Ferruccio Busoni – Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra op. 39

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Il Concerto per pianoforte, coro maschile e orchestra, op. 39 costituisce forse in assoluto il lavoro più singolare e contraddittorio nella produzione musicale di Ferruccio Busoni. Pur trattandosi cronologicamente della sua prima opera di vaste proporzioni e di impegno ambizioso, un punto di riferimento obbligato sia per comprendere alcuni dei caratteri fondamentali della personalità di Busoni – quelli, si direbbe, incisi più profondamente nella sua natura biologica e psicologica -, sia per seguire gli sviluppi della sua arte soprattutto nel versante cosiddetto «italiano», la fortuna del Concerto op. 39 è stata, se possibile, ancora minore di quella delle più importanti e pur a lungo misconosciute composizioni di Busoni. Da una parte, infatti, la quasi totalità degli studiosi è stata incline a ignorarlo o a liquidarlo frettolosamente, spesso con motivazioni del tutto esteriori, piuttosto che a dedicargli quelle cure che proprio per un così complesso lavoro avrebbero dovuto essere particolarmente meticolose e attente, al di là del giudizio finale di merito; dall’altra parte, le possibilità reali di conoscenza di quest’opera, che solo l’esecuzione viva e ripetuta poteva assicurare, sono state a lungo inesistenti, e non soltanto in Italia, notoriamente fuori gioco in fatto di sordità nei confronti di Busoni. Si potrà dire, certo, che gran parte di questa situazione è dovuta alle obbiettive difficoltà che la esecuzione del Concerto op. 39 comporta, sia dal punto di vista dell’organico, sia da quello della scrittura musicale, che richiede innanzitutto un pianista di doti musicali e tecniche non comuni: ma poiché la storia ci ha insegnato, come per esempio nei casi di Mahler e di Schönberg, a diffidare di questi comodi alibi, sarà più conveniente cercare altrove le ragioni di uno stato di fatto, che è poi, non a caso, estendibile a gran parte della produzione di Busoni, toccando il suo vertice, ben altrimenti scandaloso, nei riguardi del Doktor Faust.

Tutto questo, naturalmente, non significa che il Concerto op. 39 è un capolavoro: semplicemente, è doveroso azzardare l’ipotesi che le ragioni per le quali si può parlare di esso come di un’opera sconosciuta prima ancora che misconosciuta stanno tutte nella impossibilità di valersi di schemi riduttivi, o viceversa onnicomprensivi, adatti a convogliare entro parametri accademici di una qualsivoglia tendenza una partitura che nasce libera e gioiosa, se si vuole iperbolica o perfino ingenua, ma sempre e rigorosamente «musicale», secondo i dettami più tipici della inconfondibile natura di Busoni. Un profondo atto di amore verso ciò che è, nella sua essenza, musica, nello spirito, se non nei termini, di Mozart; un atteggiamento dunque di libera creatività, che si configura come cosciente impegno espressivo, realizzato in una prassi compositiva che non disdegna di utilizzare, pur trascendendoli ogni volta, elementi puramente spettacolari, virtuosistici o mimici, spunti ironici, atmosfere magiche e addirittura mistiche. Che è poi, appunto, la cifra della già menzionata irriducibilità e contraddittorietà di un’opera risolta in valori musicali ora palpabilmente fisici ora irrealmente lontani e oggettivati «in una specie di al di là dei sentimenti», secondo le parole di Busoni; e ancora, su un altro piano, che si manifesta nella pacifica coesistenza di un codice basato sulle convenzioni e sugli stilemi della effettistica tradizione strumentale, ricca ed esuberante, con un linguaggio sottilmente e acutamente moderno, più controllato e tagliente.

