La pillola addolcita. Le musiche di scena di Grieg per il Peer Gynt di Ibsen
Quando scrisse Peer Gynt, nell’estate del 1867 tra Casamicciola sull’isola d’Ischia e Sorrento (aveva lasciato la Norvegia nel 1864, e per ventisette anni sarebbe praticamente vissuto all’estero), Ibsen non pensava ancora a un dramma destinato alla scena ma a un poema in versi che facesse da contraltare e da completamento al suo più recente lavoro poetico, Brand (1866).Si sentì dunque libero di immaginare scene di variabile lunghezza in un gran numero di ambienti diversi, senza curarsi troppo delle verosimiglianze, e di mescolare non soltanto le forme metriche a seconda delle situazioni e dei personaggi ma anche i più svariati generi letterari, dall’epico al lirico al drammatico; senza rinunciare ad ammiccamenti satirici riferiti alla contemporaneità e più in generale al carattere nazionale norvegese, che detestava. Come scrive Claudio Magris, “”Ibsen assale a volte la società contemporanea in forme esplicitamente satiriche, ma più spesso la indaga nel segreto della psicologia individuale, dove più insidioso si cela il compromesso tra l’autenticità della vita e la menzogna di regole di comportamento passivamente subite””.
Per il personaggio di Peer Gynt, Ibsen attinse alle storie d’avventure dei racconti popolari fioriti nella regione della Norvegia chiamata Gudbrandsdal, dai quali forgiò la figura dell’amabile perdigiorno che vive tutto e solo sul piano edonistico,tra piaceri materiali e trovate fantastiche. Una figura a cui Ibsen aggiunse di suo, con le dovute amplificazioni, una certa verità di sentimenti e una forza d’ immaginazione poetica che possono far pensare a una sorta di piccolo Faust nordico; sgravato dal rovello – che era stato incarnato da Brand – della vocazione eroica e del senso del dovere, alieno alle grandi scelte morali, e tuttavia in perenne lotta con la propria coscienza infine salvato,goethianamente, dall’amore di una donna.
Pubblicato a metà novembre del 1867, Peer Gynt fu accolto in patria con sussiego: anche chi riconobbe i meriti dell’opera, ne negò decisamente il valore poetico. Ibsen reagì indignato e in una lettera scritta da Roma il 9 dicembre 1867 all’amico e letterato norvegese Bjornstjerne Bjornson profetizzò una svolta che non sarebbe tardata a venire: “”Il mio libro è poesia; e se non fosse evidente, lo diventerà. Nel nostro paese, in Norvegia, l’idea di poesia dovrà adeguarsi al mio libro””. Per poi aggiungere: “”Comunque sono felice dell’ingiustizia che mi è stata fatta; e in questo c’è la mano, un segno di Dio; perché le mie forze aumentano per lo sdegno. Si vuole la guerra, e sia! Se non sono un poeta, non ho niente da perdere. Proverò a fare il fotografo. Prenderò i miei contemporanei lassù uno a uno, personaggio per personaggio […], non risparmierò né il bimbo nel grembo materno, né il pensiero o l’intenzione dietro le parole di nessuna anima umana che meriti l’onore di essere considerata””. Oggi la si definirebbe una “”discesa in campo””: più seriamente, è l’atto di nascita del teatro di Ibsen.
Non sappiamo per quali motivi Ibsen, che allora viveva a Dresda, decidesse, all’inizio del 1874, di adattare il testo del Peer Gynt per il teatro. E probabile che a ciò lo spingesse Ludvig Josephson (1832-1899), un ebreo svedese che nel febbraio del 1873 era diventato direttore del Teatro di Christiania, la futura Oslo. Josephson puntò subito sul repertorio ibseniano, allestendo con successo I pretendenti alla corona e La commedia dell’amore: ciò spianò la strada al mai rappresentato Peer Gynt. In una lettera da Dresda del 23 gennaio 1874 Ibsen chiese a Edvard Grieg, che aveva conosciuto personalmente a Roma nel 1866 e che a quell’epoca era il maggior compositore norvegese, di collaborare scrivendo le musiche di scena.A Ibsen sembrava infatti che la musica fosse un elemento essenziale e imprescindibile per una rappresentazione teatrale del Peer Gynt: non solo ne dava motivazioni estetiche, ma forniva anche suggerimenti precisi circa la sua funzione nel testo rielaborato per la scena. Non dubitava che altri importanti teatri avrebbero accolto con entusiasmo il progetto.
