Engelbert Humperdinck – Hänsel und Gretel, commedia fiabesca in tre quadri (in forma di concerto)

E

Hänsel und Gretel: il posto delle fragole di Humperdinck

 

«Non so come avvenne, ma la chiara realtà del giorno sfumò

in immagini di sogno. Non so nemmeno se fu un sogno, o non

piuttosto dei ricordi che emersero con la forza di eventi reali.

Il vecchio posto delle fragole.»

(Ingmar Bergman, Il posto delle fragole)

 

 

La fiaba Hänsel und Gretel dei fratelli Grimm inizia, come tutte le fiabe che si rispettino, con un “”c’era una volta”” ed è forse la più famosa della prolifica coppia: un successo che nei paesi di lingua tedesca si può paragonare a quello avuto da noi da Pinocchio. Gli archetipi fondamentali del racconto di origine popolare e di tradizione orale si connettono qui con un mondo fantastico tipicamente romantico (la natura, il bosco, la strega cattiva, gli incantesimi), letterariamente fiorito e innestato su un terreno anche storicamente favorevole: è di pochi anni prima il lavoro di Arnim e Brentano alla raccolta di canti popolari Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), che tanta importanza avrebbe avuto non soltanto nell’educare la coscienza della nazione ma anche nella musica.

Nel passaggio dal modello originario dei fratelli Grimm al Märchenspiel in drei Bildern (ossia “”fiaba drammatica in tre quadri””) Hänsel und Gretel di Humperdinck, le cose cambiano assai. E non soltanto perché in mezzo era passato molto tempo, e la messa in musica anche di una fiaba richiedeva ovviamente numerosi adattamenti. Fu la trama stessa del racconto a essere sostanzialmente modificata, in parte edulcorata: perdendo così il suo carattere primitivo di fiaba per diventare quasi una commedia di tipo borghese. Ma procediamo con ordine. Engelbert Humperdinck era un musicista tanto stimato quanto isolato allorché ricevette dalla sorella minore, Adelheid Humperdinck in Wette (suo marito, il dottor Hermann Wette, era un internista di Colonia: borghese e agiata la sua famiglia), la richiesta di comporre un’operina per il teatrino di marionette delle nipotine Gerda e Ada: da rappresentare tra le pareti domestiche. Fu Adelheid stessa a scrivere il libretto (che reca la data del 18 aprile 1890), rielaborando per l’appunto            la storia notissima di Hänsel e Gretel. Siamo dunque nel 1890. I1 successo dello spettacolino risultò tale da indurre il compositore a rielaborarlo a sua volta, prima ingrandendolo, poi aggiungendo nuovi personaggi, nuove scene e nuove musiche, fino ad arrivare a concepire un progetto ambizioso, insieme serio e faceto: non avrebbe potuto esso diventare una sorta di Kinderstuben-Bühnenweihfestspiel, ossia all’incirca un “”dramma sacro per la stanza dei bambini””, da proporre in teatro anche agli adulti? (Per capire il gioco di parole, si deve sapere che Humperdinck era un fanatico wagneriano, e Bühnenweihfestspiel – “”dramma sacro””, “”sagra scenica”” – era per l’appunto il sottotitolo dell’ultima opera di Wagner, Parsifal). Nel 1891, anzi per l’esattezza per il Natale del ’91, nacque una nuova versione, trasformata in una vera e propria opera di dimensioni spettacolari e sinfoniche, con grande orchestra. Humperdinck la mandò in visione a molti teatri; nel frattempo continuò a lavorarci: riorchestrò il secondo quadro nel febbraio del ’93 e in settembre suggellò il lavoro componendo il vasto Preludio, che espone i temi principali dell’opera. La risposta fu entusiastica soprattutto da parte dei direttori d’orchestra, molti dei quali fecero a gara per assicurarsi l’opera peri loro teatri: a spuntarla fu il giovane Richard Strauss, che diresse la prima rappresentazione al Teatro di corte di

