Dmitrij Šostakovič – Sinfonia n. 5 in re minore op. 47

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La Quinta Sinfonia di Šostakovič

 

«Risposta pratica di un compositore a una giusta critica». Suona due volte tremendo il sottotitolo apposto da Šostakovič alla Sinfonia n. 5 in re minore, composta fra il 18 aprile e il 20 luglio 1937 a Leningrado ed eseguita per la prima volta, sotto la direzione di Evgenij Mravinskij, dall’Orchestra Filarmonica di quella città il 21 ottobre 1937, nel giorno dell’anniversario del Ventennale della Rivoluzione. Tremenda è l’enunciazione in sé, che sembrava ammettere che un compositore potesse fare ammenda per le opere che aveva creato (nel caso di Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mszenk, stroncata un anno e mezzo prima dalla “”Pravda”” con l’accusa di “”formalismo”” e di “”caos cacofonico””) e riabilitarsi agli occhi del regime con una sottomissione ufficiale. Ma ancor più tremendo era il significato sottinteso a quella enunciazione: una sfida orgogliosa e sprezzante all’ottuso richiamo all’ordine del potere, sotto la quale si celava una reazione rabbiosa e un’amara coscienza critica. L’opera di depistaggio messa in atto da Šostakovič a proposito della Quinta Sinfonia comincia dal sottotitolo ma prosegue con le dichiarazioni sul programma che vi è sotteso: «Il nucleo ispiratore della mia Sinfonia è il divenire, la realizzazione della personalità umana. Al centro della composizione, concepita liricamente da capo a fondo, ho posto un uomo con tutte le sue emozioni e le sue tragedie; il Finale risolve gli impulsi del primo tempo, e la loro tragica tensione, in ottimismo e in gioia di vivere». Queste parole bastarono per far salutare la Sinfonia fin dal suo primo apparire come l’emblema dell’ottimismo sfrenato e della fiducia nel progresso imposti dall’avvento del regime stalinista. L’eminente scrittore sovietico Aleksej Tolstoj poté affermare: «La Quinta è la ‘Sinfonia del Socialismo’. Comincia con il Largo delle masse che lavorano sottoterra, un ‘accelerando’ corrisponde alla ferrovia sotterranea: l’Allegro, poi, simboleggia il gigantesco macchinario dell’officina e la sua vittoria sulla natura. L’Adagio rappresenta la sintesi della natura; della scienza e dell’arte sovietica. Lo Scherzo rispecchia la vita sportiva dei felici abitanti dell’Unione. Quanto al Finale, simboleggia la gratitudine e l’entusiasmo delle masse».

Bisognerà attendere la postuma Testimonianza raccolta da Solomon Volkov, uno dei documenti più agghiaccianti e insieme problematici sulla storia della musica e della cultura durante l’epoca staliniana, per comprendere quali fossero lo stato d’animo e la visione del compositore al momento della nascita della Quinta Sinfonia: «Ritengo sia chiaro a tutti quel che ‘accade’ nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione, esattamente come nel Boris Godunov. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: ‘Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare…’, e tu ti rialzi con le ossa rotte, tremante, e riprendi a marciare bofonchiando: ‘Il nostro dovere è di giubilare, il nostro dovere è di giubilare…’. Si può dunque definirla un’apoteosi, quella della Quinta? Bisogna essere completamente sordi per crederlo».

La musica di Šostakovič sembra rappresentare un destino: l’irreparabilità della tragedia. La facciata esterna, levigata, dell’orchestrazione (limpida nonostante il gran numero di strumenti convocati, con l’aggiunta di tutte le percussioni, pianoforte compreso), il rigore della forma-sonata classica e l’economia dei quattro movimenti tradizionali (ma con tempo lento e Scherzo invertiti di posto) faticano a contenere l’urgenza simbolica dei temi e la violenza catastrofica delle sonorità, ma soprattutto ad alleviare il profondo dramma umano che, con accenti fortemente interiorizzati, vi si svolge. In altri termini, la logica formale che governa tutto il tessuto compositivo garantendo strette connessioni fra le varie sezioni, il solido bitematismo su cui si fonda il primo movimento e il rilievo che vengono ad assumere le smorfie sardoniche e l’effusione lirica prima del finale trionfale, non riescono a soffocare la vena tragica e desolata, le taglienti e angolose durezze di questo affresco grandioso e apocalittico.