Grieg, pur non essendo affatto entusiasta della proposta, accettò ugualmente, un po’ per vanità, un po’ perché lusingato dalla generosità di Ibsen, che gli aveva offerto la metà dell’intero onorario. Lavorando a intermittenza su quel dramma che riteneva “”il meno musicale di tutti i soggetti””, “”un tema terribilmente intrattabile””, giunse a terminare la partitura nell’agosto del 1875. L’opera, ridotta e potenziata soprattutto nei suoi aspetti lirico-popolari, con poche concessioni alla satira, andò in scena per la prima volta al Teatro di Christiania il 24 febbraio 1876 in un ricco allestimento, riscuotendo un notevole successo: 37 rappresentazioni fino al gennaio 1877, quando lo spettacolo fu bloccato a causa di un incendio. Grieg per parte sua non fu completamente soddisfatto del proprio lavoro, soprattutto per quanto riguardava l’orchestrazione, che rivide sia in occasione di un nuovo allestimento a Copenhagen nel 1886, sia quando l’opera fu nuovamente rappresentata a Christiania nel 1892: revisioni della partitura dalle quali nacquero le due suites per orchestra op. 46 e op. 55 del Peer Gynt, pubblicate rispettivamente nel 1888 e nel 1893 e destinate ad avere vita autonoma nel repertorio concertistico, fino a staccarsi quasi completamente dalla destinazione originaria. Esse constano ognuna di quattro brani: in tutto otto pezzi ricavati dai 26 che costituivano l’intero lavoro.
Oggi che il dramma di Ibsen ha a sua volta raggiunto una totale indipendenza dalla musica di Grieg, è per noi difficile giudicare fino a che punto, al di là della cornice storica, questa musica si armonizzi col dramma e lo valorizzi realmente. Se da un lato l’abitudine a provvedere di musiche di scena non solo i drammi del passato ma anche quelli contemporanei, secondo un’aurea tradizione che, per citare solo i massimi esempi, andava da Mozart a Beethoven a Mendelssohn a Schumann, faceva ancora parte del costume teatrale corrente, non bisogna dimenticare dall’altro lato che Grieg aveva scarsa esperienza di tal genere, e che forse, stante la sua fervente fede wagneriana (di lì a poco avrebbe partecipato al battesimo del Ring wagneriano a Bayreuth), non vi era neppur troppo portato. Maestro nel pezzo lirico per pianoforte, sensibile al rapporto tra poesia e musica nel Lied, che apparteneva al suo bagaglio tecnico ed espressivo di musicista nazionale ma educato in Germania, non ebbe mai il coraggio di tentare l’avventura del teatro, consapevole com’era non tanto dei suoi limiti quanto della sua natura intimamente antidrammatica, poco incline anche al respiro sinfonico profondo: come anche la sua opera più ambiziosa e famosa, il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 16, sta a dimostrare con i suoi pregi e i suoi difetti.
Dall’altra parte, Ibsen. Il quale, e la cosa non può mancare di suscitare meraviglia, proprio giudicando indispensabile il supporto di vaste musiche di scena sembrava non aver colto la portata rivoluzionaria del suo dramma, la sua assoluta modernità in quanto teatro dell’anima, refrattario proprio a un connubio così convenzionale. La lettera con la prima proposta a Grieg, appare un caso raro di inconsapevolezza dell’artista nei confronti delle potenzialità della propria opera; ma ancor più singolare, a non volerla ritenere semplicemente uno stratagemma per ottenere consenso, suona quest’altra affermazione dell’autore stesso: che la musica “”dovesse addolcire la pillola, così che il pubblico potesse inghiottirla””.
