si è fatta ricattare dai commercianti e ha barattato la cultura con la caccia al pullman di turisti. Non si è voluto creare un turismo culturale capace di apprezzare ciò che Firenze è, una città-museo unica nel suo genere, e nel senso artisticamente più alto del termine. Questa insensibilità generale si rispecchia non solo nella scarsità di fondi destinati alla cultura ma anche nel disinteresse per i luoghi della cultura, come il Teatro Comunale.

A Firenze si vive oggi in una perpetua fuga in avanti a cui corrisponde, sull’esistente, una catena di veti incrociati che paralizzano qualsiasi decisione.

La colpa non è solo dei politici

 

Luigi Baldacci è uno degli intellettuali a cui faceva riferimento Gavazzeni. “”Il degrado di Firenze è sotto gli occhi di tutti. Firenze non è più irrorata, è come un fiume deviato. E una città che ha perso l’iniziativa in tanti campi, diventando una città di periferia: basta pensare a quello che accade nell’editoria. Ma questa crisi non è solo di oggi, parte almeno dalla fine della seconda guerra mondiale. E un fatto biologico, con cui bisogna fare i conti. Semmai quel che offende è la tolleranza nei confronti di questo degrado, la mancanza di contenimento di una forza d’urto che minaccia di distruggere la città nella sua esistenza quotidiana. L’emblema di Firenze è oggi il cassonetto che straripa di immondizie, non il giglio. Anche sul piano delle idee si oppongono programmi e obiettivi astratti, avveniristici, che perdono di vista non solo l’immediato, ma anche la storia di Firenze””.

 

L’altra opzione

 

E quella di un nuovo teatro o polo musicale in sostituzione del Comunale, ritenuto ormai inadatto alle esigenze di una produzione moderna ed efficiente. Se ne è parlato molto già prima della chiusura, e naturalmente anche dopo. L’ipotesi Fiat, se mai è concretamente esistita, è ora definitivamente tramontata: la Fiat destinerà l’area di sua proprietà a Novoli (32 ettari) alla costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia con parco annesso. Una nebulosa è l’altra soluzione, quella che prevede l’acquisto dell’area di proprietà delle ferrovie, nella zona delle Cascine. Più praticabile, non comportando faticose trattative con lo Stato, sarebbe lo sfruttamento di altre aree di proprietà comunale: per esempio quella del Parterre di Piazza della Libertà, dove da anni si parla di un grande parcheggio sotterraneo. Ma pare che gli abitanti del quartiere non gradiscano questa soluzione. Veti incrociati, anche qui. Firenze, del resto, non ha un depuratore in funzione, non ha una metropolitana leggera e a parte ciò negli ultimi trent’anni non ha prodotto opere pubbliche di alcun genere. Si capisce che in una situazione di paralisi amministrativa come questa la notizia della riapertura del Comunale (con servizi portati a norme di sicurezza) sia stata salutata con un respiro di sollievo, quasi come una vittoria dell’amministrazione.

 

Il Maggio in esilio

 

Ma intanto il festival del 1991 si farà altrove. E ciò ha comportato il taglio dell’opera inaugurale (Les Troyens di Berlioz nella versione completa, con la regia di Peter Hall) e conseguenti ridimensionamenti della produzione. Tre opere (di cui una, la Tosca, è una ripresa), cinque concerti sinfonici e due recital formano il cartellone accanto a un piccolo ma significativo ciclo di musica contemporanea.

All’ultimo momento si è potuto aggiungere l’integrale dei Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart grazie all’offerta di Maria Tipo, che ha messo a disposizione se stessa e la sua scuola di giovani pianisti, tutti debuttanti al Maggio.

 

L’albero sfiorito del Maggio

 

L’esilio è quasi una metafora di una perdita di identità che il festival fiorentino, come grande momento internazionale e interdisciplinare di cultura nel quale era rappresentata non soltanto la musica, ha subìto in questi ultimi anni. E qui il discorso entra in un’altra prospettiva. Il Maggio così come era concepito alle sue origini – già è stato detto e ridetto che la sua formula ha stravinto nella misura in cui è stata imitata e assimilata da altri – oggi non ha più ragione di essere. Anche storicamente, il suo ciclo si è esaurito e la sua funzione è cambiata. Non godendo più dei privilegi di un tempo, il Maggio è diventato oggi semplicemente il punto di arrivo, in cui si presenta il meglio, di un’attività annuale: qualcosa che, per intenderci, somiglia al Festival di Monaco più che a quello di Salisburgo. In altri termini, è il festival di un ente lirico che conclude la stagione.

Questa constatazione non vuoi dire che al Maggio non si possano ascoltare e vedere ancora buoni spettacoli: è la cornice che è cambiata. Si può discutere su quale debba essere la strada da percorrere, se il Maggio a tema o il Maggio eclettico, se il Maggio italiano o internazionale, se la politica delle novità o quella delle star; fatto sta che oggi s’impone un globale ripensamento della funzione e prima ancora della fisionomia del Maggio.

 

Un’altra Firenze musicale?

