Due Solitudini per Ravel

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Serata-evento a Monaco con Benedetti Michelangeli e Celibidache di nuovo insieme

A lezione di civiltà ascoltando un indimenticabile Concerto in sol

Monaco– Benché sempre piú rari, anche nella vita musicale vi sono casi in cui si è costretti a lottare con la tentazione dell’iperbole, dell’aggettivazione enfatica, e fors’anche con le proprie emozioni. Oggi che quasi niente lo è piú, tutto diviene evento, straordinario, eccezionale. E come definire allora Arturo Benedetti Michelangeli che torna in pubblico per suonare con Sergiu Celibidache e con i Münchner Philharmoniker il suo antico cavallo di battaglia, il Concerto in sol di Ravel? Che cosa vi immaginereste, sia che già conosceste chi siano, che siano stati Michelangeli e Celibidache quando ancora suonavano spesso insieme, tanto tanto tempo fa, sia che invece – come accadeva a molti nella sala della Philharmonie – fosse la prima volta che si realizzava un vostro sogno?

Ritrovandosi, Michelangeli e Celibidache non soltanto hanno eseguito in modo sbalorditivo il Concerto di Ravel ma hanno anche dato una seria lezione di civiltà. Ci hanno fatto capire quali emozioni possa produrre l’incontro di due personalità vere, ma anche cosa significhino congiuntamente, nei valori non solo ideali della musica, grandezza e solitudine, fedeltà e intransigenza. Se i loro atteggiamenti spesso intolleranti sono divenuti perfino leggenda, ciò è dipeso dalla nostra inadeguatezza a distinguere l’essenziale dal compromettente, e a staccarci comunque dalle miserie del pettegolezzo. Michelangeli e Celibidache non sono miti della nostra epoca, sono soltanto due artisti d’altra tempra, per i quali la musica non è diventata e non potrà mai diventare oggetto di mercimonio e di fatuo apparire.

In Michelangeli, oggi piú di ieri, dietro alla favolosa varietà del tocco, alla magia stupefacente dei timbri, alla fantasia del fraseggio, dei rubati, delle originali proposte interpretative, si celano non solo la perfezione tecnica e il controllo assoluto del mezzo espressivo ma anche la tensione verso la ricerca del meraviglioso, dell’irraggiungibile: ascesi ed ebbrezza, gelo e calore, chiarezza della mente e pudore, non freddezza di sentimenti. Bastava l’attacco dell’Allegramente su quegli arpeggi in pianissimo quasi drammaticamente sottratti all’angoscia del nulla e poi fatti esplodere eroicamente nella catena diabolica dei glissandi per dare la misura dell’unicità del suo pianismo. Bastava quell’inizio per cadere in uno stato d’ipnosi da cui non ci saremmo piú voluti risvegliare, se non per fermare per sempre il tempo.

Con lui Celibidache: non meno impassibile all’apparenza, parco di gesti ma padrone della situazione, in sintonia con Michelangeli senza rinunciare a una sola delle prerogative dell’orchestra. Non occorreva che i due si guardassero. Tutto fluiva con naturalezza e coesione, anche nei momenti di maggior libertà agogica, di piú strenua ricerca del suono iridescente. L’entrata dei Filarmonici dopo le 33 battute del pianoforte solo nell’Adagio assai, dove Michelangeli sembrava dilatare all’infinito l’aura di sue perdute, struggenti memorie, aveva grazie a Celibidache un che di universale, di doloroso e soavemente liberatorio insieme. Una trama finissima avvolgeva le uscite dei solisti nel dialogo col pianoforte, risultato della consapevolezza di ogni strumentista nella ricreazione dell’incanto: ogni suono un mondo di bellezza ideale, ogni impasto un richiamo nostalgico alla pienezza di un pensiero mai spettacolare, mai sensazionale. Poi la vertigine del Finale, nitido e brillante, di respiro profondo e calmo, attaccato senza fretta: quasi a impedire che tutto svanisse troppo presto. Ci fu un silenzio agghiacciante prima che esplodesse l’applauso.

In precedenza Celibidache aveva diretto l’Ouverture della Semiramide di Rossini rivoltandola come un guanto dalle sue esteriorità e officiato con la Sinfonia Haffner di Mozart un rito iniziatico. Avrà ottant’anni a giorni, il grande sopravvissuto della tradizione che fu. Ed ora era lí a dimostrare che l’insegnamento morale di Furtwängler, il tragico, vilipeso destino del direttore d’orchestra custode della grande musica, gli appartiene come
a nessun altro.

da “”Il Giornale””

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