Weimar il 23 dicembre 1893, precedendo di pochi giorni colleghi allora ben più autorevoli e non a caso di area wagneriana: Hermann Levi a Monaco e Felix Mottl a Karlsruhe. Da allora Hänsel und Gretel divenne nei teatri tedeschi una specie di appuntamento obbligato delle feste natalizie. Ma non solo di quelle, dato che si diffuse ovunque come una specie di allegro contagio. Opera d’esordio di molti direttori, e bene augurante, se è vero che con essa Gustav Mahler colse nel 1894 il suo primo grande successo personale ad Amburgo e per i giovanissimi Herbert von Karajan e Wolfgang Sawallisch essa sarà la prima opera diretta in teatro.

A tali esiti contribuì senza dubbio la felicità inventiva della musica di Humperdinck, da lui stesso mai più raggiunta, e tale da consegnarlo alla storia della musica in virtù di questo solo titolo. Ma le ragioni del successo vanno cercate anche altrove: nell’essere la fiaba drammatica di Humperdinck, nella sua apparente gracilità, una commedia stratificata, cresciuta da se stessa e su se stessa, originale nel suo riuscito innesto di stili naturali e contraffatti, semplice e immediata nel presentarsi come una celebrazione sommessa di valori antichi e immortali.

 

Si è detto dei cambiamenti. Essi riguardano anzitutto il libretto. L’intenzione principale della Humperdinck-Wette fu di togliere dalla fiaba dei Grimm tutti gli elementi evidentemente ritenuti troppo brutali o addirittura sconvenienti: innanzitutto quella crudele volontà infanticida (nella fiaba ribadita due volte) che spinge i genitori sfiniti dagli stenti (nella fiaba a dire il vero soprattutto la donna, più matrigna che madre, di cui il padre è succube) ad abbandonare i figli a morte sicura nel bosco. Che non volesse così turbare, con la rappresentazione di una madre snaturata, i buoni sentimenti delle figlie destinatarie dello spettacolo? Sarebbe comunque curioso, dato che si sa che le favole hanno inconsciamente il compito di far riflettere sulle differenze tra finzione e realtà e che i bimbi le amano anche per questo. Scomparvero inoltre, accanto ad altri particolari secondari (per esempio il babbo non è più un povero taglialegna, ma un accorto venditore di scope: il che serve prima a imbastire un predicozzo sulla pigrizia dei bambini che dovrebbero invece aiutarlo, poi a introdurre la sorpresa dell’insperata fortuna di una vendita fortunata), trovate che hanno fatto da sole la fortuna della fiaba: prima fra tutte l’idea geniale dei bravi sassolini e delle inutili bricioline, usate da Hänsel come segnavia per ritrovare la strada di casa. Che cosa accade invece nel libretto? Nel primo quadro – Daheim (A casa) – accade che la donna, infuriata perché invece di lavorare i monelli non fanno altro che trastullarsi, fantasticare, cantare e ballare (indugi in se stessi ovviamente assai produttivi per la musica), e provocano addirittura la tragedia della rottura della brocca del latte per poi ridersela, li spedisce in malo modo a raccogliere fragole nel bosco. Suscitando a sua volta le ire del babbo, che torna a casa carico di una bisaccia stracolma di viveri e di delizie e rimprovera la moglie per la sua imprevidenza: non sa che il bosco è abitato dalla terribile strega del Marzapane, che attira i bambini con trappole di dolciumi per poi cuocerli e trasformarli in tanti panfortini? Di fronte allo sbigottimento di lei, che si trasforma nel terrore di ogni buona mamma, il babbo spiega come è fatta e che cosa fa una strega: cattiva certamente, malefica, ma non al punto da diventare anche cannibale. La situazione che si è venuta a creare è dunque preoccupante, forse disperata, ma involontariamente: giacché né la mamma né il babbo si sono mai sognati di abbandonare i figli nel bosco. Difatti corrono subito a cercarli, mentre la musica amplifica con un animato interludio l’orribile visione del sabba delle streghe.