 

Questa fisionomia non può essere distinta né dalla situazione generale italiana né da quella particolare della cultura a Firenze. Massimo Bogianckino, tornato alla guida del Comunale dopo la parentesi politica, evita di lasciarsi trascinare nelle polemiche ed espone freddamente le cifre: il taglio del bilancio imposto dalla legge finanziaria inciderà notevolmente sulla produzione; il contributo degli enti locali non è adeguato; la politica degli sponsor, nonostante l’ottima collaborazione con la Cassa di Risparmio, deve essere ampliata; nuove forme di comunicazione sono allo studio. Su tutto ciò occorre intervenire. Non mancano le idee sul futuro della programmazione: Bogianckino pensa alla musica contemporanea e a una ricognizione sul Novecento storico. Ma le idee senza contributi finanziari adeguati non bastano. Preoccupa che nella legge di riforma Firenze e il suo Teatro non siano tenuti nella giusta considerazione. L’impressione è che si stia vivendo un momento di attesa. La Firenze che inventò Muti alla fine degli anni Sessanta era una Firenze in proiezione offensiva; quella che rischia di perdere definitivamente Chung e che gratifica Mehta della carica importante di direttore principale – due opere e due concerti quest’anno – sembra cercare soprattutto la forza per superare un momento difficile, indecisa fra difesa a uomo e zona mista.

 

Un Maggio per i fiorentini

 

Giorgio Venturi, ex proprietario di Disclub, il mai abbastanza rimpianto salotto buono dei musicofili fiorentini, riprende l’immagine calcistica per spiegare l’atteggiamento del pubblico: “”Ieri eravamo in testa al campionato, più su anche della Scala, oggi non lo siamo più, ma anche questo rientra nell’ordine fisiologico, ciclico delle cose. Firenze non è più in crisi di altre città, è nella media della crisi nazionale. Forse qui lo si avverte di più perché abbiamo grandi tradizioni: da questo punto di vista il Maggio, col suo passato, è un’eredità pesante e perfino negativa. Però non si deve dimenticare che quei Maggi oggi famosi – il Maggio espressionista per esempio – erano aspramente criticati e disertati dal grande pubblico: erano festival per la colonia inglese e per gli intellettuali. Oggi il Maggio deve essere ripensato globalmente, soprattutto per i fiorentini. Si parla tanto della trasferta al Verdi; certo, è scomodo. Ma si dimentica quando ci toccava andare a sentire la musica al Salone dei Cinquecento o in luoghi anche più scomodi?

Piuttosto sono altri i fatti di cui il pubblico si lamenta: la soppressione dei posti in piedi; il prezzo dei biglietti, troppo alto per una città come Firenze; il periodo del Maggio, troppo ritardato e che diventa così una stagione fuori stagione”” .

 

Una ricchezza intatta

 

E quella del personale artistico e tecnico del teatro, unanimemente riconosciuto di primissimo ordine: un’orchestra duttilissima, l’unica in Italia, fra quelle degli enti lirici, che possa vantare antiche tradizioni in campo sinfonico, un coro capace di spaziare da Verdi a Britten con precise connotazioni stilistiche, una civiltà spettacolare che ha fatto epoca. Enrico Sciarra accetta di parlare non come rappresentante del sindacato autonomo, protagonista in passato di lotte anche aspre, ma come professore d’orchestra. “”Il Teatro Comunale è una delle istituzioni culturali di Firenze che più hanno dato alla città ma non può non essere coinvolto dalla crisi che oggi attraversa la città. Si tratta quindi di richiamare l’attenzione su ciò che accade oggi e cercare proposte concrete per sapere che cosa fare in futuro di questa città. Il Teatro è un punto di forza da cui può partire questa riflessione. Occorre stabilire che ruolo dare al Teatro nel futuro di Firenze, e a quale livello. La battaglia è su due fronti: arricchire la funzione di Firenze come centro internazionale di cultura e valorizzare quello che il Teatro fa in ambito musicale, potenziandone le strutture””.

 

La tensione ideale della battaglia

 

E soprattutto questo che si chiede oggi a un teatro come il Comunale e a un festival come il Maggio. E ciò testimonia, al di là delle opinioni e dei punti di vista, di quanto credito goda ancora un teatro che non è, non è mai stato, nel bene come nel male, un teatro qualunque. Può essere significativo che la “”protesta”” sia partita dall’esterno, da Gavazzeni, da Arruga e da quant’altri vedono nella crisi di Firenze un impoverimento che pericolosamente rispecchia una situazione più generale: segno che da Firenze si vorrebbe soprattutto un segnale di cambiamento di questa tendenza. Mario Luzi, vecchio saggio, dice con orgoglio tutto fiorentino: “”Basta piangersi addosso. Ci siamo fermati. Ora occorre ripartire””.

 

La città invivibile e l’orafo

Il Maggio 1990 si inaugurò con una bella edizione di un’opera rara di Rimsky-Korsakov, La leggenda della città invisibile di Kitesz: fu un momento degno di un festival. Vi si racconta la storia di una città scomparsa che al momento buono riappare: forse questo è oggi Firenze. Il Maggio 1991 non si inaugura con un’opera ma con un concerto: i più pessimisti ricordano che l’ultima volta che ciò accadde fu nell’anno di addio di Muti, una perdita comunque dolorosa per Firenze, che segnò l’inizio di una nuova fase nella vita del Comunale. Seguirà poi una nuova edizione, che sulla carta si annuncia importante, del Cardillac di Hindemith: nella quale si racconta la storia di un orafo, degno delle tradizioni fiorentine, che è talmente geloso o orgoglioso delle proprie creature da non ammettere che nessuno le tocchi e le possegga. Ecco, questo non vorremmo che diventasse Firenze.



Musica Viva, n.5 – anno XV

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