Busoni cominciò a interessarsi ad un «Concerto per pianoforte» nella primavera del 1901, ma l’inizio del lavoro vero e proprio di composizione data dall’estate del 1902, e procedette con rapidità e facilità quasi mozartiane, tanto che già alla fine di luglio un primo abbozzo poteva dirsi compiuto, come risulta dalla lettera alla moglie Gerda del 21-22 luglio da Berlino. In tale lettera, anzi, Busoni compendiava, secondo una sua nota consuetudine, la sua idea sul lavoro in una figura «architettonico-paesaggistico-simbolica», da cui risulta che il piano dell’opera, nella sua stesura definitiva in cinque tempi di caratteristiche e intonazioni diverse, era solidamente costituito. Ripreso nell’estate del 1903 (Busoni in questi anni poteva dedicarsi alla composizione in modo totale soltanto durante i mesi estivi, quando i suoi viaggi per concerti subivano una sosta), il Concerto poteva dirsi realizzato alla fine dell’agosto, anche se Busoni continuò ad occuparsene, soprattutto per la strumentazione, fino alla primavera del 1904. In quello stesso anno, e precisamente il 17 novembre, l’opera fu eseguita per la prima volta a Berlino, con l’Autore stesso in veste di pianista; sempre con Busoni come pianista e con Bruno Mugellini come direttore d’orchestra, il Concerto fu poi eseguito per la prima volta in Italia a Bologna nel 1906, nel corso di quel viaggio che tanto entusiasmo per le sorti della musica italiana fece nascere in Busoni, sì da fargli desiderare di stabilirsi a Bologna. Infine, è doveroso ricordare che, per volontà di uno dei più illustri e benemeriti divulgatori di Busoni in Italia, Vittorio Gui, che la diresse con Baumgartner al pianoforte, l’opera fu inclusa nel cartellone del primo Maggio Musicale Fiorentino (1933), prima di essere sepolta in quell’oblio da cui oggi ufficialmente, a cinquanta anni dalla morte del suo Autore e a settanta dalla sua composizione, viene nuovamente tratta.

Il titolo esatto e completo, che si può leggere sulla partitura, suona assai formale:         « Concerto – per un pianoforte principale e diversi strumenti ad arco, a iato e a percussione – aggiuntovi un coro finale per voci d’uomini a sei parti – le parole allemanne del poeta Oehlenschlaeger, danese, la musica di Ferruccio Busoni da Empoli. Anno MCMIV, opera XXXIX». Busoni aveva l’intenzione di comporre un’opera di ispirazione italiana, che si valesse di una forma e di un materiale tematico tipicamente mediterranei, e seguì questa sua idea in almeno tre dei primi quattro tempi; nel quinto di essi, però, si volse verso un’altra fonte, quella del poeta danese Oehlenschlaeger, capovolgendo in un certo senso il segno del finale e, retrospettivamente, di tutta la composizione.

 Vissuto fra il 1779 e il 1850, Adam Gottlob Oehlenschlaeger, di origine tedesca, è considerato il massimo rappresentante della letteratura romantica dei paesi nordici, letteratura molto amata da Busoni forse anche perché gli ricordava il clima arcano e nebbioso, così adatto a essere trasfigurato e umanizzato letterariamente, che gli era stato familiare e consueto durante il suo soggiorno di oltre due anni in Finlandia. Da una lettera alla moglie datata 10 febbraio 1902, antecedente dunque l’inizio della composizione del Concerto, si ricava che Busoni voleva scrivere un lavoro teatrale su testo dell’Aladino di Oehlenschlaeger; se una tale idea non arrivò mai a compiersi, pure una traccia di quel progetto rimase appunto nel Cantico, l’ultimo dei cinque tempi in cui è articolato il Concerto, dove un «Coro d’uomini invisibile» intona alcuni versi tratti da un lungo brano

 Facente parte dell’Aladino, quello per l’esattezza che comincia: Die Felsensäulen fargen an tief und leise zu ertnen » («Le colonne di roccia cominciano a risuonare profondamente e piano»). I versi che Busoni estrapolò e musicò sono i seguenti, in traduzione italiana: «Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna / Sentitevi vicini ad Allah / Guardate la sua opera! / Nella luce terrestre cambiano gioie e dolori /        Tranquillamente stanno qui      i pilastri del mondo. / Mille e ancora migliaia d’anni / con la forza tranquilla di ora / resistenti ai lampi con lucente fermezza / essi rappresentano l’indistruttibilità! / Cuori s’infiammarono, cuori si raggelarono / Giuocando si alternavano vita e morte / Ma in calma attesa essi si estendevano / splendidamente e gagliardamente / mattina e sera. /

Alzate i vostri cuori verso la Forza Eterna / Sentitevi vicini ad Allah / Guardate la sua opera! / Interamente animato è ora il morto mondo. / Lodando la divinità, / tace la poesia!». Espressamente Busoni scriveva che il Coro di Oehlenschlaeger «simboleggia il misticismo della natura», e verso una dimensione effettivamente mistica e trascendente, di misurata interiorità, esso è proiettato con un nettissimo scarto rispetto alle parti che lo precedono.

Che cosa Busoni intendesse con questo finale Inno in lode di Allah non è facile dire. Musicalmente, se ne servì in maniera strumentale, intendendo dare con il Coro una nuova fonte sonora, esprimentesi in un respiro melodico ampio e in certo qual modo riassuntivo di tutto ciò che i precedenti movimenti avevano espresso: in questo senso, la prescrizione che «il coro sia lasciato internamente e non visibile» è indubbiamente significativa. Sulla scelta del testo, essa in fondo rientra nel quadro della spiritualità busoniana, attratta verso una trascendenza eterna rappresentata e rivelata dalla musica. Osserva quindi a proposito Vlad: «In realtà, ciò che deve aver attirato Busoni nei versi di Oehlenschlaeger deve essere stato più che altro l’esaltazione della ‘ Forza Eterna ‘ che trascende ‘ gioie e dolori che si alternano nella luce terrestre ‘. Quest’istanza di elidere i poli opposti dell’affettività umana, di conquistare una specie di ‘ al di là dei sentimenti ‘, sarà d’ora in poi una costante della sensibilità di Busoni e si rifletterà nella sua poetica spingendolo a cercare delle soluzioni formali atte a trascendere la inveterata dicotomia modale basata sull’esclusivo impiego, quali matrici di ogni figura sonora, dei modi maggiore o minore ai quali, appunto, una lunga consuetudine aveva finito coll’associare in maniera schematica la possibilità di mediare l’espressione degli opposti sentimenti umani. È questa necessità intima e quasi istintiva, e non una speculazione meramente teorica e astratta, che porta Busoni ad inventare dei procedimenti atti a portare alla formulazione di figure sonore modalmente neutre e svincolate dal classico binomio maggiore-minore. Ed è in questa direzione che egli arriverà a fare alcune delle sue scoperte più sensazionali e rivoluzionarie». D’altra parte, una volta definito l’ambito specificamente compositivo del Finale con Coro, occorre aggiungere che tale apparizione del Coro non può essere avvicinata al senso che un analogo procedimento assume, per esempio, in alcune sinfonie di Mahler, come la Seconda o la Terza. Inoltre, in Busoni anche il Finale è una parte del tutto, che si compone, nella accezione etimologica del vocabolo, accanto alle altre, diacronicamente e architettonicamente, senza essere, come accade in Mahler, il culmine espressivo di un cammino coscientemente necessario e perseguito unitariamente, a cerchi concentrici .sempre più stretti.

La caratteristica del Concerto op. 39, di essere cioè un’opera composita e non unitaria, non sfuggì del resto allo stesso Busoni, che così la giudicava nella sua Autorencensione (febbraio 1912): «È un’opera che tenta di riassumere i risultati del periodo della mia prima maturità e che rappresenta la sua conclusione. Come ogni opera che sorge in quest’epoca dello sviluppo, è matura per esperienza personale e si basa sulla tradizione. Non indica certo il futuro, ma rappresenta il momento della sua nascita. Le proporzioni e i contrasti sono distribuiti con cura, e, per il fatto che il piano era stabilito definitivamente prima che ne incominciasse l’esecuzione, non v’è niente in essa dovuto al caso».

Linguisticamente diviso fra modernità e tradizione, il Concerto op. 39 offre lo spunto per alcune riflessioni concernenti sia la sua posizione nel contesto storico della tradizione sia la sua costruzione specifica. Innanzitutto, il ricorso agli stilemi canonizzati della convenzione classico-romantica del «Concerto per pianoforte e orchestra», così come si era venuta sviluppando nel corso dell’Ottocento, non deve essere inteso come un rinnegamento di quella volontà innovatrice, di libera e operativa disponibilità verso il futuro, così caratteristica della poetica busoniana. Nel Concerto, osserva ancora Vlad, «si trovano pagine veramente superbe e in tutto degne del genio di Busoni. E non è detto affatto che tali pagine si trovino solo tra quelle che si distaccano dalla tradizione. Anzi, ci sembra che il Concerto raggiunga taluni dei suoi momenti più alti laddove, liberandosi da ogni scoria convenzionale, Busoni riesce a filtrare e a sintetizzare in una specie di ultimo, grandioso, riassunto conclusivo la grande tradizione del concerto solistico per pianoforte e orchestra». Sotto questo aspetto, gli esempi più vicini a Busoni erano senza dubbio quelli di Chopin e di Liszt, anche se un indubitabile precedente, assai più vicino al piano costruttivo dell’opera, era costituito da quella singolare Fantasia per pianoforte, coro e orchestra, op. 80 di Beethoven, che Busoni considerava un vero e proprio avviamento verso la Nona Sinfonia.