Addolcire perché, e in che modo? È probabile che Ibsen temesse la nuda e cruda visionarietà di tante situazioni al limite dell’assurdo, che potevano anche essere fraintese; o che lo preoccupasse la caricatura del nazionalismo norvegese presente nel testo, tanto evidente alla superficie quanto secondaria rispetto ai contenuti sia poetici che drammatici più profondi, quelli umani, soprannaturali e metafisici, che ne costituiscono l’essenza. Fermo restando il valore poetico del dramma, alla musica di Grieg sarebbe toccato il compito di descrivere le situazioni e di illustrare i personaggi, di intensificare gli aspetti popolareschi e mistici, ironici e seri, creando l’atmosfera adatta per giustificare l’inconsueto favoloso e alleggerirne l’amara metafora. Anche a non voler condividere il drastico giudizio del maggior biografo inglese di Ibsen, Michael Meyer, per il quale la musica di Grieg “”trasforma il dramma di Ibsen in una gaia fiaba di Hans Christian Andersen””, non si può negare che l’immagine del Peer Gynt secondo Edvard Grieg non esaurisce l’intera gamma dell’ideale, riducendosi a proporzioni espressive più immediatamente comunicative che simbolicamente elevate.
Che si tratti di musica molto nobile oltre che a modo suo fortemente impegnata non è tuttavia da porre in dubbio. Grieg vi espande la sua genuina vena melodica fiorita di brevi illuminazioni appena increspate dall’ombra di un’armonia raffinata e funzionale, sempre tendente a denotare un clima: con risultati specialmente notevoli nei momenti di ripiegamento lirico, ossia quando nell’azione intervengono le figure femminili di Åse e Solvejg, o nei passi più introspettivi di Peer, o ancora nelle evocazioni di paesaggi naturali, accarezzati con finezza strumentale sottile. Ma anche gli episodi più sinfonici, nei quali Grieg mette in mostra una coraggiosa appropriazione della tecnica motivica wagneriana, sono costruiti con saldo senso formale e timbrico, e toccano nella rappresentazione del diabolico e del demoniaco vertici per lui inconsueti di ebbrezza sonora. Leggerezza e garbo connotano le scene di danza del quarto atto, nelle quali Grieg fa uso di un orientalismo esotico insieme estroso e pungente, con misurata ironia.
Va da sé che il compositore si trova del tutto a suo agio nel mondo della musica contadina e popolare, che viene reinventato con perfetta adesione allo spirito nazionale più autentico sia nella melodia che nel ritmo: la scena delle nozze nel primo atto, che sembrerebbe una magnifica ghirlanda di citazioni ed è invece sostanziata di composizioni tutte originali, ne è l’esempio probante. Più emblematico, invece, l’uso che Grieg fa del melologo, ossia della recitazione accompagnata dalla musica, quasi d’obbligo in questo contesto. Se Solvejg e Anitra avevano parti cantate già nel dramma, per così dire già offerte all’intonazione, era difficilé pensare di caratterizzare Peer attraverso questo mezzo: e difatti il protagonista, salvo che nella scena realistica della Serenata di corteggiamento del quarto atto, non canta mai, ma recita. Eppure la musica lo accompagna sempre nei momenti di svolta della sua vicenda, contrapponendosi a lui o accompagnandone le peripezie lungo il cammino della conoscenza. Forse è eccessivo affermare che sia proprio la musica la voce più misteriosa e intima della coscienza di Peer, l’altro da sé a cui il suo inconscio aspira per rimanere fedele a se stesso. Certo è però che mai come nelle scene in cui si sprigiona il potenziale espressivo del melologo, con arcane risonanze di suoni e di voci immaginarie in lontananza, Grieg si avvicina a penetrare compiutamente l’essenza del dramma di Ibsen.
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Saltando a piè pari le prime scene (la presentazione di Peer Gynt e di sua madreÅse, che pur rimproverandolo per le continue bugie lo ama di una tenera complicità, e il litigio di Peer con la gente del villaggio), la musica di Grieg ci introduce direttamente nella fattoria dove si celebrano le nozze della ragazza del podere di Hägstad, Ingrid. Il preludio orchestrale contrappone alla caratterizzazione musicale dello scapestrato Peer (descritto da Ibsen come un robusto ventenne) una calda melodia di sapore popolare associata alla figura di Solvejg, la giovane da cui Peer è attratto, ma che gli incute timore per la sua pudicizia e la sua riservatezza.Al centro di questo preludio campeggiano frammenti di due danze norvegesi suonate da una viola sola, dapprima fuori dal palcoscenico.Al culmine della festa nuziale, durante la quale Peer, in preda all’alcool, rapisce la sposa, queste danze vengono riprese in primo piano, affidate al violino norvegese hardingfele, con le corde che vibrano per simpatia. Grieg prescrive che entrambe le danze (uno Halling in 2/4 grazioso e tranquillo e uno Springar in tempo ternario balzante e rapido) debbano essere suonate in modo perfettamente conforme alle tradizioni della musica popolare.
