Il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra di Grieg
C’era un tempo in cui il Concerto per pianoforte e orchestra di Grieg contendeva tra i romantici a quelli di Chopin e Liszt, Schumann e Brahms, la palma del primato nelle esecuzioni correnti. Perfino un pianista classico come Arturo Benedetti Michelangeli, che pure non suonava tutti gli altri, ne aveva fatto una colonna – e che colonna! – del suo scarno repertorio. Quel tempo è passato. Oggi il Concerto di Grieg non è più un pezzo popolare, che accende i confronti interpretativi. È diventato piuttosto una rarità che invita alla riflessione e alla riscoperta. Forse su basi più critiche e con maggiore distacco di una volta. In un certo senso, suonarlo non è più un gesto spontaneo, ma una scelta motivata da un intento di riappropriazione culturale. Come da una remota lontananza. Di Grieg stesso amiamo altri lavori, quelli nei quali la componente originale del suo stile – l’incanto poetico della terra del nord, le canzoni e le danze popolari assunte e reinventate dalla sua musica – intridono di sentimentalismo e di nostalgia l’evocazione di tutto un paesaggio, reale e spirituale.
Mondo che nelle vesti di un Concerto solistico – l’unico, fra l’altro, composto da Grieg – assume necessariamente una forma più mediata. Grieg lo compose nel 1868 in un momento di serenità. La giovane moglie Nina gli aveva appena dato una figlia, e quel Concerto era in un certo senso la sua risposta alla felicità. La parte pianistica gli venne facile e di getto (dopotutto era un ottimo pianista); quella orchestrale (orchestratore esperto non era ancora) invece gli causò molti ripensamenti, che si sarebbero risolti in una serie di versioni alternative, prima di giungere a quella definitiva. In questo lavoro lo aiutò Liszt, che aveva avuto modo di conoscere e di apprezzare il Concerto durante la visita di Grieg a Roma dell’inverno 1869-70. Alcune delle modifiche da lui proposte furono accettate, altre respinte. Per quanto il modello ideale fosse inequivocabilmente il Concerto in la minore di Schumann (stessa tonalità, stessa disposizione formale, stesso rapporto tra solista e orchestra, stessa fantasia sognante), Grieg non aveva mancato di riferirsi a Liszt (e a Chopin) nella tecnica e a cercar di seguire una strada tutta sua soprattutto nella caratterizzazione dei temi.
Il Concerto di Grieg ha una forma esteriormente elementare, ma ricca di contrasti. L’atteggiamento di fondo è anch’esso chiaro: un primo movimento fresco e gioioso, a tratti capriccioso, tutto puntato sulla effusione melodica, una parte centrale d’intensa espressività appena velata da un’ombra di malinconia, un Finale energico e scattante, doverosamente brillante e virtuosistico. Semplice la forma, si diceva, ma varia la sostanza. Ne è dimostrazione il primo movimento. Esso si apre con un gesto che ricorda subito Schumann, un rullo di timpani seguito dalla strappata dell’orchestra e da una incisiva figurazione tematica del pianoforte solo interrotta sulla corona. Il primo tema in la minore è danzante e animato (fiati e archi), il secondo in do maggiore tranquillo e cantabile (lo introduce un’ampia frase dei violoncelli): entrambi sono esposti prima dall’orchestra e ripresi poi dal pianoforte in una personalissima serie di ripetizioni con leggere varianti. Lo sviluppo è breve e conciso, al pari della ripresa, che conduce a una vasta cadenza del pianoforte, quasi un intermezzo di diverso carattere. La figura iniziale dell’esposizione ritorna alla fine per dare al movimento un senso ciclico.
È ancora l’orchestra (archi con sordini punteggiati dai fagotti e dal corno) a esporre il tema dell’Adagio, sorta di romanza che si diffonde, con l’entrata del pianoforte, in svagate ornamentazioni melodiche alla maniera chopiniana e in tenere effusioni liriche di pretta marca nordica. Una rapida, esplosiva cadenza conduce al terzo movimento, costruito sull’opposizione tra un ritmo di danza popolare norvegese, di ritmo marcato, scandito dal pianoforte, e una sezione centrale di statica contemplazione e di andamento più rapsodico, accompagnata dal flauto sul dialogo di pianoforte e violoncello solo. Passaggi isolati del pianoforte arricchiscono di gemme brillanti questo rondò di luminosa trasparenza, che si conclude massicciamente con un crescendo sempre più eccitato e turbinoso.
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione sinfonica 2000-2001
Jeffrey Tate / Lars Vogt, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia