Nel diario «Il sipario rosso» la vita di Gianandrea Gavazzeni fra 1950 e 1976
Ma esisteranno poi davvero quei famosi quaderni giallini o color avorio scuro nelle amate case di Bergamo e di Baveno, riempiti nello scorrere degli anni, tanti, di appunti di diario così come ora li possiamo leggere nella collana einaudiana dei «Saggi»? O non saranno piuttosto una finzione letteraria per giustificare il più bel volume di racconti, pensieri, riflessioni, aneddoti, fatti e personaggi scritto in questi ultimi tempi da un musicista?
La domanda sorge spontanea leggendo Il sipario rosso. Diario 1950-1976 di Gianandrea Gavazzeni: un libro nel quale tutto sembra appeso al filo della memoria, come di chi ripensasse oggi, a luci abbassate, gli eventi di una vita piena e meravigliosa sí spesa alla ribalta, ma con la precisa coscienza che il suo valore e il suo significato stessero nel saper meditare e giudicare dietro le quinte, ponderando anche l’immediatezza; descrivendo, certo, impressioni e avvenimenti, ma solo per poterli fissare e consegnare al ricordo, onde riviverli a distanza.
Neppure la precisione con cui essi sono stesi, con tanto di luoghi, date, nomi e particolari che lascerebbero presupporre la scrittura istantanea, avvalora l’esistenza di quei quaderni. Gavazzeni saprebbe benissimo raccontare anche oggi, nella lucidità dei suoi ottanta e passa anni, i dettagli ancorché minimi di un incontro lontano, e dircene con esattezza l’ora e il perché.: un’occasione, un gesto, una luce, un profumo, non si dice una persona o un fatto, una esecuzione o una emozione provata, rivivono nella sua conversazione con la vivezza del presente. Ma è un presente che diviene, nell’atto stesso del racconto, ricordo e memoria: come nei suoi scritti. E ogni volta non ci stupiremmo se ne sortisse all’istante una nuova pagina di diario da aggiungere alle tante qui pubblicate.
La scelta di incorniciare, della sua vita, poco piú di un quarto di secolo per darne testimonianza in un diario pubblico è del tutto dimostrativa, ma in sé non casuale: sono gli anni della maturità artistica e culturale (si vorrebbe azzardare: esistenziale), ma anche gli anni in cui si consuma un’illusione, e con essa si fortificano le convinzioni, e queste diventano, o meglio tornano ad essere, dubbi. «Si ha subito la sensazione», scrive Gavazzeni all’esordio degli anni Cinquanta, «che tutto quanto avrebbe potuto essere o divenire in una nuova società, dopo gli orrori della guerra, è già stato reso impossibile, impedito, e che ci si avvia a un nuovo regime, alla politica di un nuovo regime».
Questa sensazione, consapevole o inconsapevole, si cangia di lí a poco in rifiuto («Che cosa rifiutavo? La rottura completa con un ordine precostituito che secondo me cambiava l’idea di musica, così come si è configurata dal ‘500 a oggi, dentro le strutture dell’umanesimo musicale»); per trasformarsi, via via che l’epoca si abbuia e le residue certezze attorno si sfaldano, in malinconia, o nella sua faccia opposta, la vampata dell’opposizione drastica, talvolta eccentrica o provocatoria, per sfida.
Di questa parabola, di questo processo, il diario di Gavazzeni non si limita a fare la cronaca: ne traccia per rapidi schizzi la storia, nuda e cruda, con forza.
Naturalmente tutto ciò accade in una personalità che se non rinuncia a prendere nettamente posizione non si sente per questo depositaria di una verità. Anzi. piú volte Gavazzeni ha mostrato di compiacersi (o forse ha solo finto) per le definizioni contraddittorie che di lui sono state date: fra le tante («un incoerente appagato», «un anarchico sedentario», «uno scettico deluso»), una specialmente sembra che gli si attagli, come sottolinea Corradio Stajano nell’introduzione: quella di «dissimulatore onesto».
Sono vezzi che appartengono alla superficie brillante del personaggio, e in parte al suo carattere inquieto, ma di cui il volume non reca tracce ambigue: di fronte a un diario non occorre simulare, neppure per schermire le passioni e le delusioni. Tanto piú che Gavazzeni, scrittore finissimo, nella sua insaziabile curiosità di lettore e da frequentatore assiduo del genere sa per antica passione che impegnarsi a tenere un diario è un esercizio in cui verità e letteratura s’intrecciano fino a confondersi: e occorre essere capaci di sostenere il confronto con onestà totale, oltre che con cura stilistica. Annota il 10 gennaio 1951: «Vanno di moda i diari asciutti, tagliati col nitore del cristallo, a punta di succhiello. Vorrei accudire a un diario minuzioso, lentissimo, disciplinato come un esercizio giornaliero di contrappunto; dove in quelle pagine tenaci venisse analizzata ogni minima frazione della giornata musicale». Se il referente è dunque in primo luogo la musica, e tutto ciò che con la musica quotidianamente e professionalmente ha a che fare, ogni esperienza della vita insegna che in qualunque condizione, anche nella menzogna, è presente e attuabile il disegno dell’umana verità: incarnata nelle persone e nelle cose, come in tanti incontri fuggevoli o rapporti artistici duraturi splendidamente rievocati in queste pagine, o nelle letture, «per ritrovare riaffermata, con l’entusiasmo di un fanatico, che la bellezza estetica esiste, senz’altro scopo all’infuori della sua stessa esistenza e della decantazione». E quando si manifesti un accento di verità, ogni momento di sfiduciata debolezza è sentito come viltà e diserzione.
L’ultimo appunto del diario reca la data del 20 aprile 1976 ed è un ragionamento sulla morte della musica. Ossia: di una certa idea o pratica della musica. Non un momento di sfiduciata debolezza, ma a suo modo una constatazione obbiettiva, di profondissima nostalgia. Sembra partir di lí, dall’ultimo anello, a ritroso, la catena dei ricordi, l’onda lunga della memoria, il filo prezioso di cui è intessuto il diario di Gavazzeni.
Il sipario rosso si abbassa, le luci si spengono: finisce la rappresentazione, o sta invece per incominciare? Giureremmo quasi che solo allora Gavazzeni abbia preso a riempire con la sua minuta calligrafia quasi infantile quaderni giallini o color avorio scuro, non importa, nelle amate case di Bergamo e di Baveno: per non dimenticare, e non farci dimenticare, la pienezza di una vita che in molti gli invidiamo.
Gianandrea Gavazzeni, «Il sipario rosso. Diario 1950-1976», Einaudi, pp. 821, lire 75.000
da “”Il Giornale””