La sua voce: uno strumento di cui sa controllare ogni espressione, ogni inflessione. La sua cultura: una ricerca costante di approfondimento della forma e dello stile
Dietrich Fischer-Dieskau è un mito della nostra epoca. E non solo della nostra. A leggere la bella biografia che gli ha recentemente dedicato Wolf-Eberhard von Lewinski si rimane quasi sorpresi, benché niente di nuovo si riveli, nel ripercorrere le tappe della sua immensa carriera: dal debutto nel Lied a soli diciannove anni (1944, e subito con Winterreise di Schubert) e nell’opera a ventitré (il marchese di Posa nel Don Carlos a Berlino) ai contatti con quasi tutti i più grandi interpreti degli ultimi cinquant’anni; dallo sterminato repertorio eseguito e inciso, che abbraccia tutta la musica da Bach ai contemporanei (prime assolute di Henze, Britten, Reimann e quant’altri) agli interessi come direttore d’orchestra e scrittore (una decina di libri, alcuni importanti, e tre lauree honoris causa), all’hobby della pittura, ai premi, le onorificenze, l’attività didattica, e, fino ad oggi, gli innumerevoli concerti, che di tutto questo lavoro artistico tengono viva la memoria e rinfrescano la presenza. Un mito vivente e, si direbbe, niente affatto sul viale del tramonto. Dopo tutto Fischer-Dieskau ha oggi solo sessantasei anni e non sembra intenzionato a mollare.
Il miracolo della sua voce, anzitutto.
Credo che il miracolo, se di miracolo si tratta, non stia nella voce, ma in quello che sono stato capace di fare con la voce. La mia voce è diventata uno strumento con lo studio ma soprattutto con la riflessione sullo studio e sull’interpretazione. I miei maestri hanno contato molto, soprattutto il mio maestro di canto a Berlino, Hermann Weissenborn. Poi sono venuti i primi contatti con gli artisti: e qui ho imparato molto sia da quelli che s’intendevano di voci sia da quelli che non ne sapevano granché. Ma quando ho cominciato io erano molti di più quelli che ne sapevano, soprattutto fra i direttori d’orchestra: non foss’altro perché erano abituati a lavorare con i cantanti nei teatri di repertorio tedeschi, forti di una lunga e profonda tradizione. Un cantante ha il vantaggio di non lavorare mai da solo: per cantare, bisogna che qualcuno l’accompagni, un semplice pianoforte o una grande orchestra. Il rapporto è dunque di collaborazione. E con la collaborazione si cresce, fino a diventare adulti e a cercar di camminare con le proprie gambe. Ma mai da soli.
Più che di voce allora è una questione di testa.
Sì, di testa messa al servizio della voce. Io mi sono sempre divertito a mettere alla prova la mia voce. Per me era una scoperta vedere fino a che punto potevo dominarla e spingerla a diventare uno strumento di cui sapevo controllare ogni espressione, ogni minima inflessione. Poi naturalmente conta la musica, il rapporto con l’autore, la ricerca di approfondimento e di comprensione della forma e dello stile. Allora la voce torna ad essere in funzione della testa, del gusto e della cultura.
Detto così, sembra facile. Perché allora di Fischer-Dieskau ce n’è uno solo? E non rida, non è un complimento.
Mein Gott, ognuno di noi è unico. Ci sono molti buoni cantanti, ne ho conosciuti davvero tanti, ho sempre avuto stima dei cantanti, e non solo perché erano o sono colleghi. Mi interessa vedere come risolvono i loro problemi, è uno stimolo continuo , un arricchimento . Ai più giovani cerco di comunicare le mie esperienze, ma mai di influenzarli o di costringerli a fare come farei io. Una voce è una pianta che deve crescere sulle sue radici.
Esiste una corrispondenza fra registro della voce e carattere?
A decidere non è il registro, ma il timbro della voce, come in nessun altro strumento. Acuti e gravi possono essere, anche a parità di volume, vellutati o metallici. In questo senso il carattere è ciò che rispecchia il modo di essere di una persona. Anche nella voce.
Quando si può dire che cominci la vita di un cantante?
A sedici anni, in ogni caso dopo che si è conclusa la fase della muta della voce. Allora si può cantare se uno è predestinato al canto. A deciderlo è in primo, secondo e terzo luogo la voce. Solo a questo punto entra in gioco la musicalità, che si può educare.
Però la sua carriera dimostra che poi certi accorgimenti sono necessari per non distruggere la voce.
