L’Opera di Bonn riscopre il «Guarany» di Gomes col celebre tenore
Carl Herzog è un indio di «Fitzcarraldo»
Bonn – Erano vent’anni, per sua stessa ammissione che Placido Domingo aspettava un teatro nel quale cantare Il Guarany. Sarebbe stata una magnifica occasione per qualsiasi teatro italiano di rango, a cominciare dalla Scala, dove l’opera andò in scena per la prima volta nel 1870 e fu a lungodi repertorio, prima di cadere nell’oblio.
Invece c’è voluta l’Opera di Bonn per riscoprirla, dopo tempo immemorabile e in prima esecuzione tedesca. E se la scelta, coraggiosa e intelligente già di per sè vale una nomination, la realizzazione nel suo complesso è stata tale da candidare questo spettacolo a un premio Oscar per la produzione più originale della stagione.
Il Guarany, insieme con gli Ugonotti di Meyerbeer è la vetta più alta di quel promontorio del melodramma ottocentesco che sottostà alle grandi catene montuose dei sommi, tra Rossini, Verdi e il grand opera francese, con qualche puntata d’epoca nell’operetta. Il suo autore, Antonio Carlos Gomes (1836-96), brasiliano trapiantato in Italia, ammirato da Verdi e Boito, ne fece, oltre che in prospettiva l’opera nazionale del suo Paese, un capolavoro che del melodramma italiano impiega tutti gli stilemi e le convenzioni, ma con una spontaneità d’invenzione melodica e una felicità espressiva rare e di fatto irripetibili. Opera unica e un po’ folle, dove romanticismo ed esotismo si fondono in una vicenda talmente irrealistica da costituire una specie di quintessenza dell’immaginario lirico: con una libertà nell’arco formale e una originalità nella strumentazione da non sfigurare, nel suo genere, di fronte a nessun confronto. Se a ciò si aggiunge la stupenda nettezza con cui è tratteggiata la figura del protagonista, prototipo del tenore di nobili sentimenti e di vocalità altrettanto espansa e generosa quanto segnata dalla sua diversità (un indio ben più umano e civilizzato dei conquistatori europei, la storia essendo ambientata all’epoca della colonizzazione del Brasile), si avrà almeno un’idea della genialità di quest’opera, costruita con ariosa linearità nel susseguirsi di quadri corali statici e di brusche accelerazioni drammatiche.
Nessun dubbio che Domingo sia in assoluto l’interprete ideale di questo ruolo, per presenza sia scenica che vocale: oltretutto ritrovato in uno stato di grazia invidiabile, irresistibile perfino nel suo buffo costume di piume e penne. Ma il merito della riproposta stava nell’aver costruito attorno a lui uno spettacolo di gran classe, affidando la regia alla delicata sensibilità di Werner Herzog, all’altezza dei momenti più emozionanti e visionari del suo Fitzcarraldo, e le scene, di un naturalismo elegante e raffinato, al miglior Maurizio Balò. Nel cast complessivamente buono spiccavano un soprano cileno molto promettente, Veronica Villaroel, e un baritono, Carlos Alvarez, già pronto per i più importanti cimenti verdiani (ecco il Conte di Luna che aspettavamo). Buoni l’orchestra e il coro di un teatro piacevolmente sorprendente nella sua funzionalità, con un direttore, John Neschling, assai in gamba. Trionfo sottolineato da quaranta minuti di applausi per un allestimento da non perdere; anzi, da importare subito in blocco in qualche teatro italiano.
Il Guarany, che oggi è un’opera praticamente dimenticata, era stata però in repertorio a lungo e l’ostinazione di Placido Domingo nel volerla riportare in palcoscenico trova riscontro nelle interpretazioni di famosi tenori del passato. Tra quelle interpretazioni, nel nostro secolo, possiamo almeno ricordare beniamino Gigli a Roma nel ’37, Mario Del Monaco nel ’49 a Rio de Janeiro e nel 1950 a San Paolo. Come nota curiosa ricordiamo la lettera inviata dal presidente della repubblica brasiliana Itamar Franco al sovrintendente del teatro Giancarlo Del Monaco: per lodare «la lodevole iniziativa di aver recuperato una delle pagine più significative del patrimonio culturale brasiliano».
da “”La Voce””