La Turandot di Busoni
Arlecchino andò in scena per la prima volta allo Stadttheater di Zurigo 1’11 maggio 1917, sotto la direzione dell’autore e con il famoso attore austriaco Alexander Moissi nella parte recitata del protagonista. Faceva serata con esso la «favola cinese in due atti» Turandot, espressamente composta per l’occasione. Poiché infatti l’atto unico Arlecchino non riempiva una intera serata, si era posto il problema di quale lavoro affiancargli; e non avendo trovato una soluzione che lo soddisfacesse, Busoni aveva deciso di rifondere a tal fine in un’opera teatrale quelle musiche che, nate nel 1904 come Suite da concerto ispirata alla fiaba di Carlo Gozzi, già erano servite nel 1911 come musica di scena per una rappresentazione berlinese della fiaba medesima. In soli tre mesi di lavoro, tra la fine del 1916 e il marzo 1917, sia il testo, condotto sull’originale ma steso in tedesco, sia la partitura furono messi a punto, così che l’opera poté essere presentata, sempre sotto la direzione dell’autore, alla scadenza prevista.
Turandot è l’ideale pendant dell’Arlecchino, e, benché composta dopo, quasi la sua indispensabile premessa: non per niente Busoni volle che alla prima esecuzione, e ogniqualvolta i due lavori comparissero insieme, essa precedesse il «capriccio teatrale». Comuni a entrambi sono: la presenza caratterizzante delle maschere della Commedia dell’Arte, seppure qui filtrata attraverso il lontano e immaginario Oriente che fa da sfondo alla favola cinese di Gozzi; quel misto di serio e di burlesco, di «fuor del tempo» e di attuale, che li contraddistingue; il rivestimento musicale oscillante tra forme della tradizione e innesti o tagli di fattura moderna, sovente modernissima; su tutto però la vibrante, talora aspra polemica contro il teatro musicale ottocentesco, romantico e naturalista, nella Turandot tanto più accentuata e sferzante quanto spogliata da deliberati intenti parodistici o da confessioni amaramente sarcastiche. Che la «fiaba teatrale» gozziana, con il suo «continuo e variopinto alternarsi di passione e di gioco, di realtà e di irrealtà, di atmosfera quotidiana e di fantasia esotica», avesse potuto affascinare Busoni, non è cosa che meravigli conoscendo i suoi gusti e le sue idee sul teatro, musicale e non; ma che ora quella fiaba potesse dar vita a una creazione teatrale originale e indipendente, suprema incarnazione di quelle idee purificate da ogni orpello programmatico, e per di più svelare le virtualità sceniche e la perfetta aderenza ai nuovi compiti di musiche composte molti anni prima e non espressamente per il teatro, appare fatto quanto meno sorprendente e prova ulteriore della interna coerenza della sua poetica.
Per la stesura del libretto Busoni non prese in considerazione la più famosa delle rielaborazioni romantiche della Turandot, quella di Schiller (1801) cui si era ispirato anche Cari Maria von Weber per le sue musiche di scena composte nel 1809. Ad essa, assai più umanizzata ed elevata nel tono poetico, caricata di note patetiche e semitragiche (non a caso fu questa versione di Schiller, nella traduzione italiana del 1857 di Andrea Maffei, ad attrarre Puccini verso quella che sarebbe rimasta la sua ultima opera incompiuta), mancava proprio «la sensazione che si tratta sempre di un gioco – persino nelle scene che confinano con la tragedia»: sensazione che per Busoni era invece «l’essenziale». Si volse dunque al testo originale di Gozzi; ridusse la trama alle sue linee essenziali abolendo personaggi ed eventi secondari, ma mantenne inalterato il carattere fiabesco del soggetto, un carattere già di per sé promettentemente musicale, e anzi accentuò attraverso situazioni eminentemente musicali, dedotte dal testo stesso, gli elementi propriamente magici e illusionistici, fantastici e irreali. Soprattutto si giovò della presenza delle maschere della Commedia dell’Arte, rappresentate dall’eunuco Truffaldino, da Pantalone e da Tartaglia, non soltanto per conferire vivacità e umorismo alla vicenda, ma anche per distruggere, «gettando un ponte tra il pubblico veneziano e l’Oriente fittizio della scena», ogni impressione realistica e sentimentale. Questo ruolo di mediatore è affidato anzitutto a Pantalone, «che impersona lo spirito del veneziano e che con le sue allusioni alla città natale e le sue locuzioni dialettali ricorda costantemente l’ambiente reale circostante». Per Pantalone, che in Gozzi si esprime in dialetto veneziano, Busoni arrivò addirittura a inventare una sorta di lingua dialettale tedesca, grottesca e caricaturale. Così anche gli altri personaggi d’invenzione della vicenda non hanno modo di uscire dai limiti prefissati, uniformandosi a ciò che Busoni chiamava «la piacevole menzogna della scena». E del resto questi limiti, in sé tutt’altro che angusti o improduttivi, sono programmaticamente ricordati in un breve prologo, tratto dal Festzug di Goethe, che Altoum recita prima dell’inizio dell’opera; lo sfarzo e la signorilità del suo aspetto, egli dice, non ingannino: Altoum è soltanto un «monarca della scena», venuto dal lontano Oriente e innalzato sul trono dalla favola, e sua figlia, la bella principessa Turandot che siede al suo fianco, soltanto una ragazza un po’ testarda e un po’ capricciosa che si diverte, a suon di indovinelli, a mettere in angustie il prossimo con la sua bellezza e la sua perfida sottigliezza. […]
Lo spessore sinfonico dell’orchestra, non solo negli inserti strumentali – certo conseguenza della quasi integrale rifusione dei brani della Suite -, il costante riaffiorare di stili e maniere del passato, sia pure in modo più criptico ed elaborato rispetto all’Arlecchino, l’uso di scale, modi, motivi e inflessioni orientali, di sapore esotico, da un lato coerente con il soggetto cinese e fantastico, dall’altro visto come mezzo di ampliamento della ricerca compositiva (soprattutto armonica) in una chiave decisamente moderna e anticonvenzionale, sono alcuni dei principali aspetti della partitura della Turandot. Vi abbondano i ritmi di marcia e di danza, talvolta accompagnati da geniali soluzioni armoniche e timbriche, altre volte ossatura di pagine in cui il flusso melodico (altro aspetto qui in primo piano) rompe la fitta rete armonica e contrappuntistica per affermarsi con energica icasticità. Ogni situazione e ogni personaggio sono contraddistinti da un linguaggio e da una forma, senza che per questo vada perduta l’unità stilistica e costruttiva dell’insieme: fonte di definizione psicologica e di contrasti fertilissimi, essi non sono principi rigidi, ma elementi di analisi e di sintesi insieme, mezzi espressivi che variano di continuo e impercettibilmente a seconda del contesto.
Condensando la trama alle sole parti essenziali, Busoni sceglie le situazioni drammatiche di per se stesse più concisamente identificabili e le sviluppa musicalmente in forme nettamente definite. Così il primo atto, suddiviso in due quadri, ha il compito di presentare, con l’ambiente e i personaggi, le premesse della vicenda e il suo svolgimento fino alla scena degli enigmi, in cui essa tocca l’apice. Il modo in cui questo intreccio di elementi illustrativi e drammatici si concentra in forme musicali autonome è già di per sé sintomatico delle intenzioni di Busoni. Il primo quadro si svolge davanti alla porta di Pechino: il principe Kalaf (tenore) apprende dal fido servitore Barak (baritono) la storia della bella principessa Turandot e dei tre enigmi che ella usa proporre, pena la testa, ai suoi pretendenti («Introduzione e Scena»). Rimane scettico e incredulo, ma è subito costretto a convincersi udendo il «lamento» della Regina Madre di Samarcanda (soprano), una negra bizzarramente agghindata che piange il figlio condannato a morte e si accanisce sul ritratto della crudele principessa. Alla vista del ritratto, Kalaf rimane folgorato («Arioso») e decide seduta stante di tentare l’impresa, fra la disperazione impotente di Barak («Pantomima e Finale»).