Il contrasto tra apparenza e realtà si realizza in tutta evidenza nel Moderato iniziale. Un tema degli archi in forma di canone, che ricorda il soggetto della Grande Fuga op. 133 di Beethoven, conferisce un carattere arcaico, quasi sovratemporale, al tortuoso cromatismo nelle cui spire si contorce. Il secondo tema, presentato dai violini primi su un’uniforme fascia accordale in ritmo di marcia funebre degli altri archi, introduce un’atmosfera mitemente lirica: ma il significato di contemplativa, estranea fissità di questa oasi lirica è ribadito dalla tonalità lontana dal re minore d’impianto, prima mi bemolle minore e poi mi maggiore. Gli ingannevoli profili classici di questo movimento precipitano ben presto in tragedia, annunciata dal pianoforte in un clima di montante parossismo sonoro. Il tema iniziale viene sommerso armonicamente, si abbatte, sprofonda, esaspera il contrasto con il secondo tema sino a raggiungere il culmine dell’intensità drammatica. Poi tutto rapidamente si arena per lasciar spazio alla ripresa; in una tensione gravemente rilassata. La conclusione è attonita, sospesa tra la melodia spettrale dell’ottavino e i tocchi assorti della celesta.

Il secondo tempo è un vigoroso Allegretto in forma di Scherzo, nella tonalità di la minore e di chiarissima struttura tripartita. L’esordio marcato di violoncelli e contrabbassi instaura subito il tono espressivo generale, che ricorda quello dei Ländler stravolti di Mahler, con qualche effetto bandistico più pronunciato, forse intenzionalmente caricaturale. Anche qui l’ambiguità (o meglio la duplicità) predomina, suggerendo ora uno struggente ripiegamento nostalgico, ora un brutale sogghigno liberatorio. L’ironia diviene disperata, acre, alla fine quasi sarcastica.

Segue un Largo di trasognata cantabilità, in fa diesis minore e tutto dominato dalle sonorità degli archi. Šostakovič lo considerava il movimento più riuscito, nel quale aveva ottenuto di «costruire un tempo che evolve in modo progressivo dall’inizio alla fine». Nella sua forma aperta si susseguono, in un fitto intreccio polifonico, quattro diverse idee tematiche, tutte di affine carattere lirico, che si completano a vicenda senza contrasti, dando all’insieme un senso di compattezza e di flessibilità. Più elegiaco che mesto, pensoso più che serioso, questo movimento è anche il più personale della Sinfonia, quello nel quale il furore represso si stempera in una specie di commossa sublimazione del dolore. È un momento di introspezione e di pietà, forse un atto di sincera devozione alle ragioni ideali della musica, oltre le contingenze della storia.

La Sinfonia si conclude con un finale Allegro non troppo in re maggiore, in cui i toni appariscenti, positivi e ottimistici, giungono a effetti roboanti. Secondo l’autore il finale della Sinfonia doveva dare «una risposta ottimistica e gioiosa agli episodi intensamente tragici dei movimenti precedenti». Ma la soluzione che propone è una risposta ansiosa e dubbiosa a interrogativi che rimangono tutto sommato insoluti: anzi, riaffermati. Il giubilo che la pervade non è soltanto stridente, ma anche troppo platealmente esibito per essere vero. L, intenzionalmente, l’ottimismo del vacuo e del retorico. Ed è dunque qui che l’irreparabilità della tragedia tocca il suo apice: nella costrizione a doversi fingere a tutti i costi entusiasta, e nel far capire, dietro l’apparenza di un’enfasi convenzionale, quasi volgare, tutto il dramma e la protesta per questa condizione. Il pubblico al quale Šostakovič si rivolgeva avrebbe compreso il messaggio in codice della Sinfonia? Certo che l’avrebbe compreso, avrebbe capito quel che stava succedendo attorno a loro e capito di che trattava la Quinta Sinfonia. Questo, non il compromesso, era il senso del mascheramento.

Nel vortice di un conflitto di proporzioni immani, la musica di Šostakovič ci insegna l’arte umanissima del sopravvivere alle utopie con un minimo di decoro, e la necessità di lottare lucidamente con ogni mezzo, anche con il parziale sacrificio di sé, per tenere in vita la speranza.

Ion Marin /Jean-Ives Thibaudet, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica sinfonica 2001-2002

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