Con l’orchestra di Philadelphia
Milano – A poca distanza dalla tournée con i Wiener Philharmoniker Riccardo Muti ha riportato in Italia, e in Europa, l’orchestra di cui è da 11 anni direttore musicale, la Philadelphia. Firenze, per il Maggio, e Milano erano in un certo senso tappe obbligate; la terza, Bologna, rivestiva un significato particolare anche per la laurea ad onore conferita in questa occasione a Muti: per aver frequentato assiduamente un repertorio operistico non consueto e per la cura speciale rivolta ai problemi dei testi. Motivazione sacrosanta, ma parziale. Giacché l’immagine di Muti solo quale direttore d’opera è oggi limitativa e forse non coglie neppure il vero centro della sua personalità artistica, essenzialmente sinfonico.
Ne davano piena ragione tre concerti splendidi. Splendidi non soltanto per la presenza di un’orchestra formidabile, di cui si dovrebbe parlare al superlativo – per l’eccellenza di tutte le prime parti, la compattezza delle file, la morbidezza e la potenza del suono, l’omogeneità dell’insieme – ma anche per la maturità delle idee interpretative.
Costante anche nel variare dei programmi; che al pezzo forte della Prima Sinfonia di Brahms, eseguita in ognuno dei tre concerti, accostavano a Firenze un degnissimo pezzo contemporaneo di Bernard Rands, Ceremonial 3, e Il poema dell’estasi di Skrjabin, il Don Juan di Strauss e ancora Skrjabin a Bologna e infine la Quinta Sinfonia di Prokofiev a Milano.
Per Muti la Prima di Brahms è la Sinfonia della svolta, non solo nella carriera del suo autore, ma anche nella storia del genere. La sua interpretazione pone l’accento non sul travaglio della forma, che fu il risultato di una lunga attesa, ma soprattutto sulla conquista di uno stile, che differenziandosi assume una fisionomia personale e compiuta e riconduce a proporzioni classiche anche i molti spunti di matrice romantica. La chiave di lettura sta nella scelta dei tempi, tendenzialmente rapidi e calibrati in modo da sottolineare unitariamente le relazioni più che i contrasti, e nella capacità di sostenere il peso della forma con un’attenzione per i particolari che si riflette anche nella visione globale. Esemplare, da questo punto di vista, la introduzione lenta all’ultimo movimento, culmine dell’opera, dove Muti carica di tensione espressiva il famoso passaggio del corno che prelude alla parafrasi beethoveniana ma lo riequilibra subito dando forte rilievo al corale dei tromboni: ed è qui che si compie la svolta chiarificatrice dall’ultimo Beethoven al nuovo inizio di Brahms. Ne risulta alla fine un’interpretazione lontana sia dalle piacevolezze e dagli indugi che sovente accentuano il lato crepuscolare o comunque tardoottocentesco del linguaggio di Brahms, sia dalla robustezza e dalle asprezze tramandate dalla scuola tedesca. In ogni istante la Sinfonia è pervasa da una cantabilità e da una coesione che raramente si ravvisano in tal misura. Ma anche nell’affrontare i poemi sinfonici di Strauss e di Skrjabin, pur così diversi fra loro, Muti ha dato prova di una sensibilità e di una chiarezza di idee ammirevoli, perfettamente realizzate da uno strumento con il quale si riconosce fino all’identificazione. La magia dei colori, la plasticità dei temi, la logica degli snodi e dei raccordi partivano ancora una volta da considerazioni musicali; ma ricostruivano passo dopo passo senza enfasi né retorica tutto il sostrato di pensieri e di immagini, rendendolo quasi necessario, consostanziale. Perfino nella Quinta di Prokofiev, che ha arricchito tra entusiasmi sempre crescenti l’ultimo concerto alla Scala, Muti sapeva estrarre la qualità niente affatto secondaria della fantasia musicale, ponendo il virtuosismo, le scintillanti invenzioni strumentali di una scrittura onnipotente, al servizio dell’idea. Una perla a sé era poi il fuori programma, il nobilissimo Notturno di Martucci.
da “”Il Giornale””