Uno dei meriti indiscutibili, insomma la trovata dell’ultimo libro di Mario Bortolotto, storico e critico musicale com’egli stesso vi si definisce, è l’assunto, desumibile già dal titolo e dal sottotitolo: Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale. La battaglia è quella di Sédan del 1870, che sanzionò la sconfitta militare francese di fronte ai prussiani: metafora, per l’autore, di una superiorità tedesca nel campo dell’arte musicale europea cui qual-che anno piú tardi Bayreuth avrebbe posto il suggello, e nello stesso tempo contraccolpo, che avrebbe obbligato, dopo lo choc dell’année terrible, a ripensare e rimescolare molti se non tutti i termini della creazione musicale.
Ed ecco l’assunto: da quella tabula rasa nacquero non solo i semi, ma maturarono anche rapidamente i frutti capaci di fondare e rastrella-re il terreno della modernità e di delinearne la poetica in prospettiva novecentesca. Che dunque in quanto tale – poetica del moderno – non solo discende dal secolo precedente per aggiunzione o sottrazione ma trova anche riferimenti diretti al di fuori delle coordinate consuete, tedesche e austriache, tra Romantik e décadence, in cui siamo stati abituati a cercarli: e precisamente si sposta a Parigi e nel pariginismo, ossia nella musica francese tra Saint-Saëns e Debussy, dal Secondo Impero all’Esposizione Universale del 1900. Lasciando fuori dal quadro, ma non inattivi per le implicazioni che ne ricevettero, l’antefatto tumultuoso (Berlioz) e l’epilogo astrale (Ravel).
Bortolotto non è nuovo a queste rettifiche delle opinioni consolidate, come sa chi abbia letto Fase seconda o Introduzione al Lied romantico. Naturalmente non si sogna neppure di abbassarsi ad affrontarle di petto per metterle in discussione: ne lascia desumere le conseguenze dalla quantità e qualità delle prove a carico, aprendo nuovi orizzonti. Talvolta si diletta con aristocratica nonchalance (tanto apparente quanto folgorante) di stroncare le immagini convenzionali e di socchiudere qualche angolo di porta sull’ignoto: quel tanto che basta a seguire le traiettorie dei suoi ragionamenti sulla scia spesso sfuggente di una scrittura acuminata e screziata, lampeggiante e dottissima, quasi spettacolo nello spettacolo. Stargli dietro non è facile, ma vale lo sforzo di tentare. Principalmente per un motivo: Bortolotto ci fa entrare con questo libro in un repertorio d’autori e in un mondo non solo musicale ad altri pressoché sconosciuto; delle cose, dei fatti e delle persone dandoci insieme il ritratto e l’interpretazione. E lo fa con una grazia che non disdegna l’aneddoto, il pettegolezzo sapido, per agghindare e rendere godibile anche l’impressionante mole di informazioni d’ogni genere e di minute analisi musicali di cui la trattazione è ammantata: senza che, per carità, si faccia mai ricorso a una nota esplicativa, nonostante l’abbondanza delle citazioni.
Se si eccettuano il prologo («Passage de Sédan») e il «Post scriptum», che introducono e riconducono all’assunto, il volume consta essenzialmente, si direbbe in somma delle somme, di una serie di medaglioni sui compositori di scuola francese del tardo Ottocento. Ma è il modo che conta, la parte per il tutto. Saint-Saèns ha, non solo cronologicamente, un ruolo di primo piano: è con lui che nel linguaggio del Renouveau, nella storia delle Forme, s’introducono elementi che saranno poi alla base della poetica neoclassica. Proprio lui un antesignano del «modernismo»? Parrebbe di si, a patto d’intendere quel termine in una luce meno greve e piú soffusa del consueto. Bortolotto lo erge al rango dei grandi, inanellando pagine preziose, dai riflessi imprevedibili; perfino piú raffinate di quelle che de-dica a Bizet da un lato («Il caso Bizet», unico titolo oggettivo per la sua insolvibilità), a Massenet dall’altro («Mélo per la domenica»; e non è detto che sia una limitazione, giacché «la decadenza, in arte, è spesso lungi dall’essere sinonimo di declino»: parole di Saint-Saèns).
Senza avere i quarti di nobilità e l’altezzoso sapere di D’Indy, o l’enfasi ingenua del piú anziano Gounod, Lalo, Franck e Fauré sono lo zoccolo duro della resistenza, la barriera contro l’invasore: e chi sta in prima fila non può non subire l’influsso del nemico. Di Fauré, Bortolotto cita un asserto che a lui pare «definitivo»: «Desiderio di cose inesistenti, forse; ed è quello il dominio della musica». Anche della critica, probabilmente. Solo che via via che si sfuma nel poco noto o nell’ignoto – giacché del popolare Bortolotto non si cura – la critica diventa scoperta d’incanti paradisiaci, non importa se artificiali, di certe cosucce (ma saranno davvero cosucce?) tra l’emozione (si suppone autentica) e le spezie (di cui le condisce, ammesso che già non ne siano ingredienti basilari) Bortolotto svela tali e tante meraviglie da farci credere che li si raccolga il meglio della musica inesistente: Chabrier, Delibes, Chausson, Duparc, Alkan e Lekeu, nomi altrimenti confinati tra i «minori», rivelano qui una ricchezza di motivi che per capitalizzarsi e fruttare interessi non sembrano attendere soltanto gli sviluppi del moderno irrinunciabile e spacca tutto.
A Offenbach, amore segnalato del nostro, son destinate in tutto otto pagine, semplicemente sensazionali: sublimazione della critica del sublime. C’è tutto lui, Bortolotto, in questa miniatura: la leggerezza di chi non nasconde né tanto meno rinnega le sue ascendenze (Adorno ti guarda comunque), e intanto finge di pensare ad altro, esilarandosi. Anche questa è profondità.
Mario Bortolotto, «Dopo una battaglia. Origini francesi del Novecento musicale», Adelphi, pp. 386, lire 55.000.
da “”Il Giornale””