Il secondo atto ha inizio con un preludio basato sul contrasto fra le urla rabbiose di Peer (“”Allegro furioso””) e il canto lamentoso di Ingrid, la sposa rapita e rapidamente abbandonata (“”Andante doloroso””). Par quasi di assistere, descritto vivacemente in musica, al dialogo fra i due personaggi, l’uno insofferente e sprezzante (la brutalità di Peer è resa plasticamente dai corni), l’altra disperata e supplichevole. Il numero che segue descrive l’incontro, nei pascoli d’alta montagna, tra Peer, ormai liberatosi della sposa indesiderata, e le mandriane: una scena, questa, mista di canto e melologo. Le tre ragazze (parti cantate) chiamano i loro perduti amanti troll; Peer (voce recitante sullo sfondo dell’accompagnamento orchestrale) si dichiara abbastanza prestante da poterle consolare tutte e tre: solo alla fine della scena l’orchestra diviene protagonista di un “”Quasi presto”” che illustra il lato demoniaco del personaggio di Peer. Bandito dal suo paese, quasi privato della sua natura umana, Peer si avventura nel mondo dei troll, i nani maligni della mitologia nordica. Dapprima seduce la Donna vestita di verde, che altri non è se non la figlia del vecchio Dovre, Re della montagna dei troll: la breve scena è basata sulla contrapposizione tra la melodia dell’oboe solo, che ritrae la Donna in verde e la sinistra caduta del tema di Peer nel registro grave dei contrabbassi, che ora lo rappresentano. Accolto nella sala del Re della montagna, Peer è minacciato dal coro dei troll, che lo apostrofano selvaggiamente, e si degrada a portare la coda, come un animale. Per lui la figlia del Re della montagna esegue una danza rozza e grottesca, dal marcato tono burlesco; l’effetto, già dichiaratamente parodistico, si tinge di comicità tutt’altro che involontaria: per Grieg, questa musica doveva “”puzzare di sterco di mucca, e di ristrettezza mentale norvegese e presunzione! Ma penso che il pubblico capirà l’ironia che c’è dietro””. Segue un’ampia scena per coro e orchestra che descrive Peer inseguito dai troll, che lo hanno condannato a morte: proprio mentre la caccia sfrenata sta per avere successo, avanzando inesorabilmente in un grande crescendo di tutta l’orchestra, il suono delle campane di una chiesa fa crollare la sala, come se si distruggessero il cielo e la terra. E attacca l’episodio tra Peer e il Gran Curvo, strana creatura senza forma che nelle tenebre sbarra il cammino a Peer da qualunque parte si volti. Per la prima volta la musica abbandona il lato descrittivo e illustrativo per farsi commento quasi metafisico del dramma. La scena è costruita come un melologo con coro fuori scena, che rappresenta le voci d’uccelli che sostengono il Gran Curvo nelle sue torve minacce; ma alla fine le campane, di nuovo, e un organo che si sente in lontananza, emblema della fede, consentono a Peer di fuggire e di salvarsi.
La sola musica composta per il terzo atto è un “”Andante doloroso”” intitolato La morte di Åse: due paginette di partitura per soli archi con sordina di semplice intensità espressiva, mesto e insieme radioso, com’è in fondo, nel suo aspetto profondamente serio, il rapporto che lega il figlio alla madre. Grieg voleva che questo pezzo fosse suonato due volte, come introduzione prima e poi come accompagnamento fuori scena, in pianissimo ed estremamente debole, alla morte di Åse.
Il quarto atto, con il suo repentino cambiamento di luogo, tempo e azione, è senza dubbio il più complesso dell’intero dramma. In un primo momento Ibsen aveva proposto a Grieg di tagliare quasi tutto questo atto nella rappresentazione e di sostituirlo con un poema sinfonico di vasto respiro, che facesse pensare ai vagabondaggi di Peer Gynt per il mondo. L’idea non fu realizzata per l’opposizione del direttore del teatro, che evidentemente non voleva rinunciare alla parte più variopinta dello spettacolo; sicché Grieg si limitò a fornire alcuni pezzi di supporto con esplicito carattere di divertissement. Ne fanno parte la breve scena a due voci tra il ladro e il ricettatore e quella della serenata di Peer Gynt ad Anitra, l’unica in cui a Peer sia richiesto di cantare; ma soprattutto si segnalano le due danze, quella araba per coro femminile e orchestra, pagina di grande trasparenza strumentale, e quella di Anitra, un piccolo, seducente valzer in tempo di Mazurka per archi, con violini con sordina, e triangolo. A questo carattere orientaleggiante ed esotico si sottraggono i due gioielli della partitura, le pagine a ragione più note e amate: la prima è il dolcissimo “”Allegretto pastorale”” posto ad apertura dell’atto, pezzo che descrive il mattino su un palmeto ai bordi del mare e che Grieg stesso considerava “”musica pura, dove l’interpretazione è di grande importanza””; la seconda è la Canzone di Solvejg, che ne approfondisce il carattere sóave nello stile del canto popolare: il soprano è accompagnato da flauti, clarinetti e archi con sordina punteggiati dagli accordi dell’arpa. Delle musiche per questo atto fa parte anche un breve pezzo meditativo per archi e quattro corni, in origine pensato per la scena di Peer Gynt davanti alla statua di Memnone e in allestimenti successivi usato come preludio all’atto terzo, con il titolo “”Nel folto della foresta di pini””: un brano a cui Grieg teneva molto e per il quale raccomandava che i quattro corni fossero suonati “”con molta dolcezza, perché tutto deve avere le sonorità di un altro mondo””.
Il quinto atto si apre con il ritorno a casa , nella natia Norvegia, di un Peer ormai vecchio, stanco di peregrinare e disilluso. La musica del preludio ritrae efficacemente, con ondate di crescendi e diminuendi wagneriani, una scena tempestosa sul mare, che culmina nell’affondamento della nave. Il momento del vero e proprio naufragio è sottolineato da grancassa, timpani e da un tremolo dei contrabbassi che, scriveva Grieg,””debbono fare un rumore terribile””. Scampato al naufragio e proseguendo il proprio cammino verso i luoghi dell’infanzia, Peer ode ora Solvejg cantare nella capanna: una ripresa della prima sezione della sua canzone, accompagnata da un piccolo gruppo di archi fuori scena, sommesso e grave, conferisce a questo episodio un tono di misteriosa, mistica attesa. Segue una scena notturna in una brughiera annerita dal fuoco: Peer (recitante) è rimproverato da piccole cose della natura, come foglie secche portate dal vento e gocce di rugiada (coro all’unisono): la musica fa eco ai tormenti oscuri della sua coscienza, all’inizio da lontano con dolcezza, poi sempre più minacciosa, fino allo stretto in cui la voce lontana di Åse aggiunge un ultimo rimprovero. L’apparizione del Fonditore di bottoni è l’immagine stessa della morte: Peer comprende che il suo destino è prossimo al compimento, ma indugia ancora ad ascoltare con la nostalgia della giovinezza un gruppo di fedeli che vanno in chiesa per il sentiero della foresta cantando l’inno della Pentecoste “”Benedetto sia il giorno””: l’inno, precisa Grieg, “”deve essere soltanto intonato a bocca chiusa (cioè cantato molto debolmente) fuori scena, e non deve essere cantato a voce piena””, come un ricordo lontano. Siamo all’epilogo. Peer è finalmente pronto a varcare la soglia della capanna e a ricevere il saluto di Solvejg, ormai vecchia e cieca, ma ancora innamorata e pronta a intercedere per lui con il suo perdono. Dopo che il Fonditore di bottoni ha annunciato in tono di sfida che la sua ora scoccherà al prossimo incontro, Peer si addormenta cullato dolcemente dalla ninna-nanna di Solvejg e sogna, mentre all’orizzonte si annuncia il sorgere del sole. Su questa musica in dissolvenza intrisa di trasfigurazione, il sipario cala lentamente, molto lentamente, lasciando Solvejg china su Peer Gynt giunto al termine del suo viaggio.
Piero Bellugi / Orchestra della Toscana
Fondazione Orchestra Regionale Toscana, Concerto di Pasqua