Due elementi colpiscono subito nell’opera di Busoni: la sua dimensione insolitamente grandiosa, perfino gigantesca in quanto a mezzi e intenti, e, strettamente connesso con il primo, il virtuosismo che la pervade quasi senza interruzione. Da questo punto di vista il pianoforte assume una fisionomia nettamente in risalto, e qui veramente Busoni dà la mano al miglior Liszt, anche se poi, in sostanza, al di là della scrittura pianistica estremamente difficile e impegnativa, il rapporto fra solista e orchestra risulta in una contraddittoria bipolarità:          il pianoforte infatti non si contrappone dialetticamente alla orchestra seguendo una propria autonoma linea, ma piuttosto entra a far parte dell’orchestra riassumendone, a un livello altamente potenziato, le caratteristiche tematiche e timbriche, ponendosi quindi come primus inter pares anche là dove sembrerebbe stagliarsi nettamente sullo sfondo che lo comprende. Lo sforzo di Busoni, quindi, di scrivere una specie di summa di una delle forme più tipiche della letteratura classico-romantica, secondo le indicazioni critiche di Vlad, si arricchisce di una potente forza dirompente, che trascina veramente allo stadio di un’ultima testimonianza internamente dissociata proprio là dove la sua carica di segno positivo è preponderante. L’entrata del Coro nel quinto tempo, infine, funziona come una specie di bilanciamento delle forze in giuoco, che ora si ricompongono in un nuovo equilibrio dai lineamenti più controllati e più compatti.

Con un’altra caratteristica formale bisogna fare i conti, e precisamente con l’uso, che poi Busoni svilupperà in suoi successivi lavori, di materiale popolaresco ed «esotico», qui rappresentato da canzoni popolari e folkloristiche italiane. Anche senza dover essere per forza d’accordo con Vlad, allorché afferma che «quando Busoni si vale di un materiale tematico esotico non lo fa per ottenere un pittoresco color locale, ma in funzione precipuamente strutturale, nel senso, cioè, in cui avrebbe sempre operato Bartòk ed in cui opera ancora oggi Messiaen», è certo che il problema non può essere risolto con comode etichette di giudizio insensatamente negativo. Ma è anche vero che, nel nostro caso, Busoni intendeva servirsi di questo materiale proprio in funzione coloristica, immediatamente operativa e non critica, nel segno di una istintiva e fresca musicalità ferreamente positiva, non sottoposta quindi nemmeno alla intenzionale carica dissacratoria e polemica, insieme disperata e fiera, che riscatta, fino a farli diventare bellissimi, la banalità e la volgarità dei motivi canzonettistici di Mahler.

Il Concerto op. 39 si apre con un Prologo e Introito («Allegro dolce e solenne») in cui i due temi principali, ambedue presentati dalla orchestra, acquistano un progressivo e ampio sviluppo nel dialogo con il pianoforte, vero e proprio asse portante di tutta la composizione, anche se raramente con funzioni esplicitamente solistiche; dei due temi, mentre il primo per la sua classica solidità richiama alla mente il lirismo a volte perfino epico di Brahms, il secondo si riconnette direttamente a Skrjabin, e non a caso Zaccaro ha parlato, a proposito di tutto il lavoro, della presenza di «certa tendenza mistico-eroico-iperbolica che fa venire in mente Skrjabin». Da notare, insieme con la sempre cangiante dinamica orchestrale, l’uso di procedimenti contrappuntistici che, sia pur in misura minore rispetto ad altre opere di Busoni, contribuiscono alla architettura musicale di tutta la composizione.

I1 Pezzo giocoso («Giovanescamente giocoso e forte») che segue ha carattere di Intermezzo o di Scherzo ed è costantemente improntato ad una vena di effervescente vivacità, di marcata varietà ritmica e di appassionato virtuosismo. Il secondo tema, affidato questa volta al pianoforte, non è altro che la canzone popolare napoletana Fenesta ca lucive, sottoposta ad una raffinata mutazione modale ed elaborazione. Dal punto di vista armonico, Busoni appare qui obbiettivamente «moderno» ed inesauribile è la sua ricerca timbrica e coloristica, che trascorre da una invenzione all’altra con divertito stupore. Il terzo tempo, Pezzo serioso, diviso in quattro parti (Introduzione; Prima pars; Altera pars; Ultima pars) è un «adagio» di vaste proporzioni e di problematica definizione, in  cui, fra l’altro, Busoni riutilizzò, oltre a un suo Studio inedito, del materiale tratto da una sua «opera romantica» intitolata Sigune, oder dos stille Dorf («Sigune, ovvero il paese tranquillo»), soltanto abbozzata fra il 1887 e il 1889. Tematicamente, si è parlato a proposito di questo pezzo di influenze wagneriane, soprattutto nel caso del tema che apre la Introduzione, tutto pervaso da una espansiva ansia cromatica. Anche nello sviluppo di questo tema è possibile in effetti riconoscere un aggancio con l’armonia cromatica wagneriana, anche se forse in modo più convincente si potrebbe tirare in ballo il solito Liszt o, ancora, l’intimismo lirico di Chopin (si potrà notare che la tonalità d’impianto è il re bemolle maggiore, una delle predilette da Chopin).