Questa situazione produce come è ovvio delle conseguenze. Che non sono solo, volendo riconoscere alla buona madre Adelheid Humperdinck in Wette qualche giustificazione artistica, dettate da prudenza, ma anche dall’intenzione di dare al racconto occasioni musicali e teatrali più favorevoli, anzi favorevolissime.

Nel secondo quadro intitolato Im Walde (Nel bosco) assistiamo ai giochi birboni di Hänsel e Gretel, tutt’altro che spaventati dall’ambiente che li circonda, anzi attratti soprattutto dal richiamo del cucù (l’uccellino cattivo che mangia le uova dei nidi, comprese le proprie), di cui si divertono a scimmiottare il verso. Ma poi scende la notte e la paura li assale. Ed ecco apparire improvvisamente una figura misteriosa, un nano piccolo piccolo: è il nano Sabbiolino che, come dice la sua canzone, vende granelli di sonno ai bimbi per farli addormentare. Affascinati dal suo canto letargico i bimbi si addormentano, non prima di aver recitato la preghiera della sera; e mentre si addormentano, da un arcobaleno luminosissimo scendono sette paia di angeli custodi vestiti di bianco, a circondare di serene visioni i loro sogni innocenti. Questa apparizione, che nella fiaba manca del tutto e che fu aggiunta nella seconda versione dell’opera, fu verosimilmente inserita da Humperdinck stesso per consentire di creare una scena di tipo fantastico, realizzata musicalmente con un assorta episodio sinfonico in forma di pantomima.

Simmetrica a questa, anche se opportunamente differenziata, è la scena che apre il terzo e ultimo quadro – Das Knusperhäuschen (La casetta di Marzapane, ossia la Casa della strega) -, scena anch’essa aggiunta da Humperdinck e nella quale un’altra apparizione, quella della Fata Rugiada che all’alba risveglia la natura dal sonno, viene a precedere con poetica sospensione lirica la ripresa del corso dell’azione. Il racconto rientra adesso nell’alveo della fiaba, ma con motivazioni psicologiche

assai diverse. Appaiono la casetta tutta , ricoperta di dolci, che Hänsel e Gretel si mettono a rosicchiare credendo sia un dono degli angeli, quindi la strega, che è co+sì cattiva, ma anche un po’ buffa: infatti paralizza i bambini incantandoli con un hokus pokus, o sortilegio che dir si voglia, in lingua latina, ed esibendosi poi in una comica galoppata sul manico di scopa. Buffa e anche sciocca, la strega, se nonostante la sua conclamata abilità si fa ingannare da Gretel e finisce nel forno al posto suo. L’atmosfera della fiaba è a questo punto ricomposta, ma l’epilogo è ancora una volta virato verso il miracoloso. L’uccisione della strega spezza il sortilegio e riporta alla vita tutti i bambini caduti sotto il suo incantesimo, da lei imprigionati, cotti e cucinati in biscotti di marzapane, ma non uccisi. Nel tripudio generale, al quale partecipano anche il babbo e la mamma ritrovati (la donna dunque non è morta, come accade invece nella fiaba), trionfano i piccoli eroi e i loro compagni redivivi: con un ultimo colpo di scena, dal forno in cui sta cuocendo la strega esce una enorme torta di marzapane che tutti cominciano a divorare con gran gusto. Segue la morale della favola, anch’essa inventata di sana pianta: bisogna aver fiducia nel Signore, che non abbandona mai chi lo prega. Ed ecco che allora tutti insieme, Hänsel, Gretel, babbo, mamma e il coro dei piccoli rinati, intonano lodi al Signore misericordioso, lasciando intendere, dato che ai forzieri della strega di Grimm non v’è la minima allusione, che le buone azioni spirituali valgono più di ogni ricchezza terrena.