Se lei allude ad accorgimenti pratici, certo, sono importanti. Non cantare troppo, riposarsi il giusto, evitare di affrontare ruoli sbagliati nel momento sbagliato, sapere fin dove si può arrivare e non arrivare mai al limite estremo. Tutte queste cose ogni cantante le sa. Se decide di comportarsi in altro modo poi deve accettare anche le conseguenze. Per la verità, io queste cose le ho imparate con il tempo, all’inizio ho cantato molti ruoli d’opera che non erano adatti, ero costretto ma sapevo benissimo quali rischi corressi. Finché la voce è fresca e robusta si possono sopportare anche ruoli non adatti: ma poi viene il momento in cui si rischia grosso, e allora bisogna fermarsi. Di solito questo accade quando un cantante è già affermato: allora viene il momento di riflettere e di scegliere. Karajan voleva a tutti i costi che facessi con lui a Salisburgo Wotan e il Viandante nella Walkiria e nel Sigfrido. Avevo accettato L’oro del Reno, ma avrei sbagliato ad accontentarlo, anche se lavorare con Karajan era stupendo. Lui se la prese e disse molte cose cattive su di me. Sono serenamente convinto di aver avuto ragione.
Anche con Bayreuth lei ruppe in malo modo, mi pare. Crede che oggi ci sia una crisi di cantanti wagneriani?
Wieland Wagner si offese per il mio rifiuto di accettare un costume, anzi un piccolo dettaglio di un costume, e mi congedò (dopo sei anni di successi) senz’altra spiegazione. In effetti il numero dei cantanti wagneriani è oggi minore. Ma ciò non dipende dalla grandezza o dal volume delle voci bensì dall’armamentario tecnico sovente inadeguato. Per non affogare nell’oceano wagneriano bisogna quantomeno aver prima imparato come si nuota.
Solo da ultimo lei è arrivato a Sachs. Perché?
Mi interessava dare di Sachs una visione matura, ricca di ironia, leggera, umoristica. Sachs è un personaggio complesso ma non perde mai il controllo della situazione, anche quando crede di innamorarsi di Eva o si arrabbia con Walther. Io credo che l’ironia sia il tratto che lo distingue, anche nell’ultima tirata sull’arte tedesca. Quando l’ho fatto in disco, sentivo la mancanza della scena; in teatro non fu sempre facile rendere tutte le sfumature del personaggio, anche se con Sawallisch costruimmo una figura che rispondeva alle mie idee. A Monaco fu meraviglioso: c’era Kollo, un Walther elegante e bellissimo, c’era Moll, così terribilmente serio e bravo, c’era Schreier, con cui mi divertivo un mondo, e poi c’era Julia (la Varady), di cui mi ero innamorato: a volte temevo di essere davvero Sachs… Ho un ricordo grato di quei momenti, vita e arte si rispecchiavano in una pienezza assoluta. Ma con ironia. Anche Falstaff è un personaggio che non può prescindere dall’ironia, dalla finezza, dalla leggerezza.
Lei ha fatto in disco Kurwenald con Furtwängler e poi, molti anni dopo, con Carlos Kleiber. Qual è il motivo?
Ai tempi di Furtw ängler avevo l’età giusta per farlo. Quando Kleiber mi propose di incidere il Tristano con lui, mi spiegò che idea avesse del personaggio e perché avesse pensato a me: mi interessò molto e accettai. Sono due interpretazioni molto diverse, entrambe grandissime, di due direttori geniali.
Anche nel Lied lei sembra molto sensibile alla personalità dei partners.
Non posso dire che le mie idee cambino a seconda di chi mi accompagna. Però con ognuno lo studio ricomincia da capo, veramente, e il percorso è sempre diverso. Considero per così dire “”classiche”” le mie esecuzioni di quasi tutto il maggiore repertorio liederistico affrontato con Gerald Moore: con lui l’affiatamento era perfetto. Ma poi, quando ritornavo sugli stessi testi con altri collaboratori, dimenticavo quello che avevo già raggiunto e mi immergevo in esperienze sempre diverse. Più forte è la personalità del pianista – Richter, Brendel, Barenboim, Pollini, per fare solo qualche nome – maggiore è lo stimolo e la sollecitazione a scoprire possibilità sempre nuove. Non ho mai accettato collaboratori che non avessero questa disponibilità – ma io la chiamerei necessità – nel lavorare insieme. Nessun grande artista rifiuta di confrontarsi nelle sue idee sulla musica. A volte accade che i risultati non siano quelli sperati. Ma è comunque un incontro che deve avvenire con la massima serietà e con reciproco impegno, e che quindi dà i suoi frutti.