Comunque, al di là di questi riferimenti che lasciano sempre il tempo che trovano, può essere utile osservare l’ampio svolgimento che Busoni dà alle sue molteplici risorse tematiche, in un reiterato susseguirsi di momenti di slancio e di momenti di riposo, sapientemente guidati dalla «presenza» del pianoforte.

Il tempo che segue, All’Italiana (Tarantella), è il più caratteristico e individualizzato, come già il titolo indica. Fu anche quello che più impegnò e nello stesso tempo entusiasmò Busoni, come possiamo desumere stralciando qua e là da alcune lettere alla moglie scritte nel corso dell’estate del 1902: « …sono immerso fino al collo nella ‘ Tarantella ‘ …nuoto in un mare di terzine, suono il tamburello, salto su un piede solo (ma non perché non abbia abbastanza spazio nella stanza) – questa ‘ Tarantella ‘ che segue, 1’Adagio dà la stessa impressione che si prova quando si esce dal Foro e ci si trova in una strada popolare di Roma. O di una festa popolare che prende l’avvio dal Pantheon. Anche la bella canzone: ‘e sì, e sì, e sì che la porteremo, la piuma sul cappello, davanti al colonnello, giuriam la fedeltà’ ci sta benissimo». « Nella ‘Tarantella’ c’è una notte d’amore con una serenata e anche un’eruzione del Vesuvio». «La ‘ Tarantella ‘ deve diventare Napoli stessa; solo un po’ più pulita, ma non così pulita come gli altri tempi». Dunque, una vera e propria vorticosa Tarantella napoletana, logicamente      in 6/8, che si ispira concretamente non soltanto alla  solita Fenesta ca lucive, ora genialmente parafrasata a mo’ di canzone a ballo, ma anche a due diverse canzoni popolari : la prima è la famosa canzone dei bersaglieri di Lamarmora, già ricordata nella citazione precedente «e sì, e sì, e sì che la porteremo…», mentre l’altra è una canzone popolare e folkloristica, «la dis, la dis, la dis che l’è malata… », che segue alla prima in un crescendo di concitata e quasi furiosa baldoria. Si noti non soltanto la scorrevolezza quasi a precipizio di tutto

il movimento, ma anche lo sviluppo, il suo interno accrescersi e accalorarsi fino alla «stretta» finale («a passo a passo infuriando»), dove l’abilità di Busoni raggiunge un acme impressionante, anche se di discutibile effetto. Giustamente un commentatore ha osservato, riferendosi alla Tarantella : «Tempo sgargiante, pieno di sole, quasi orgiastico e di diabolica difficoltà pianistica». Ma come dimenticare quanto scrisse nella sua recensione alla prima esecuzione assoluta dell’opera un critico berlinese, che cioè «la Tarantella descriveva tripudi di bevitori di assenzio e di bagasce»?

Non è dato sapere se Busoni ne fosse consapevole, ma certo lo iato che separa il quarto dal quinto tempo è notevole. In una prima intenzione, il Concerto doveva concludersi con la Tarantella, ma, una volta cambiato il piano dell’opera (e questo avvenne già nel luglio del 1902), Busoni non ebbe più dubbio alcuno.

Comunque, il Cantico finale ci trasporta in una atmosfera del tutto diversa, per non dire opposta, e si ricollega anche tematicamente (trasformazione e variazione di motivi già uditi) al Pezzo serioso. L’ultimo tempo presenta fin dall’inizio una instabilità tonale che si allarga anche a squarci di politonalità, e ha un’impronta prettamente «germanica» (che lo differenzia dalla matrice «italiana» del resto dell’opera), austera e riservata, fino alla entrata del Coro maschile, con carattere di Corale. L’impostazione decisamente melodica dello svolgimento, sul già precedentemente menzionato Inno in lode di Allah, conduce ad un crescendo di nobile intensità, che si distende poi in orchestra nel bellissimo canto dei violoncelli; la didascalia busoniana, «Molto solenne», indica perfettamente il carattere della sezione finale di questo tempo, pervasa da un intimo sentimento espresso dal canto corale su un tema tratto dal Pezzo serioso, prima di sfociare in una effettistica e pomposa conclusione di nessunissima importanza.


Michael Gielen / John Ogdon, Orchestra  e Coro maschile del Teatro Comunale di Bologna

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