Firenze: Orfeo al Maggio Musicale

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Orfeo, è il mito che incarna la musica, da sempre. Mito fatto di elementi ideali e pedagogici, di natura e di cultura, di arte e di pensiero. Con Monteverdi, nato da poco il melodramma, quel mito diviene rappresentazione e si innesta alle radici della cultura e della sensibilità moderna, acquisendo e fondendo nuovi tratti con i caratteri di un’opera aperta, da reinventare continuamente: quasi sovrapponendosi al mito originario, nel momento stesso della sua prima definizione moderna, una inaudita ricchezza di mezzi e di motivazioni, di stimoli e di possibilità realizzative.

Intorno all’Orfeo di Monteverdi, e al mito di Orfeo in generale, Luciano Berio, responsabile artistico del Maggio Musicale Fiorentino 1984, ha costruito una serie di proposte che, pur serbando ognuna la propria individualità, si chiariscono soltanto se messe in relazione e a confronto. La prima è una versione dell’Orfeo monteverdiano di tipo tradizionale: filologica, quasi archeologica, basata sulla ricostruzione della prassi esecutiva dell’epoca in ogni dettaglio, dallo stile di canto alla strumentazione, dall’ambientazione scenica cortigiana (ripensata nella cornice aulica del salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio) ai costumi, alle coreografie; a ciò chiamando un complesso inglese altamente specializzato, «The Early Opera Project», guidato dal direttore Roger Norrington e dalla regista-coreografa Kay Lawrence. La seconda è una versione moderna, se non post-moderna, dello stesso testo, sperimentalmente rielaborato e interpretato con segni e valenze di oggi per uno spettacolo popolare all’aria aperta (il cortile di Palazzo Pitti) cui il pubblico partecipa da coprotagonista: frutto di un lavoro di équipe e di scambio coordinato da Berio, Pier Luigi Pizzi e Franco Piperno, e realizzato da una «bottega» di giovani musicisti-trascrittori di cui fanno parte Maurizio Dini Ciacci, Ludovico Einaudi, Luca Francesconi, Betty Olivero e Marco Stroppa. Fra gli estremi dei due Monteverdi, una novità assoluta che ripensa il mito di Orfeo in prospettiva autonoma e attuale, il balletto Sul filo di Orfeo per la musica di Ludovico Einaudi e la coreografia di Serge Bennathan.

Norrington, che è musicista fine, intende ridarci un’ipotesi attendibile di ciò che potè essere la rappresentazione del 1607 a Mantova e, più ambiziosamente, un’idea dell’Orfeo autentico e originale: impresa, come è noto, sotto molti aspetti utopica e piena di rischi, non foss’altro per le odierne condizioni di ascolto assai diverse da quelle originarie. Si basa perciò, e lo denuncia esplicitamente, su una minuziosa ricostruzione storica di quelle condizioni, e le estende a ogni livello, con risultati alterni, giacché egli stesso è costretto a venire a patti con le esigenze moderne del teatro: leggi per esempio l’impossibilità di riprodurre davvero l’allestimento scenico con adeguata dovizia di macchinari e di meraviglie scenotecniche (e il problema è risolto un po’ sbrigativamente con una serie di fondali ottocenteschi sollevati e calati a vista da un attore della compagnia), o, più banalmente, la forzata rinuncia alla preannunciata illuminazione mediante candele (e, in quel contesto, le candele «elettriche» non sono un bel vedere). Così, i movimenti coreografici, che Norrington ci assicura essere rigorosamente d’epoca, nella loro stessa ingenuità archeologica evocano immagini da varietà televisivo popolare: segno indubbio di un costume che è radicalmente mutato. Ciò non toglie che la proposta di Norrington sia istruttiva e ricca di fascino, anche quando l’antico sappia piuttosto di falso-antico. Ed è encomiabile sotto il profilo musicale, una volta abituato l’orecchio alle sonorità non temperate secondo la sensibilità d’oggi (anche per quanto riguarda i volumi e le sfumature). Soprattutto convince la realizzazione vocale, risultato di uno studio serissimo e di una cura profonda, affidata a cantanti che sanno districarsi con brio anche senza direttore: peccato che la dizione di questi straordinari vocalisti inglesi sovente tradisca la poca familiarità con la lingua italiana e quindi con le importantissime – in Monteverdi – inflessioni del testo.

Tutt’altro clima e tutt’altre intenzioni nell’Orfeo trascritto da Berio e dalla sua équipe. La volontà di adattare il capolavoro monteverdiano all’ascolto e ai mezzi di oggi, senza tradire l’immensa carica di seduzione emotiva dell’opera, appare decisiva. Il lavoro è affidato a cinque gruppi, ognuno diretto da uno specialista che assicura il complesso passaggio verso la libera elaborazione dei materiali di partenza (solo la linea vocale rimane immutata): voci e strumenti tradizionali, banda, computer, complesso rock, manipolazione elettronica delle voci. La scena è la piazza, o meglio il cortile, circondato da ogni lato ad altoparlanti che amplificano il suono o lo compongono attraverso il mixaggio e la trasformazione elettronica: al centro, su un grande piedistallo, campeggia la statua di Dante (presenza degli inferi o semplice omaggio a Firenze?); a un angolo, il David di Michelangelo a grandezza naturale. L’azione si svolge circolando sul perimetro del cortile; con alcuni spazi fissi deputati a simboleggiare determinati luoghi scenici. I personaggi mitologici indossano costumi d’epoca; gli altri, a sottolineare l’eternità e l’attualità dei protagonisti, sono biancovestiti, con un monogramma orfeico impresso sul pettorale. La rappresentazione ricorda un po’ i carri trionfali medicei e carnevaleschi, un po’ gli spettacoli popolari itineranti e le processioni; ma il pubblico, che è costretto a muoversi in tondo, ora distraendosi per salutare amici e conoscenti, ora immedesimandosi in ciò che vede e ascolta, ne rimane fortemente coinvolto. Lo stravolgimento del contesto originario si accentua col procedere della rappresentazione: fasce armoniche ad esso non pertinenti ma ad esso logicamente adattate – quasi ne fossero lo sviluppo -, rumori inquietanti e mostruose intensificazioni dinamiche, straniamento nel canto, tutto ciò costituisce la manipolazione che i musicisti d’oggi, con la loro fantasia e la loro cultura, esercitano sul materiale monteverdiano: e giacché la mano di Berio supervisore si avverte, il risultato è di profonda suggestione. Un po’ troppo disascalica, ma avvincente, la conclusione dell’happening: quando Orfeo ha perduto una seconda volta Euridice per il suo umanissimo bisogno di guardarla in viso, irrompono nel cortile tre motociclisti vestiti da «cross », i quali, fra rumori infernali, rapiscono definitivamente la fanciulla; mentre tutt’intorno si diffonde un’autentica bufera musicale, una sorta di impazzimento della musica di Monteverdi che coinvolge tutti i gruppi strumentali. Questa fine inventata di sana pianta, un curioso ripristino del finale tragico già previsto da Monteverdi, nel modo stesso in cui utilizza simboli e stereotipi della odierna civiltà delle macchine, sembra voler prefigurare un cortocircuito di tutti i mezzi d’espressione da cui soltanto, auroralmente, può emergere l’immagine dello stato attuale del linguaggio della musica: quasi un’ora zero della creazione, l’annuncio di un evento nuovo e non ancora nato, così come da una situazione analoga, fatte salve le diverse condizioni storiche, era nata l’idea della stupefacente invenzione monteverdiana. Ed è forse un’intuizione come questa a cogliere il centro della sua arte, e a ridarcela oggi nel suo alto significato, ben oltre la gratificante impressione che può sollecitare il tentativo di un impossibile tuffo all’indietro.


Musica Viva, n. 9 – anno VIII

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