Poter ascoltare, una di seguito all’altra, la Philadelphia con Muti, la Filarmonica di Israele con Bernstein, la RIAS Berlin con Chailly, l’Orchestra di Parigi con Barenboim, la Chamber Orchestra of Europe con Abbado (e per finire l’Orchestra del Maggio con Maazel e Giulini), non è cosa che capiti tutti i momenti, almeno dalle nostre parti. La tendenza al confronto si impone, la fantasia si scatena, e pur di non mancare all’appuntamento si è disposti anche a seguire l’evento in una sala attigua, in circuito chiuso televisivo, come per le partite di calcio. E poi via con le classifiche, i commenti e le interviste a caldo. Il “”Maggio Musicale Fiorentino”” finalmente come il Festival di Salisburgo, dunque?
Vorremmo azzardare un’osservazione impopolare, preliminare. Non sempre queste spettacolari parate di orchestre internazionali si risolvono in occasioni di profonde emozioni musicali il rischio che, passato lo stordimento della festa, nel ricordo rimanga un’impressione sfocata, terribilmente superficiale. Il ritmo frenetico delle tournées, la fatica degli spostamenti, il frettoloso acclimatamento alle condizioni acustiche della sala, la scelta stessa dei programmi – che privilegiano la vetrina dei tesori virtuosistici e delle risorse appunto spettacolari di ogni singola orchestra – incidono in misura non sempre valutabile sulla prestazione sia dei complessi che dei direttori chiamati a guidarle. Che poi questi direttori siano in gran parte anche i direttori stabili della loro orchestra – e in massima parte direttori italiani più o meno stabilmente trapiantati all’estero – accresce la curiosità ma non mitiga certe contraddizioni. Possibile che un’orchestra come la Filarmonica di Istraele alterni miracoli di equilibrio e di calore (Des Knaben Wunderhorn di Mahler) a incidenti e sciatterie clamorose ( Pulcinella e Sinfonia in do di Stravinsky) a così breve distanza sotto la guida di un diretore colossale quale Bernstein? Possibile che la straripante musicalità di Barenboim in tanti anni di direzione stabile dell’Orchestra li Parigi non sia riuscita a disciplinare e rendere omogenee le qualità, davvero disorientanti, del massimo complesso sinfonico francese? Francamente, non sapremmo trarne conseguenze definitive.
In un caso, almeno, l’evidenza è palmare: l’Orchestra di Filadelfia – e in generale a scuola americana, che ne era rappresentata – si trova oggi a un livello di efficienza e di qualità specifica dificilmente raggiungibile. Essa riunisce in fertile connubio – e qui forse sta il trucco – musicisti di estrazione europea e strumentisti di formazione americana: perfino vere e proprie dinastie di famiglie, che garantiscono legami continuamente rinnovati con la tradizione.
La lucentezza e la profondità del suono, l’eccellenza dei solisti, la flessibilità e la varietà dei colori, la robustezza degli insieme, ne fannno, con Muti, un convegno pressoché perfetto di riproduzione musicale. Con un’anima.
All’estremo opposto, la schiva civiltà musicale e le profonde radici culturali dell’Orchestra della Radio di Berlino, la palestra di coloro che avranno la fortuna di diventare Filarmonici. Un’orchestra giovane, dunque, compatta, serissima. senza personalità emergenti ma tutta tesa a cogliere le ragioni più intime della musica, aiutata anche da un programma che evidentemente costoro hanno nel sangue: Verklarte Nacht di Schönberg e la Settima di Bruckner. E qui va segnalata la indubbia crescita di maturazione del nostro Riccardo Chailly, direttore che sensibilmente trae giovamento dallo strumento di cui dispone per addentrarsi nei labirinti del grande repertorio sinfonico.
Un discorso a parte merita l’Orchestra da Camera d’Europa, la creatura prediletta di Abbado, nata dai fuori-quota dell’orginaria formazazione ECYO. La fusione delle diverse scuole europee ha ormai oltrepassato la soglia della ricerca sperimentale e attinto un’identità e una personalità compiute; ciononostante il confronto sarebbe impari per ovvi motivi – anagrafici e anche di programma – se la presenza di Abbado non esaltasse, con il suo rigore e il suo impegno, la fantasia e la freschezza dei giovani strumentisti. ln questo caso, in un’atmosfera intima, anche più del solito.
Ciò non sempre accade quando si tratti di plasmare un’orchestra con la personalità di un direttore. specie se grandissimo. L’Orchestra di Istraele, che pure è un complesso ragguardevolissimo, ha faticato non poco a tener dietro ai guizzi e alle accensioni di Bernstein, forse in questa circostanza ancor più imprevedibile e fantasioso del solito; e un poco anche Bernstein ad ovviare a certi inopinati cedimenti dei suoi. Quanto a Barenboim, che si è esibito anche come pianista in Mozart, si è detto della evidente sproporzione fra intenzioni e risultati, comunque riscattata da una appassionata partecipazione e cordialità interpretativa. Ma sembrava davvero, al termine di questa preziosa parata che ha infiammato il “”Maggio””, di esser tornati, con l’Orchestra di Parigi, a dimensioni a noi più vicine. Simpatia tanta; ma quanto a orchestre, ai francesi non dobbiamo invidiare proprio nulla.
Musica Viva, n.7/ 8 – anno VIII