Ferruccio Busoni: Fantasia indiana op. 44, per pianoforte e orchestra
Durante le tournées americane del 1910 e 1911, che valsero a consacrare ulteriormente su scala mondiale la sua fama di principe del pianoforte, Busoni ebbe modo di allargare con nuove esperienze i suoi interessi, già straordinariamente vasti, di compositore. Un’ex allieva newyorkese, Natalie Curtis, con la quale Busoni aveva già lavorato sulle edizioni pianistiche di Liszt, gli fece conoscere un buor numero di melodie originali della musica degli indiani pellirosse d’America, da lei raccolte e catalogate. Busoni se ne entusiasmò e pensò subito di utilizzarle in una composizione per pianoforte e orchestra, cui dette provvisoriamente il titolo di «Rapsodia indiana»; opportunamente rimeditato, il progetto fu ripreso e condotto a termine nel corso del 1913, concretandosi nella Fantasia indiana op. 44. Con essa non si esaurirono però gli stimoli prodotti dalla curiosa scoperta. Nel 1915, infatti, Busoni tornò ad occuparsi di quel materiale e ne ricavò i due libri del Diario indiano, il primo comprendente quattro studi per pianoforte, il secondo uno studio per piccola orchestra d’archi, sei strumenti a fiato e timpani dal suggestivo titolo Gesang vom Reigen der Geister (Canto della ronda degli spiriti) op. 47, la quarta delle sei «Elegie» per orchestra. La Fantasia indiana, che per impegno e dimensioni rappresenta il vertice di questa fase della creatività busoniana (peraltro, come sempre in lui accade, accompagnata da composizioni di tutt’altro genere e spirito), fu pubblicata da Breitkopf & Härtel a Lipsia nel 1915 (con dedica alla Curtis) ed eseguita per la prima volta a Zurigo nel gennaio 1916, sotto la direzione di Volkmar Andreae e con l’autore al pianoforte. Riscosse dovunque notevole succcesso finché rimase legata alla trascinante interpretazione del sommo pianista, per cadere poi anch’essa in quel deplorevole oblio che copre ancor oggi la nuda opera del compositore. Una sola volta, a Berlino nel 1921, l’autore cedette il suo posto all’allievo prediletto Egon Petri, cimentandosi nel ruolo a lui senz’altro meno congeniale di direttore d’orchestra: quasi a voler stabilire, alle soglie della malattia che lo avrebbe prematuramente ucciso e poco prima di uscire definitivamente di scena come concertista, una linea diretta di discendenza e insieme la speranza di sopravvivere solo come creatore. Conoscendo Busoni, e in particolare il Busoni di questi anni, non è difficile individuare la molla che lo spinse a tentare esperimenti così inconsueti come quelli di utilizzare un materiale esotico per una composizione che portasse nuova acqua al glorioso mulino del Concerto per pianoforte: a parte una certa dose di curiosità innata e di anticonformismo tipico della sua natura, gli veniva offerta l’opportunità di servirsi di motivi, temi, scale e sistemi armonici per così dire vergini, non sottoposti al condizionamento a ai vincoli della tradizione colta occidentale. Ciò era del tutto coerente con una poetica che mirava ad ogni costo all’allargamento dei mezzi espressivi, nella accezione più ampia del termine, e vagheggiava un ideale di unità sovrastorica e assoluta della musica, di tutta la musica «aleggiante nell’universo». Non in modo astratto, però. Non è pertanto un caso che molti degli schizzi per un trattato sulla melodia, seme di un nuovo stile compositivo che sarebbe sbocciato con la «giovane classicità» (così la chiama Busoni), risalgono all’epoca dello studio delle melodie indiane, da cui Busoni ebbe conferma di leggi interne ai fondamenti stessi del linguaggio musicale: leggi appunto assolute, valide sotto diversi aspetti e forme in ogni patrimonio musicale; e che, giusto negli anni medesimi, si venisse chiarendo, dopo la enunciazione teorica del saggio capitale Abbozzo di una nuova estetica della musica, l’importanza della trascrizione come essenza della composizione musicale.