Tutto questo primo quadro è dominato dal risuonare cupo e incalzante del motivo dell’«Introduzione», scandito dall’ostinato ritmico dei timpani (simmetricamente ripreso e poi sviluppato armonicamente nella crescente agitazione orchestrale del-la «Pantomima» finale). Il canto di Kalaf è aperto, diatonico e plastico (solo nell’ «Arioso» centrale esso ripiega in più assorte e liriche contemplazioni), e a sua volta contrappuntato efficacemente dal declamato estremamente lineare di Barak. Dalla concisa e viva semplicità di questa presentazione, emerge la stupenda pagina del «Lamento» della Regina di Samarcanda, personaggio e situazione inventati di sana pianta da Busoni: preceduto dal canto vocalizzato di un coro femmiile posto dietro la scena, esso si svolge su una melodia pentafonica di chiara derivazione orientale e oscillante fra modo maggiore e minore (di modo che esso contrasta con il diatonismo della scena precedente e introduce un elemento di inquieta, strana attesa); per poi piegarsi, quasi impercettibilmente, ad accenti più tragici e patetici, raccolti, ma come purificati e oggettivati, da Kalaf nel suo «Arioso».
Al tono comico-burlesco appartiene 1′ «Introduzione e Arietta» che apre il secondo quadro. Siamo nella sala del trono del palazzo imperiale. Il capo degli Eunuchi, Truffaldino (tenore), intento a far preparare la sala per l’imminente seduta, espone al ritmo di una grottesca marcetta la sua allegra filosofia della vita. Rimasto solo, si sprofonda in argomentazioni apparentemente serissime sul matrimonio (ghiotta occasione per una fulminea parodia del recitativo melodrammatico), ma è subito interrotto dalle fanfare dietro la scena che annunciano l’arrivo della corte. L’ingresso dell’imperatore Altoum (basso) avviene al suono di una marcia aulica e solenne, di vago gusto settecentesco e di tono elevato. La nota comica torna a predominare nel dialogo parlato di Altoum con le maschere Pantalone e Tartaglia (bassi), un dialogo che Busoni reinventa rispetto all’originale introducendo anche di sfuggita qualche battuta polemica («Da noialtri in Italia, Maestà, i zè tuti contenti quando che al teatro se va avanti a furia de morti asasinai. Ma capisso che zé de gusti barbari»: così Pantalone).
Pezzo culminante di questo quadro è il Quartetto. Esso segue la nobile «Aria di Altoum», così intrisa di caldi accenti mozartiani, e il breve, preliminare dialogo fra l’Imperatore e Kalaf. È da notare che è ancora una volta in una forma classicamente severa quale quella del Quartetto che Busoni tocca l’apice come compositore di teatro. Alle suppliche e alle esortazioni del Re, di Pantalone e di Tartaglia, tutte basate sulla ripetizione variata di una enigmatica cellula melodica discendente di quattro note nell’ambito di un tritono, il principe risponde ogni volta con una identica, decisa affermazione ascendente, icasticamente scolpita: «Tod oder Turandot! Von beiden Eines, nicht ein Drittes!» (Morte o Turandot! Delle due l’una, altro mezzo non v’è!). Via via che le invocazioni si intensificano, il movimento musicale si fa più serrato, innalzandosi sempre più e gradualmente verso l’acuto (questo procedimento, tipico di Busoni, ritornerà in una scena capitale del Doktor Faust). La cima del movimento ascensionale coincide così non soltanto con il momento di massima intensità espressiva, ma anche con quello in cui il materiale musicale, ossia la melodia sostenuta dall’intreccio armonico e polifonico, si espande in tutta la sua avvolgente ampiezza e densità.
