Dioniso “en travesti”

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Trionfo a Stoccolma per «Le baccanti» di Euripide su musiche di Börtz, regia di Bergman

Ingmar tornato alla lirica: presto un ‘edizione tv che girerà il mondo

Stoccolma – «Era questo che volevamo far vedere». L’ultima battuta è sussurrata da una voce sola del coro delle Baccanti, prima che il silenzio e le tenebre inghiottano nel raccoglimento del teatro le testimoni della catastrofe e noi: non è quella del testo di Euripide («Cosí si è compiuta questa vicenda»), ma il sigillo personale che Ingmar Bergman ha posto alla sua versione della tragedia nell’opera in due atti – «Le baccanti» – rappresentata in prima mondiale all’Opera Reale di Stoccolma. In febbraio appronterà un’edizione televisiva che, come già successo per il «Flauto magico», girerà il mondo. È una fine che scioglie la tensione di uno spettacolo di abbagliante bellezza, nel quale lo spirito della tragedia antica rivive nella totalità dei suoi elementi per comunicarci quell’emozione spirituale, ma anche quella sensualità rovente che il vecchio Euripide sbozzò in una eruzione estrema di atti e di sentimenti. Ancor piú della profondità dei temi, della molteplicità di spunti e di visioni ciò che colpisce nell’interpretazione di Bergman è la valorizzazione completa delle possibilità dell’opera tragica con mezzi quanto mai semplici, ridotti all’essenza: sintesi prodigiosa, nuova anche per lui, di invenzione e di stile, di parola, teatro e musica.

Quando si alza il sipario, la scena è una scatola vuota, grigia, al centro della quale alcune pietre delimitano un cerchio magico, l’altare del dio e il luogo del rito. Entra Dioniso, in abiti neri maschili, percorre la scena vuota come un regista alla ricerca del suo spazio, indossa il mantello rosso del travestimento e intona il prologo: è una cantante a interpretarlo, la magnifica Sylvia Lindenstrom. Poi chiama a sé il seguito delle Baccanti, che entrano trascinando un carro da cui estraggono gli arredi per comporre la scena: paramenti e tappeti rossi che già annunciano il sangue. Con questi pochi elementi, giocando sui contrasti cromatici e su una continua trasformazione delle luci e delle ombre, Bergman sembra evocare il clima della tragedia come rito; ma nello stesso tempo, con la recitazione, con la diversificazione dei caratteri, dei tipi, carica la vicenda di una tensione drammatica pregnante, immediata e coinvolgente.

Penteo, il miscredente, interpretato dallo strepitoso baritono Peter Mattei, appare all’inizio negli stessi abiti neri di Dioniso; e quando si traveste da donna per spiare le invasate i suoi lunghi capelli biondi e il suo volto hanno una straordinaria somiglianza con quelli di lui. Non è la sola ambiguità che Bergman rileva e sottolinea nel mistero del dio. Anche Dioniso, però, non rappresenta un nuovo equilibrio che risolva i conflitti: nel momento terribile della rivelazione, in cui appare da uno squarcio di luce sul fondo della scena — quasi deus ex machina al negativo —, la sua vendetta si compie annientando non solo chi non credeva in lui ma anche Agave e le Baccanti, i suoi strumenti di punizione. Il fatto che Dioniso sia interpretato da una donna è a questo punto significativo: Dioniso è la forza dell’irrazionale che per Bergman ha tratti femminili, una potenza oscura che irrompe nel mondo e detta le sue leggi in modo incondizionato. Solo nel finale Bergman si discosta da Euripide per mettere l’accento sul significato morale del compianto e della pietà: teatro come catarsi, ricomposizione di un ordine interiore sulle rovine delle passioni e delle idee. Ciò che ha voluto mostrare è appunto la capacità del teatro di trasfigurare le ossessioni, i sogni e la realtà in un mondo ideale di figure e di immagini che diano un senso, ancora una volta, alla vita e al destino.

In che misura siamo di fronte a un’opera propriamente intesa? Anche se il canto è largamente preponderante non mancano parti dialogate e recitate: due di esse, il racconto del messaggero e quello del servo, sono affidate ad attori del Dramaten, Per Mattsson e Peter Stormare, e costituiscono inserti di teatro puro, dove il tono tragico si stempera in commedia. Se la tragedia nasce dallo spirito della musica, e dal culto dionisiaco in particolare, per Bergman la sua presenza è necessaria non solo nelle parti corali, nei monologhi ieratici, bensí come atmosfera che innalza la temperatura espressiva del dramma e gli dà, col suo linguaggio rituale, significati universali. Al compositore Daniel Börtz va il merito di aver realizzato un lavoro di forte concretezza: le parole sono scolpite in un declamato arioso e incisivo, l’orchestra alterna impennate e rarefazioni puntando ora sull’ostinato ritmico delle percussioni, ora sulla suggestione timbrica di pochi strumenti, ora sullo scatenarsi di sonorità esplosive nelle scene orgiastiche. La musica di Börtz, col suo ampio spettro di gradazioni, aderisce perfettamente alla drammaturgia ricreata da Bergman sulla scena.

E proprio questo è la forza e insieme il limite di questa partitura, impensabile disgiunta da questa regia, e forse anche dalle condizioni offerte da un gruppo impressionante di cantanti-attori capaci di passare con la massima naturalezza dal canto al parlato: tutti protagonisti, da Laila Andersson-Palme (Tiresia), Sten Wahlund (Cadmo) e Anita Soldh, una Agave di straordinario temperamento e abbandono, al coro delle Baccanti. Ottimo il direttore Kjell Ingebresten, e superiore a ogni elogio la realizzazione tecnica. Successo enorme, di calore quasi mediterraneo.

 

«Le baccanti» di Börtz all’Opera Reale di Stoccolma (repliche fino al 13 dicembre)

da “”Il Giornale””

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