Di fatto, dunque, le melodie indiane rappresentano soltanto il punto di partenza per una escursione quanto mai estesa nelle possibilità stesse della costruzione musicale, attraverso l’arricchimento dei suoi elementi costitutivi, senza preventive esclusioni. E significativo che, a dieci anni di distanza dal colossale Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. XXXIX, Busoni tornasse così ad affidarsi al pianoforte unito all’orchestra, nell’uno sintetizzando le caratteristiche di una tecnica vigorosamente lisztiana e quelle di una strenua ricerca personale, e concependo l’altra (al massimo del suo organico, con fitta schiera di strumenti a percussione) come sfondo riflettente, ora magico ora deformante, immagini e figure variamente, profondamente elaborate. Ciò non impedisce che il tono «indiano» del lavoro permanga: ma non nel senso di un’indulgenza all’esotico o di una caduta nell’illustrativo (anche qui Busoni sembra allontanarsi consapevolmente dalla moda dell’epoca), bensì in quello che il punto di partenza segna una traccia nella quale dal materiale originario sono tratte – compositivamente, strutturalmente – delle conseguenze. Se talvolta l’insistenza su particolarità melodiche eccentriche (nenie nostalgiche, canti rituali, bizzarre contorsioni su scale insolite) o su ritmi fortemente rilevati (soprattutto nei passi barbari e selvaggiamente «panici») nuoce all’identità stilistica dell’insieme e suggerisce un che di ibrido e di intenzionale, è sul piano della ricerca armonica e su quello, affatto complementare, della individuazione timbrica che si hanno i momenti più avanzati della sperimentazione busoniana. L’armonizzazione è sempre originalissima; frequente è la sovrapposizione tonale; inconsueto e personale il collegamento e l’ufficio degli accordi, riscontro pratico, permeato di logica intransigente e ragionatissima, dei paralleli studi su una «nuova teoria dell’armonia». La composizione si apre e si chiude in do maggiore, quasi a stabilire una corrispondenza simmetrica tra inizio e fine, chiaramente simbolica: ma al suo interno non ha una vera e propria tonalità fondamentale, è piuttosto un caleidoscopio in vertiginosa rotazione. Quanto al timbro, si passa continuamente da momenti di acceso colorismo, che quasi sbalzano un paesaggio pittorico, a sezioni di cesellata, raffinata trasparenza, nelle quali l’impasto strumentale nasce da levigate intuizioni e combinazioni puramente musicali; e innumerevoli sono i gradi intermedi. Su tutto domina da protagonista il pianoforte, portatore quasi unico di quel robusto intreccio contrappuntistico che distingue sempre, quasi perpetuo moltiplicarsi di voci e di richiami, lo stile busoniano. Dal punto di vista formale, la Fantasia indiana non presenta uno schema rigido, come del resto si conviene a una Fantasia (forma per eccellenza libera della musica strumentale) nella quale sopravvivono molti tratti «rapsodici» della concezione originaria. Ciò non significa che sia assente una logica costruttiva, una architettura organica allo sviluppo delle idee: Busoni non cessò mai di proclamarsi un «adoratore della forma», e lo fu, talvolta anche con eccessivo rigore, nei fatti. 11 concatenarsi delle idee e degli episodi, con relativi contrasti, riprese e un uso magistrale della variazione, segue uno sviluppo ininterrotto, senza cesure neppure nell’articolazione delle tre parti in cui il lavoro è suddiviso: «Fantasia», «Canzone» e «Finale», che si succedono, appunto, senza soluzione di continuità. Vi abbondano procedimenti tipici dello stile busoniano: ritmi di marcia, slanci improvvisi e altrettanto improvvise sospensioni liriche, gesti caricaturali e seriose meditazioni; oltre, naturalmente, a un virtuosismo pianistico trascendentale: si ascolti soltanto la Cadenza che lega la prima alla seconda parte o il frenetico crescendo finale. Caratteristico è il ricorso a minuziose indicazioni agogiche e dinamiche e a didascalie espressive tendenti, prima ancora che a definire un atteggiamento esecutivo, a suggerire all’interprete un clima poetico adeguato, quasi mettendo alla prova la sua capacità di reazione (sulla lunghezza d’onda di una cultura non propriamente elementare) e di concentrazione spirituale. Quel che si richiede dagli interpreti, e di conseguenza anche dagli ascoltatori, è uno sforzo di comprensione che, senza rinnegare l’immediatezza della percezione intuitiva, spinge in ogni momento alla ricerca di più sottili mediazioni intellettuali: segno già certo dell’appartenenza di Busoni a un’epoca di crisi e di dubbi sull’identità stessa del linguaggio musicale.
Vasilij Sinaisky / Jeffrey Swann, Orchestra sinfonica di Torino della Radiotelevisione italiana
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, Stagione sinfonica pubblica 1983-84