A questo vertice musicale e drammatico, nel quale possiamo individuare la pagina più alta dell’intera opera, segue la scena degli enigmi. Annunciata da una marcia carica di attese e di minacce, appare Turandot (soprano) con il suo seguito di eunuchi e di ancelle. Fra queste è Adelma (mezzosoprano), principessa caduta in disgrazia e ridotta schiava, che riconosce in Kalaf la sua fiamma di un tempo. Altera e sprezzante, la principessa ammonisce e minaccia Kalaf, ma ne è turbata e si abbandona per un attimo a un inspiegabile presentimento: se egli dovesse morire, ella pure morrebbe. Un duettino quasi operettistico sancisce i sentimenti con cui i due si apprestano alla prova. Fin dall’inizio, l’intento di sdrammatizzare del tutto questa scena è evidente. Busoni la mantiene fino in fondo sul piano di una leggerezza fiabesca: una sorta di fantastica recita nella recita, alla quale tutti gli altri personaggi partecipano attivamente e vivacemente, ognuno con la nota che gli è propria, quasi divertendosi a improvvisare su un canovaccio ben conosciuto. Come aveva fatto Schiller e come più tardi farà Puccini (ma quanto diversamente!), anche Busoni cambia il contenuto degli enigmi rispetto all’originale gozziano: non senza una sottintesa simbologia, essi rispondono ali’ «intelletto», al «costume» e infine all’«arte». Brio, movimento, concitazione sempre crescente, ansie fittizie e ancor più fittizi furori accompagnano con magistrali sottolineature musicali questa sfarzosa messinscena; fino all’immancabile trionfo di Kalaf, salutato con esultanza da tutti fuorché Turandot, la quale, assurgendo per un attimo al rango di eroina tragica, leva un pugnale per uccidersi, ma viene tosto disarmata. La tensione, volutamente non troppo accesa durante la scena degli enigmi, s’impenna di colpo alla fine dell’atto, in uno dei brani musicali più straordinari dell’opera: dopo che sulla confusione generale Kalaf ha proposto il suo indovinello (un luminoso do maggiore avvolge ora la tranquilla certezza del suo trionfo), la musica a poco a poco si assottiglia, si spegne nell’eco delle assorte ripetizioni dell’oscuro enigma e si perde infine in estatiche successioni di misteriose armonie, di una purezza stellare, adamantina – come se a esse toccasse davvero rappresentare misticamente l’entrata in azione dell’elemento soprannaturale e fuori dell’ordinario.
Il secondo atto, anch’esso suddiviso in due quadri, è meno ricco di azione ma non di pagine preziose, soprattutto musicali: pagine che traggono profitto dai punti di riposo dell’azione per effondersi autonomamente e creare un’atmosfera, uno stato d’animo, una suggestione esclusivamente musicale. Esso è aperto da un «Canto con coro» intonato a sipario chiuso da una voce sola di contralto accompagnata da un piccolo coro femminile su un ritmo di barcarola, semplice e popolareggiante; segue poi una danza di pretta marca orientale ed esotica, assai suggestiva, ancora accompagnata dal coro (il materiale usato è quello del quinto e del sesto pezzo della Suite, «Il gineceo di Turandot» e, appunto, «Danze e canto»).