L’insistenza sul tasto del fantastico e dell’edificante distingue, come si è già detto, il libretto dell’opera dalla fiaba originaria, che ha invece forti tratti realistici, inquietanti e perfino sgradevoli (la crudeltà dei genitori, la spregiudicatezza dei bambini, l’incarnazione del male nella strega cannibale, l’esclusione della donna matrigna dal trionfale lieto fine, il pedale della fame materiale e della miseria spirituale, la morale conclusiva un po’ cinica: solo con il capitale si raggiunge la felicità; tutti aspetti che nell’universo della fiaba possono essere interpretati in chiave psicoanalitica, morale e addirittura politico-sociale). Se la riduzione del libretto aveva soprattutto finalità pratiche (molto tedesche e gemütlich: offrire alla fantasia di due brave bambine un’occasione di divertirsi, esercitando le loro doti musicali), Humperdinck, passata la destinazione domestica, ne fece la base per un’opera nella quale scatenare la sua inventiva fino ad allora repressa: sfoggiandola per così dire in grande, ma senza apertamente dimostrarlo. L’esile architettura del soggetto gli consentiva di mettere le mani avanti: per quanto “”drammatica””, la sua era pur sempre una “”fiaba””. In realtà, a parte il riferimento semiserio a un Parsifal per bambini, quel che ne sortì fu un’opera vera, con situazioni spettacolari grandiose, con un’orchestra potentemente squadernata e uno stile vocale schietto, ma di impegno assoluto. Al punto che Hänsel und Gretel divenne una partitura destinata a interessare non soltanto i direttori, ma anche a vario titolo i cantanti (anzi le cantanti: essendo tutti i ruoli, a partire dai personaggi principali, per voci femminili, eccezion fatta per il padre), rendendo improponibile ogni ripresa affidata a voci infantili. La vocalità dei due protagonisti richiede voci importanti, mature e flessibili: insomma voci di primedonne. Ed è in tutta questa serie di passaggi dalle premesse originarie al risultato finale che si svela il vero significato della musica, il talento del suo autore.

