Fantasmi vecchi, antichi chewing-gum
Che cosa collegava questi due spettacoli, oltre al fatto che venivano dati a poca distanza l’uno dall’altro nella breve stagione lirica fiorentina? A somme tirate, nulla; ma in via di principio, qualche premessa comune c’era. O ce la siamo inventata noi? L’uno era prodotto dal teatro stesso e risaliva a una vecchia idea dell’allora direttore artistico Bruno Bartoletti, desideroso di presentare sotto la sua gestione alcuni monumenti dell’opera italiana tardo ottocentesca, un tempo pilastri del repertorio (come La Gioconda, Mefistofele e ora appunto Andrea Chénier). L’altro proveniva dal Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles quand’era diretto ancora da Gérard Mortier, ed era stato preso un po’ all’ultimo momento per rimpinguare il magro bottino della stagione, peraltro avversata da molte obiettive contrarietà. Si poteva pensare – ecco le premesse – che nell’uno e nell’altro caso si volesse anche reagire a qualche contrarietà con proposte forti, magari discutibili ma importanti: ad esempio riflettere sul perché un’opera popolare come lo Chénier sia passata di moda, e dunque interrogarci sulle mode che passano non necessariamente sostituendo al vecchio il nuovo; oppure lanciare la sfida sul tema del recupero di Monteverdi al suo rango di grande musicista e grandissimo drammaturgo, benedetta sfida che prima o poi sarà raccolta e vinta, per noi oggi. Si trattava insomma, proprio in un momento di difficoltà, di dare corpo a un’idea, anzi a una coppia di idee. Impadronirsene e realizzarle con uno scopo mirato alla realtà non solo del teatro in generale ma anche, anzi soprattutto, di questo teatro, in questo frangente della sua storia.
Non è successo nulla di tutto questo. Lo Chénier è filato via come se il tempo non fosse mai passato ma si fosse solo cristallizzato, rendendo pallidi i ricordi e facendo rivivere, al posto di una riflessione ad occhi aperti, i fantasmi dell’opera. Fantasmi di una vocalità d’altri tempi, come quella nobilmente rievocata da Renato Bruson con la serietà di una brava guida vogliosa d’introdurci nei misteri dell’incredibile, lui che forse una volta li ha visti davvero; ricercata a tastoni da Giovanna Casolla col temperamento di chi s’intestardisca a trovare comunque una ragione, se non nell’intonazione, almeno nell’espressione; indicata per linee spezzate e gesti violenti da Kristian Johannsson, un po’ con l’aria di quello che non crede neppure lui di essere arrivato fin lì e teme che alla fine lo ghigliottineranno davvero. Invece non accadrà. E non solo perché Pier Luigi Samaritani, che di fantasmi all’opera se ne intende, melodrammaticamente parlando, sostituisce al patibolo un altare circonfuso di luce che dovrebbe rassicurarci sul destino degli amanti: che il tribunale rivoluzionario di questo drammone di ambiente storico non fosse per lui una cosa seria lo si era appreso nel terzo quadro, dal nutrito lancio di ortaggi che aveva accompagnato la tumultuosa seduta. Ma se Samaritani un po’ scherza e un po’ fa sul serio, Bartoletti dirige con fervore e passione, dedicando all’orchestra una cura speciale, con slanci generosi: al punto di dimenticarsi talvolta, cosa che a lui succede di rado, di ciò che accade sul palcoscenico, tra i fantasmi. A Bartoletti dobbiamo comunque la sfuggente impressione che quest’opera, nel museo del teatro, non viva soltanto di aura e di ricordi. E a proposito di musei aperti e chiusi. Gli stranieri, visto che noi non ci muoviamo, prendono di petto Monteverdi, e vanno fino in fondo (anche nel senso che affondano). Cominciarono Harnoncourt e Ponnelle a Zurigo, con risultati che oggi sembrano discutibili, hanno continuato Luc Bondy ed Erich Wonder, il regista e lo scenografo di questa Incoronazione di Poppea portata a Firenze. Da chi? Sicuramente da qualcuno che ci voleva confortare (o allarmare) sulle nostre grazie appo Monteverdi. Se è questo il punto a cui sono arrivati i barbari (nel senso tacitiano di straniero che parla male la nostra lingua), coraggio, c’è speranza per tutti.
L’allestimento è naturalmente raffinato e rileccato nei dettagli, recitazione compresa; ma Monteverdi è poco più di un pretesto per rappresentare una storia oscura inutilmente infarcita di simboli d’improvviso espliciti e sospesa su tempi e spazi indefiniti, uniformi (eh, il potere, quello non cambia mai: sesso, carriera, corruzione, intrighi, avanti un altro). E se qualcuno ciononostante non avesse capito l’antifona, ecco il bazar della revisione e orchestrazione di Philippe Boesmans a spaziare dal clavicembalo filologico e dall’organo positivo (dotato, mi raccomando, di registro di regale) al camaleontico sintetizzatore, passando per ogni sorta d’istrumenti “”antichi e moderni”” (quali antichi, quali moderni?): “”arricchiti”” da tastiere d’ogni tipo (vibrafono, marimba, crotali, celesta, Glockenspiel, pianoforte, armonium, campane tubolari, arpa, e perfino una fisarmonica, cui “”è devoluto”” – udite, udite – “”il compito di esibire qualche ‘soffietto’ più barocco del normale””). E poi percussioni come sopra: wood blocks e temple blocks (notoriamente prediletti da Monteverdi, che a Venezia ne aveva una collezione), tamburino e tamburo militare, bongos, piatti, tom-tom e tam-tam, cucù e babà (no, questo forse me lo sono immaginato io ascoltando i soffietti più barocchi del normale), grancassa e qualche strumento accessorio (legittima la vostra curiosità: gli optional erano la frusta e il tamburello). Timbri, ritmi, polifonie, armonie eccetera di conseguenza: mostri invece di fantasmi, tenuti a freno o scatenati da un domatore impassibile in veste di direttore, Jan Latham-Koenig. E le parole di Monteverdi? Partendo dal concreto presupposto che tanto a Bruxelles nessuno avrebbe capito nulla, la compagnia di canto aveva coltivato il raro – ma protetto da leggi severe – monteverdese internazionale, poco interessandosi della melodia cantata anche con parvenza di stile: eccellenti in questo tipo di canto simile all’effetto del chewing-gum si dimostrarono Jacques Trussel (che aveva ricevuto la penitenza di interpretare Nerone), Malcolm King (Seneca accanito frequentatore di saune e forse omosessuale, secondo l’agente segreto con licenza di uccidere Bondy) e Trudeliese Schmidt (Ottavia, figura almeno da sfilata di moda). Gli altri, anche i nuovi, fra cui molti e promettenti italiani, si uniformavano loro malgrado – qualcuno, come l’ottima Francesca Franci, Ottone, con tuttavia pervicace orgoglio per il valore della propria lingua e della musica scritta per essa – all’idioma dei barbari. Tanto valeva importare anche i sopratitoli: ci saremmo accontentati anche del fiammingo (meno del vallone). In evidenza Catherine Malfitano, a cui avevano spiegato – e non stupisce che guardandosi attorno ci abbia creduto – che in quella produzione doveva fare Poppea come Lulu, in cui è un portento.
Ma perché raccontare tutto questo? Tanto, non è successo nulla.
Musica Viva, n.5 – anno XVI