Nelle sue stanze, la principessa Turandot ripensa ai recenti avvenimenti. Nel suo animo si agitano sentimenti opposti: sconforto, dubbio, dolci fremiti, volontà di resistere alla nuova passione che la minaccia. Mirabile è il modo in cui Busoni costruisce questo «Recitativo e Aria» sul modello delle antiche arie italiane, senza ombra di ironia e senza eccessi melodrammatici, con sottilissimi trapassi psicologici. Anche la vocalità di Turandot, nel primo atto piuttosto massiccia e stentorea, indulge qui ad accenti più intimi, più morbidi e personali. Benché profondamente commossa, Turandot decide di non palesare il suo turbamento a nessuno; Adelma, però, la sua confidente, sembra essersi accorta dello strano mutamento. Ma ecco giungere Truffaldino: in un «Intermezzo dialogato» dai colori ovviamente accesi e caricaturali e poi in un’ «Aria» che motteggia tipici stilemi dell’opera buffa, egli narra i suoi comici e inutili tentativi di carpire allo straniero il suo segreto. Neppure di fronte alla solennità un po’ ampollosa di Altoum e della corte, ormai passati decisamente dalla parte di Kalaf, Turandot mostra segni di cedimento. Ma rimasta sola con Adelma, si confida con lei trepidamente; viene così a sapere che Adelma conosce il nome del principe e che per vendicarsi di esser stata da lui irrisa (in realtà ella lo ama e spera ancora di farlo suo) è disposta a rilevarlo a condizione di riavere la sua libertà e il suo rango di principessa. Turandot, sempre più ansiosa, acconsente e si appresta ad accogliere quel nome bramato. Ma noi non la udremo pronunciarlo, poiché sul «Duetto», che improvvisamente si interrompe, s’innesta senza soluzione di continuità un «Intermezzo» orchestrale di vaste dimensioni, ispirato al «Valzer notturno» della Suite: pagina altissima, cui Busoni qui affida non soltanto il compito di svelare musicalmente il mistero ineffabile e risolutivo, ma anche quello di creare una dissolvenza magica dell’azione per dare libero corso alla musica nella sfera che le è più propria (vedremo che questo procedimento busoniano ritornerà, potenziato, nel Doktor Faust). Questo esito sinfonico è reso ancor più efficace dalla multiforme fisionomia del duetto che lo precede, un duetto nel quale la tensione, dall’iniziale dialogo parlato, va sempre più acuendosi nel canto fino a raggiungere punte di autentica drammaticità; questa drammaticità poteva essere ricomposta e trascesa in termini di concentrazione musicale soltanto per mezzo di una sospensione sinfonica, come appunto qui accade.
Non a caso, dunque, l’acme di tutta la scena coincide con un interludio sinfonico assai sviluppato, sospeso tra sogno e realtà e magicamente trascendente l’ambito stesso dell’azione: musica pura e irriflessa, e insieme culmine espressivo di tutto il secondo atto, se non dell’intera opera, esso introduce in quelle arcane regioni superiori raggiungibili soltanto attraverso la musica, verso le quali un mistico del suono assoluto come Busoni consapevolmente tendeva. Per Busoni, solo là il mistero diviene musica, e la musica mistero.
Fedele al suo venerato Mozart, alla salita vertiginosa a tali altezze egli non poteva far seguire altro che una altrettanto rapida discesa nel mondo disincantato della fiaba. Con i suoi teatrali colpi di scena che rimettono le cose a posto accomunando nella festa di nozze vincitori e vinti (anche Adelma, che sa far buon viso a cattivo gioco ironizzando filosoficamente su se stessa: chissà quanti saggi consigli avrebbe potuto dare alla povera Liù, sua ben più tragica controfigura), l’ultimo quadro non rappresenta alcun iperbolico superamento finale, ma soltanto il lieto abbandono al giocoso meccanismo della favola: il classico «lieto fine», appunto, che lascia aperta ogni soluzione e ogni riflessione proprio in quanto è mera convenzione, illusione più vera e profonda della realtà. Un lieto fine suggellato allegramente, se ce ne fosse bisogno, da una elettrizzante «Marcia alla turca» dove il do maggiore è di rigore.
Mario Rossi / Orchestra Sinfonica e Coro di Torino della RAI
47° Maggio Musicale Fiorentino