Proprio Hänsel und Gretel può aiutarci a spiegare il fenomeno Humperdinck. L’opera, pur rappresentando un unicum, illustra assai bene la sua personalità. Partendo da un progetto minimo, che contemplava quasi solo belle canzoncine infantili di stampo popolare, egli giunse a realizzare un lavoro teatrale di grandi dimensioni, ricco di effetti mirabolanti e scenicamente incalzante, tutto guizzi e slanci. Ciò gli riuscì per mezzo di un uso sciolto e sapiente dell’orchestra, uniformata, più che alla tecnica narrativa del Leitmotiv wagneriano, a quella evocativa dei “”motivi di reminiscenza””: motivi plasticamente individuati, che si ripresentano in situazioni diverse, ma sempre con alta capacità di definizione espressiva. Basta ascoltare l’inizio del Preludio, con il tema fiabesco intonato da quattro corni, per entrare di colpo nel paesaggio incantato del naturalismo romantico, di cui Weber era stato il creatore massimo, l’aedo nazionale. Ed è di lì che parte Humperdinck, aggiungendo qui un tocco d’intimismo schubertiano, là una spruzzatina del favoloso Mendelssohn. Va da sé che poi s’incrociano quasi subito anche i sacri territori di Wagner. Ci si potrebbe sbizzarrire a lungo nel trovarne i riferimenti: alla polifonia austera e ironica dei Maestri cantori, al cromatismo insinuante del Tristano, ma soprattutto a diversi momenti del Sigfrido. Le liti ricorrenti dei due fratelli, l’ira isterica della madre, l’hokus pokus della strega, questi e altri punti ricordano nella vivacità ritmica e nella condotta vocale le baruffe di Mime, le sue comiche disperazioni e le sue ridicole macchinazioni; il risveglio del terzo quadro, poi, è un omaggio sfacciato al “”Mormorio della foresta””. Il finale somiglia invece a un’appendice del Parsifal affidata alle voci bianche dei ragazzi redenti. Solo che questi incroci sono calibrati con controllo supremo e con cordiale buonumore, e non configurano affatto un caso di epigonismo, anzi: essi rappresentano uno sfondo coscientemente alluso, una sorta di lingua comune e nazionale nella quale l’ascoltatore – e si parla qui ovviamente in primo luogo dell’ascoltatore tedesco – si ritrova comodamente a proprio agio, e può quindi apprezzare la limpidezza e la freschezza delle invenzioni che vengono sovrapposte in primo piano. E sono invenzioni melodiche incantevoli, punteggiature ritmiche incisive, suggestivi impasti timbrici di fiati, sfumature armoniche di presa immediata, sia nelle svettanti linee vocali sia nelle sviluppate uscite orchestrali, nelle grandi scene sinfoniche degli incantesimi. A questi vanno aggiunti altri incroci, che si dipanano nel corso della partitura: per esempio, oltre a quello ovvio con il Lied colto e popolare nelle forme chiuse delle canzoni e dei couplet, quello con l’operetta, che intride la partitura di uno spirito malizioso, nel volteggiare, insieme euforico e malinconico, dei gioiosi, scatenati ritmi di danza. Insomma, tra gli estremi della semplice espressione infantile orecchiabile nelle canzoni da un lato (e da cui sembrano influenzate anche la fisionomia dei personaggi adulti, dei genitori, della strega, e perfino l’evocazione delle due apparizioni magiche) e della impegnata illustrazione fantastica destinata all’orchestra dall’altro, corre un filo robusto e continuo. Con alcune perle disseminate qua e là: il tenero duetto tra Hänsel e Gretel “”Abends, will ich schlafen gehn”” alla fine della seconda scena del secondo quadro, che pare anticipare la trepida sospensione venata di sublime tristezza del finale del Cavaliere della rosa di Richard Strauss, o la colorata Pantomima che descrive con tocchi di autentica emozione la discesa degli angeli custodi. Il senso di una magia sovrannaturale ed estatica, all’interno di un sentimento panico della natura, è reso adeguatamente con timbri ora notturni, tenui e soffusi (il nano Sabbiolino), ora aurorali, lucenti e cristallini (la Fata Rugiada): ed è forse in queste scene che si realizza nel modo più completo il gioco godibile e al tempo stesso raffinato di una musica apparentemente innocua, in realtà studiatissima e piena di ammiccamenti.

In quale dimensione collocare dunque il capolavoro di Humperdinck? Come Il flauto magico di Mozart, anch’esso un testo per bambini e per adulti di ogni età, lo si potrebbe definire un’opera a più strati, interpretabile a livelli diversi: vuoi seguendone con stupore le pagine davvero meravigliose e i sorprendenti colpi di scena nello scorrere immediato della trama, vuoi riflettendola con discernimento dall’alto di significati allegorici più complessi. Si ha però l’impressione che scrivendola, e soprattutto elaborandola nel tempo, Humperdick finisse per identificarla con il suo posto delle fragole, ossia con quel luogo mitico dell’infanzia, insieme reale e metaforico, nel quale siamo, o abbiamo creduto di essere stati, felici e contenti. L’atteggiamento fiabesco scioglie con l’incanto della musica tutti i nodi della nostalgia, del sogno, del ricordo di un’innocenza perduta e forse di una speranza; in essa riversando quel carico di felicità e di spensieratezza che esiste soltanto nella fantasia: l’immagine bergmaniana del posto delle fragole appunto, dove rifugiarsi da vecchi concilianti e rivivere un “”c’era una volta”” che redima con noi tutti i bambini del mondo.

Jeffrey Tate / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione sinfonica 2001-2002

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