Lei ha dato sempre grande importanza alla scelta dei programmi nei suoi concerti di Lieder. Come avviene questa scelta?
Dipende dai casi. Naturalmente ricevo delle proposte e se la cosa mi interessa penso al programma. Se si tratta di un ciclo di Schubert o di Schumann la cosa è facile. Se invece mi si chiede un programma monografico o antologico, cerco di dargli una linea e di stabilire dei collegamenti. Non è necessario che i collegamenti siano sempre gli stessi. Anzi. Però in un concerto di Lieder è importante che ci sia una traccia e che si segua un ordine fatto di tensioni e di distensioni. E importante anche per il cantante, che deve sapere dove accrescere la tensione e dove rilassarsi, altrimenti la sua prestazione ne risentirà. Non è detto che il pubblico debba sempre “”capire”” qualcosa, intendo un messaggio, non le parole, che nel Lied sono la base di tutto; deve però essere messo sempre nella condizione di “”sentire””. Non solo con le orecchie, soprattutto con l’anima. Ci sono poi casi in cui sono io a proporre un programma perché ho trovato alcuni collegamenti che mi sembrano interessanti e che vorrei far conoscere. Allora penso a quali siano il luogo e il momento più adatti per farlo. Scelgo io il pubblico in base alla mia esperienza. Non tutti i programmi vanno bene per tutti i pubblici. E nemmeno tutti gli autori. Strauss, per esempio, o Wolf, che pure sono liederisti sommi, hanno bisogno di condizioni particolari.
Lei era già famoso come interprete di Lieder prima di dedicarsi all’opera. Come è avvenuto questo passaggio e quali sono le differenze?
Ho cominciato quasi contemporaneamente nel Lied e nell’opera. Il passaggio dal Lied all’opera non presenta particolari problemi all’inizio di una carriera: questo genere contiene in miniatura già tutte le possibilità tecniche ed espressive del canto. Più difficile è il procedimento inverso, soprattutto quando il cantante si sia formato esclusivamente nell’opera. Nell’opera, al canto si unisce il movimento scenico e si dipende in maggiore o minore misura dalla presenza del direttore. Anche il volume richiede una maggiore espansione e questo volume deve essere sviluppato. Ma per il resto i requisiti sono assolutamente gli stessi: padronanza stilistica, uguaglianza nei registri, dizione e respirazione.
Ci sono ruoli nei quali lei si è idealmente identificato?
Mi sono identificato in tutti i ruoli via via che li affrontavo. Ma se lei mi chiede di tracciare un percorso ideale di figure che hanno accompagnato la mia carriera allora direi: il Conte delle Nozze di Figaro, Wolfram von Eschenbach del Tannhauser, Falstaff, Mandryka di Arabella e Re Lear di Aribert Reimann.
Spesso lei ha affrontato anche ruoli minori, che di solito un cantante affermato rifiuta. Per esempio l’Oratore del Flauto magico o il Ministro del Fidelio.
Sono parti piccole, ma di grande qualità musicale e di importanza decisiva nell’economia drammatica delle rispettive opere. Il Ministro formula nel finale del Fidelio il vero e proprio messaggio che stava a cuore a Beethoven, l’Oratore nel Flauto magico annuncia il regno di Sarastro in poche battute, ma in modo più incisivo e luminoso di Sarastro stesso e della sua grande parte. Sono momenti chiave non solo di queste opere ma anche di tutta la storia del teatro musicale.
Lei ha interpretato quasi tutti i grandi ruoli di baritono del teatro musicale del Novecento, da Cardillac di Hindemith al Doktor Faust di Busoni, a Wozzeck, Lulu e via dicendo. In che misura lo studio si differenzia da quello, poniamo, di un’opera di Mozart?
Lo studio è più lungo perché il rapporto fra testo e musica non è così immediato e naturale come per esempio in Mozart. L’importante è che il testo aiuti la memoria. Occorre scomporre i diversi strati di cui questa musica sovente complicata è fatta, raggiungere la piena consapevolezza di ciò che si deve cantare prima ancora di porsi il problema di come cantarlo. Altrimenti tutto sembra insensato. Ma Mozart pone compiti non meno difficili sul piano musicale, psicologico, drammatico e anche vocale. In un certo senso anche più difficili.
