Livorno – Nel melodramma italiano dell’Ottocento, Cavalleria rusticana (1890) è l’opera che fa da cerniera tra l’ultimo Verdi (Otello, 1887; Falstaff, 1893) e la definitiva affermazione di Puccini (Manon Lescaut, 1893). Ben oltre le contingenti aperture al progresso, ciò che la differenzia da quei lavori, e che in un certo senso ne costituisce la forza, è il deliberato ritorno alla tradizione più autentica del melodramma popolare, ai suoi valori indigeni e nazionali. Questo recupero avviene con un atto di estrema semplificazione concettuale, in modo fin troppo esibito e plateale, ma teatralmente efficace; con in più una patina di novità, data dal soggetto e dal suo trattamento dichiaramente realistico, ma sovente esotico ed esornativo, che riflette in superficie i molteplici, oscuri impulsi dei tempi nuovi. Mascagni, più per intuito che per scelta consapevole, seppe sfruttare il vuoto momentaneo e lo colmò creando un’opera di forti contenuti passionali, di stampo antico nella serrata successione di episodi drammatici, ora sfogati ora sospesi nel canto; ammodernò il linguaggio dell’opera, ma senza farle perdere i suoi connotati distintivi, autoctoni: quei connotati che Verdi, nella sua magica vecchiaia, aveva ripensato in una prospettiva più sfumata, insieme personalissima ed europea, e che l’internazionale Puccini avrebbe di lì a poco riplasmato in una inquieta mescolanza di intimità lirica e di moderna nevrosi espressiva. Il successo di Cavalleria rusticana si spiega anzitutto con il momento storico della sua apparizione e, in seguito, con il fatto che in essa tornavano per l’ultima volta ad incarnarsi, in modo sostanzialmente conservatore, i principi fondamentali della cultura melodrammatica italiana dell’Ottocento.
Apparentemente La lupa di Marco Tutino e Giuseppe Di Leva, rispettivamente compositore e librettista, ha in comune con Cavalleria rusticana solo il soggetto tratto dal vero, che proviene dalla medesima raccolta, Vita dei Campi di Verga. Ma gli autori di quest’opera nuova, commissionata per accompagnare le celebrazioni centenarie di Cavalleria rusticana a Livorno, si sono evidentemente posti il problema di come collocare nel nostro tempo un genere di teatro musicale che ha le sue radici nel passato. E si sono rifatti a Mascagni, prendendolo a modello: già a partire dall’impianto drammaturgico, costituito da due quadri separati da un Interludio. Nella riduzione del testo Di Leva agisce con criteri analoghi a quelli dei librettisti di Mascagni, abolendo del tutto lo sfondo, impregnato di umori morbosi se non di denuncia sociale, per dare risalto maggiore all’azione nuda e cruda: un triangolo amoroso, o meglio sensuale ed erotico, tra un uomo debole e insoddisfatto (che qui è un poliziotto negli anni del consumismo e del terrorismo) incerto fra l’amore ideale di una figlia (la poetica e sognatrice Mara) e quello, distruttivo, di una madre vampiro (la provocante, seducente Lupa).
Ma anche Tutino, con la sua musica, tenta un’operazione di trasposizione a ritroso simile a quella di Mascagni: ossia ridare al linguaggio composito dell’opera, mutato l’ambiente, una direzione funzionale alla comprensione e alla comunicazione immediate. Se però Mascagni, nel 1890, poteva recuperare valori consolidati nell’immaginario popolare del melodramma, oggi le cose stanno diversamente. Non basta spostare l’ambientazione in epoca moderna o infarcirla di citazioni d’attualità per ricomporre l’equilibrio tra convenzione ed efficacia drammatico-musicale. Inoltre, scegliendo un linguaggio armonico e una strumentazione spostati indietro grosso modo di cinquant’anni, Tutino non ricrea automaticamente la verità del melodramma verista, ma s’immerge in un vischioso tessuto musicale che, avendo i suoi punti di riferimento in Puccini e in Britten (Peter Grimes, soprattutto), è già posteriore, se non conseguente, alla crisi istituzionale dell’opera. In altri termini, è contraddittorio coniugare l’esigenza di una comunicazione diretta, tendente alle forme chiuse, al lirismo espanso, e infine a una vocalità di segno positivo ed espressivo, con un soggetto e uno stile di frustrazione e di pura negatività; che per di più si specchia in un mondo che proprio dell’impossibilità di una comunicazione diretta, e della complessità psicologica della vita e dei sentimenti, aveva fatto il suo motivo dominante, anche nel campo dell’arte. L’ambigua riuscita del lavoro è dunque di natura intellettuale prima ancora che semplicemente musicale e drammaturgica.
Con evidente sforzo, tuttavia premiato dalla calorosa risposta del pubblico, il Comitato Estate Livornese è riuscito nel duplice intento di fare onore all’opera celebrata del beniamino e concittadino illustre senza penalizzare la nuova creazione in prima assoluta. Il merito principale va alla sagace ed espertissima guida di Bruno Bartoletti, ben coadiuvato, in una veste per lei inedita, dall’Orchestra prettamente sinfonica della Toscana (giustamente applauditi a scena aperta gli Intermezzi orchestrali di entrambi i lavori). In Cavalleria rusticana s’imponeva su tutti il bel timbro di Giuseppe Giacomini (Turiddu); accanto a lui hanno ben figurato Katerina Ikonomou (una Santuzza con qualche problema vocale di stile, refrattario al «legato»), Paola Romanò, Alessandro Cassis e Fedora Barbieri, Mamma Lucia storica. Nella Lupa Viorica Cortez dava credibilità scenica e qualche brivido nella parte della femmina fatale, mentre il resto della compagnia (dal tenore Frusoni al soprano Cherici, ai bravi comprimari) contribuiva all’impressione che niente mancasse all’esatta resa del lavoro. Negli spazi limitati del cinema-teatro La Gran Guardia, la regia di Claude D’Anna (su scene di Graziano Gregori) s’ispirava chiaramente a modelli cinematografici, puntando tutto (in Cavalleria) sui giochi di luce per rendere l’effetto dei diversi piani e del passaggio tra interni ed esterni, e nella Lupa alternando immagini del cinema neorealista e dello squallore metropolitano. Tutto aveva un po’ l’aria del già visto (e sentito). Ma non è forse questa la condanna di chi è ormai costretto a cibarsi solo dei resti di un banchetto che fu già splendido?
«Cavalleria rusticana» di Mascagni e «La lupa» di Marco Tutino a Livorno (repliche fino all’8 settembre).
da “”Il Giornale””