Carlo Maria Giulini ritorna stasera e domani a Firenze per dirigere l’Orchestra del Maggio in un programma interamente dedicato a Beethoven. A Giulini, artista amatissimo dal pubblico fiorentino, abbiamo posto alcune domande di attualità. Ecco le sue risposte.
– Il suo concerto chiude il festival d’orchestre, che ha infiammato il Maggio di quest’anno. Da molti anni lei collabora con l’orchestra del Maggio. Quale ne è il suo giudizio?
«Amo molto questa orchestra e questo teatro, sia dal punto di vista musicale sia umano. Per me quel che conta non è tanto il dirigere quanto il fare musica insieme, e questa orchestra onora in ogni momento il grande privilegio che noi musicisti abbiamo come servitori della musica».
– E’ quindi un’orchestra valida anche dal lato professionale?
«Assolutamente sì. A questa orchestra si può chiedere moltissimo perché dà moltissimo».
– In attesa della riforma degli enti lirici, si paventa che Firenze e il suo festival possano venire in qualche modo declassati o comunque non adeguatamente sostenuti. Qual è il suo pensiero al riguardo?
«Firenze ha il suo posto e questo posto non deve essere toccato. La vita musicale di Firenze deve perciò essere tenuta nella considerazione che si merita, e se possibile debitamente accresciuta. Sono pronto a sottoscrivere questo giudizio e anche a scriverlo di mio pugno».
– Cosa pensa del tentativo che si è fatto a Firenze di affidare l’organizzazione artistica del Maggio a un responsabile esterno?
«Mi pare un’idea interessante, che offre nuove prospettive a un festival internazionale come il Maggio. Ma credo anche che una valutazione più precisa possa essere fatta solo fra qualche anno».
– E quale dovrebbe essere allora l’identità del Maggio? Festival a sé stante o conclusione in bellezza della normale stagione?
«Il Maggio Musicale Fiorentino deve rimanere un festival, nel quale viene presentato il meglio del meglio possibile. Per questo sono importanti la personalità e la forza delle idee del responsabile artistico».
– Un direttore d’orchestra a capo di un teatro sembrerebbe l’uovo di Colombo. Lei che ne pensa?
«Sarò franco. Il direttore artistico di un teatro è la persona che deve dare al teatro il meglio. Ora, io non credo che esista il “”santo”” direttore d’orchestra che si preoccupa di dare il meglio di tutto (cantanti, registi, prove, inaugurazioni eccetera) ai suoi colleghi. Toscanini, ai suoi tempi, regolarmente si prendeva il meglio e lasciava le altre cose agli altri direttori. E faceva bene. Sono possibili le eccezioni, ma mi paiono molto difficili. Il direttore artistico deve essere un burattinaio – mi si perdoni l’espressione – che serve dei migliori per dare a tutti il meglio».
– E’ favorevole alle sponsorizzazioni?
«Tutto quello che dà incremento e aiuta a vivere l’arte è utile e necessario. In America tutto è sponsorizzazione, ma con regole ben definite. Il punto è questo: stabilire le norme».
– Cosa manca in Italia perché in fatto di musica si diventi un paese evoluto?
Due cose. Primo, la musica deve entrare a far parte della cultura, nelle scuole, nella collettività e nelle coscienze individuali. Secondo, si deve imparare a fare musica in casa. La musica è l’unica arte che lascia libera la fantasia e che in questo senso è creativa: perciò tutti debbono avere il diritto di esercitarla».
– Su quale linguaggio di base? Quello di Beethoven? O quello di oggi?
«E’ vero, oggi viviamo un momento speciale, è l’era della scienza. Per il linguaggio musicale è invece un momento di sosta. Ma io non credo ai disfattisti che dicono che l’arte – o la musica – è morta».
– Tornerà a dirigere in teatro, dopo il Falstaff?
«Se si presenterà l’occasione di fare ancora un’opera io la farò. L’esperienza del “”Falstaff’ è stata una cosa decisamente positiva».
– Si dice che oggi non ci siano più i cantanti di una volta. E’ vero?
«La realtà presente è questa. Se si tratti di un momento di passaggio o di una realtà immodificabile, non saprei dire. Oggi i veri cantanti verdiani e wagneriani sono rarissimi, e vengono contesi da un teatro all’altro. Il sistema di lavoro che una volta era assolutamente normale – ossia con la compagnia di canto che rimaneva fissa dal primo giorno della prima prova all’ultima recita – oggi non esiste più. E questa è una condizione secondo me basilare per poter lavorare su un determinato livello».
– Il suo repertorio tende sempre più a concentrarsi, ma ne fanno parte tutti i grandi musicisti della storia. Con qualche eccezione. Un giorno lontano, quando tirerà un bilancio, non le dispiacerà di non aver mai diretto Wagner o Strauss?
«Spero di aver ancora il tempo per farlo. Ma non si tratta semplicemente di “”dirigere”” un’opera: l’interprete deve sentirla sua e averla in sè. Amarla. Se ci sono stati dei problemi – e non lo nego – la colpa è soltanto mia. In fatto di repertorio, bisogna accettare di aver dei limiti e nello stesso tempo non forzarli. Non potrei mai fare cose di cui non sento il bisogno. Se avrò la vita, chissà, domani… può darsi che questo avvenga».
– Tornerà presto a Firenze?
«Sì, l’anno prossimo, farò il “”Requiem tedesco”” di Brahms e, al Maggio, la “Messa in sim minore” di Bach
Carlo Maria Giulini dirige, stasera e domani, gli ultimi due concerti del Maggio
da “La Nazione”