Con Abbado sul podio Mahler e Schumann rinascono dal dubbio

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Bolzano – Che cosa spinge gli esecutori a tornare nel corso del tempo su pagine e autori che hanno già esplorato a fondo? Naturalmente il desiderio di riconsiderare e perfezionare quel processo misterioso e sconfinato che convenzionalmente si chiama interpretazione, nel quale la musica si reincarna in figure sempre nuove, sempre rivelando una parte nascosta di sé. Ma spesso non si tratta solo di questo: certi autori entrano a far parte, per consonanze non meno misteriose, e spesso riconoscibili solo a posteriori, della vita stessa dell’interprete, di lui riassumendo inclinazioni e scelte culturali, tendenze e affinità; sono dunque mezzi attraverso i quali, per via mediata, si realizzano il destino di un musicista e perfino una concezione dell’arte, e del mondo, con la quale noi ascoltatori ci confrontiamo. E allora ritornare su di essi vuoi dire in un certo senso fermare il tempo, e insieme rinnovarlo continuamente, fino a fissare la propria immagine su quella dell’autore prescelto, e prediletto sugli altri.

Si era portati a queste riflessioni ascoltando la Quinta Sinfonia di Mahler diretta da Claudio Abbado al Palasport di Bolzano nel primo concerto – unico in Italia – della tournée estiva della Gustav Mahler Jugendorchester: complesso nato cinque anni fa per riunire giovani musicisti dell’Europa centrale e orientale e avviarli a rinverdire il patrimonio musicale e le tradizioni di quei luoghi. Mahler è stato parte integrante, se non dominante, della carriera di Abbado, fin dagli inizi: in nessun altro musicista egli è parso identificarsi come con lui. E su Mahler ci ha già lasciato testimonianze cospicue, sia in frequenti esecuzioni con le orchestre che via via dirigeva sia in disco. Ora un ciclo che sembrava chiuso, con risultati unanimemente riconosciuti di altissimo valore, si riapre. Pur nell’ampliamento del repertorio che Abbado persegue nei suoi nuovi, prestigiosi incarichi, Mahler torna dopo una breve interruzione a ricoprire un ruolo centrale, tanto nei concerti quanto nella programmazione discografica futura.

Non che tutto venga rimesso in discussione. Ma certo l’impressione è che il punto di vista sia oggi notevolmente cambiato. Se prima si trattava di sottolineare l’attualità di Mahler nella prospettiva di un linguaggio sinfonico nettamente eccentrico rispetto alla tradizione, oggi Abbado sembra interessato a collocare Mahler nella storia, ad affrontarlo con una più matura sintesi espressiva. Al lavoro di scomposizione che era stato il principio basilare di un accostamento rigorosamente analitico e razionale è subentrato oggi un atteggiamento volto alla ricostruzione di uno stile più libero, flessibile e spazioso. E la Quinta, Sinfonia di equilibri precari e di aspre contrapposizioni, offriva un banco di prova più che mai attendibile per questo mutamento di indirizzo. Attutiti i contrasti, allargati i tempi e il fraseggio, meno isolati i punti di radicale estraneità alla logica della costruzione sinfonica, si poteva apprezzare soprattutto le matrici della forma organica nella tesa ma non sconnessa ispirazione poetica di Mahler. E a beneficiarne erano soprattutto i momenti di calma distensione, come l’adagetto, e i passi vertiginosi nei quali la qualità dell’invenzione, puramente strumentale o invece di forte coinvolgimento espressivo, supera l’ambito dell’intenzione dimostrativa.

Molto dipendeva, com’è chiaro, dall’orchestra. È risaputo che con questi complessi giovanili Abbado può plasmare e sperimentare a suo piacimento, attraverso prove più numerose e capillari del consueto, ogni singolo dettaglio della concertazione. Questa orchestra non ha ancora il pregio della completa omogeneità, ma allinea personalità di spicco, e s’impegna con un fervore che non conosce limiti. Da strumentisti di prim’ordine, abituati nello studio individuale a una severa e probabilmente rigida disciplina, proveniva una volontà tangibile di liberare forze represse, e di slanciarsi in perentorie affermazioni. E a indirizzarle verso il giusto fine pensava Abbado, già nel rapsodico Concerto per violoncello di Schumann, suonato da Miklos Perenyi con intensità sofferta, quasi con ipersensibilità. Ne risultava alla fine qualcosa di più di un bel concerto, di una esecuzione scintillante: qualcosa di vivo, di intimamente vissuto, dove tutto sembrava rinascere dal dubbio, e nel dubbio trovare una ragione per nuove certezze.

da “”Il Giornale””

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