Disperatamente Callas

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Fra «Lezioni di canto» e memorie indiscrete rivive il mito della tormentata Divina

Nel 1971 Maria Callas fu invitata a tenere una serie di master classes alla Juilliard Music School di New York. Si era ritirata dalle scene nel 1965, limitando la sua attività alle registrazioni e ad alcune apparizioni in concerto. Nel 1969 era stata l’interprete del film Medea di Pasolini, nel 1973 regista dei Vespri siciliani per l’inaugurazione del ricostruito Teatro Regio di Torino. Sono date, queste, marginali rispetto alla vera carriera della Callas, uno dei miti del nostro secolo, di cui tutto – nella storia o nella cronaca – sembra esser stato detto; mentre una nuova celebrazione si prepara nel film della sua vita che Zeffirelli ha annunciato di voler girare. Date marginali in quanto riguardano l’epilogo di una carriera sottratta al suo ambiente naturale, quello che le aveva dato la fama: il palcoscenico dei teatri. Dove vent’anni di presenza bastarono a creare l’immagine di un’artista osannata come unica e incommensurabile.

Eppure le Lezioni di canto pubblicate nel 1988 da Longanesi (e ora anche in Francia da Fayard), fedele trascrizione di John Ardoin delle lezioni tenute alla Juilliard, sono un documento che consente non solo di avvicinarsi ai misteri della Callas ma anche di riconoscere che in fondo, piú che di misteri, nel suo caso si trattava di una consapevolezza maturata coll’esperienza, tutt’altro che affidata all’istinto o all’ispirazione, e forse neppure del tutto circoscritta alla forza di una personalità scenicamente eccezionale. E può sembrare perfino strano che la Callas dispensi i suoi consigli con tanta generosità, contraddicendo in primo luogo quell’immagine di artista scontrosa e inavvicinabile che molti amarono cucirle addosso, per alimentare il suo culto. Prendendo in esame uno per uno i violi interpretati, o semplicemente studiati, dal Don Giovanni di Mozart, all’Adriana Lecouvreur di Cilea, in successione cronologica per autori, la Callas ne analizza gli aspetti tecnici e musicali con una acribia quasi maniacale,

facendoci entrare nell’officina del cantante alle prese con l’interpretazione, nella delicata fase di appropriazione di un testo per renderlo vivo sulla, scena.

Costruito tutto su esempi musicali delle sole linee vocali senza accompagnamento, al fine di isolare singoli tratti della parte in relazione al libretto, questo manuale è destinato soprattutto ai cantanti già formati, ma non esclude considerazioni di carattere più ampio. Da cui si ricava, anzitutto, che la Callas non fu un fenomeno isolato nella sua grandezza, ma il risultato, certamente un vertice, di un periodo nel quale il rapporto con il mondo dell’opera era ancora diretto e profondo. La Callas fu figlia di un’epoca nella quale l’artigianato non aveva ancora ceduto il posto alla produzione industriale, e l’opera non aveva ancora sposato l’ideologia dell’evento. Un’epoca nella quale la conduzione dello spettacolo operistico era ancora saldamente nelle mani del direttore d’orchestra, esperto di voci e padrone della tradizione, e proprio per questo capace di valorizzare i cantanti, mantenendosi vigile sullo sfondo.

Il segreto della Callas sta nel non aver mai intellettualizzato il melodramma, badando con un pragmatismo assoluto a coglierne l’essenza: motivare e realizzare una passione. Passione che si esprime attraverso il canto, e nel canto deve trovare la sua ragione di essere. Ciò non può avvenire attraverso una mediazione stilistica («Che cos’è lo stile? Semplicemente il buon gusto») ma muovendo dall’interno il meccanismo che lega le parole alla musica, e fa di quelle espressione drammaturgicamente intensificata di questa. Ma per divenire tale il canto deve trovare una dimensione di verità di cui la voce è solo lo strumento; mentre le radici sono nell’anima e, par di capire, in una reazione alla solitudine e al pessimismo di fronte alla realtà. Se dal punto di vista tecnico-espressivo il compito del cantante è dominare un problema e offrirlo al pubblico risolto con la massima facilità, il fine è annullarsi nel personaggio, rivivere e trasfigurare un sentimento fino a renderlo universale e bello: dopo tutto l’arte è reinvenzione del mondo reale.

E fatale correre istantaneamente alle pagine che hanno fatto la leggenda della Callas, a «Casta diva», a «Vissi d’arte», al finale primo della Traviata. In tutte le sue osservazioni, nelle pur differenti situazioni, è ravvisabile un principio fondamentale: la necessità di partire dal testo per ricostruire il processo di fusione tra parole e musica e fissare quel momento in cui la tensione si scioglie in canto. Non c’è opposizione tra drammatizzazione e belcanto: l’uno non può esistere senza l’altra. Ogni parte deve tendere idealmente al belcanto: ma solo dopo aver penetrato le ragioni del dramma. Si dirà che ciò riusciva a lei, ma non può essere insegnato. Ma l’ammaestramento che ne deriva è di portata piú generale, e riguarda la familiarità, l’intimità con un linguaggio di cui oggi, sempre piú, si stenta a ritrovare le tracce nelle rappresentazioni d’opera. Se ciò è all’origine anche di molte nostalgie è perché sentiamo che andiamo perdendo questa semplicità naturale, se non l’abbiamo già perduta.

 

 

E l’intemperante Maria disse: «Gli sta bene!»

 

Nella vita di Maria Di Stefano, moglie ormai separata del tenore, fece ad un certo punto irruzione Maria Callas. Una rivale accolta a braccia aperte, molto presente nei diari scritti a quattro mani con Franca Maria Trapani. Dal volume «Callas, nemica mia», in uscita da Rusconi, anticipiamo un brano relativo alla morte di Alessandro, figlio di Aristotele Onassis.

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San Remo, gennaio 1973.

Dalla radio apprendiamo la tragica morte di Alessandro Onassis, il figlio ventunenne dell’armatore greco.

Il primo commento di Maria è «Gli sta bene». Si riferisce al padre, evidentemente. Pippo, come sempre davanti alle sue intemperanze e al suo spirito vendicativo, le dà sulla voce: – «Non dire così, Maria».

Rimango male. Poi, riflettendo, penso che sia stato solo uno scatto d’ira incontrollato verso l’uomo che l’ha fatta tanto soffrire.

«Forse dovrei telegrafare», dice infine. Ma non può. Quell’uomo ha accanto Jackle.

Ho ripensato alla frase di Maria per la morte di Alessandro Onassis. Tempo addietro mi aveva detto che Ari l’aveva fatta abortire e io non ci avevo creduto.

Quel «gli sta bene» così cattivo potrebbe essere una reazione a quell’imposizione di Onassis, che forse veramente l’ha obbligata ad abortire. Non deve averglielo perdonato.

Se quel bambino fosse nato, Onassis, perduto Alessandro, potrebbe aggrapparsi a lui.

da “”Il Giornale””

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