Non è molto che lei ha abbandonato il teatro. Lo ha fatto senza clamore e senza addii ufficiali. Ciò significa che prepara un rientro?
Non credo che tornerò a fare ruoli che ho già fatto. Con Sachs, Falstaff, Amfortas ho toccato per così dire i ruoli del congedo. Tornare indietro non avrebbe senso, anche se un Mandryka in Arabella o un Don Alfonso mi stanno, per motivi opposti, nel cuore. Potrei prendere eventualmente in considerazione un nuovo ruolo scritto appositamente per me, come è stato il Lear di Reimann, che mi ha dato molta soddisfazione. E non per vanità. Negli altri campi sono interessatissimo a fare nuove esperienze. Nella musica contemporanea, per esempio, e anche in quella del passato: i Lieder di Weber sono una scoperta che ho fatto so-lo in questi ultimi tempi. E poi Pfitzner, Schoeck, Schreker, e chissà quant’altro. Il piacere della scoperta non conosce limiti.
Non c’è dunque polemica verso le tendenze del teatro di regia moderno?
Non è una preclusione assoluta, anche se sono contro la dittatura dei registi. Credo che il cantante debba avere, come diceva Strauss, i suoi diritti. Quando si usa il cantante in modo innaturale, costringendolo a fare cose che contrastano con la sua sensibilità e ne mettono a repentaglio la prestazione individuale, si fa semplicemente cattivo teatro, ieri come oggi. Non è questione di modernità, di teatro di regia o di tradizione. E solo questione di buon senso. Se l’opera lo richiede, non c’è cosa che non si possa o debba chiedere al cantante. Il quale però non può essere solo uno strumento in mano dei capricci del regista o del direttore d’orchestra. Quando ero giovane ho provato che cosa significasse vivere nella routine del teatro, dover accettare tutto perché il contratto te lo impone. E stato molto istruttivo. Ogni cantante dovrebbe conquistare la sua indipendenza e scegliere di lavorare solo in condizioni artisticamente accettabili. Spesso è molto difficile. Ma è un compito che fa parte del nostro mondo. In seguito, la risposta è una sola: consapevolezza e collaborazione. Possibilmente con altri artisti, registi, direttori, colleghi che siano in sintonia e accettino il confronto. Se tutto questo non accade, è meglio rinunciare. Dire di no è la cosa più difficile, ma l’unica che paghi. A media e lunga scadenza.
Lei ha cantato molte parti sia in lingua originale che in traduzione. Quali sono le sue conclusioni?
Preferisco la lingua originale, anche se talvolta per la comprensione del dramma da parte del pubblico o per la pronuncia da parte del cantante vi sono degli ostacoli. Se cambia la lingua, cambia anche la musica, soprattutto in Mozart e in Verdi. Ma anche la musica di Puccini nasce dallo spirito della lingua italiana e non ha a che fare con il puro e semplice belcanto, ossia solo con la bellezza delle melodie.
Quale futuro vede per la voce?
Teoricamente il pessimismo è scontato. Ma aspettiamo sempre di essere smentiti da qualche nuova apparizione. Nel Lied ci sono oggi compositori che hanno conquistato nuove finezze e possibilità espressive. L’unica cosa di cui sono convinto è che la strada della cosiddetta “”nuova semplicità”” non porta molto lontano.
Perché ha sempre sentito il bisogno di occuparsi di molte cose e come ha fatto a trovare il tempo?
Non è difficile trovare il tempo per le cose che interessano. Dipingere mi piace e mi distende; scrivere fa parte del mio lavoro di ricerca e di approfondimento sugli autori e sulle musiche, è un modo di documentarsi, di riflettere e di fissare certi pensieri, certe esperienze; insegnare è un’attività che mi fa sentire utile a chi forse ha bisogno di qualche consiglio: non insegno per professione o danaro. Che c’è di strano? Ah, dirigere forse: l’ho fatto quando si presentavano le condizioni per farlo, e per musiche che non richiedevano una tecnica speciale, o che avevo maturato al punto da poter comunicare a un’orchestra accuratamente selezionata le mie intenzioni senza problemi. Stia pur certo che non mi vedrà mai dirigere La traviata o il Tristano, anche se come musicista mi piacerebbe.
Che cosa pensa quando qualche critico scrive che la voce di Fischer-Dieskau non è più quella di una volta?
Due cose. La prima è che probabilmente quel critico, quella volta, non c’era, mentre io sì. Vuol sapere la seconda? Gliela dirò la prossima volta.
Musica Viva, n.6 – anno XV