Come si sono stabiliti i legami con Firenze
Il fatto che Zubin Mehta abbia accettato l’incarico di direttore principale dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino ha una triplice spiegazione, come lo stesso sovrintendente Francesco Romano ha dichiarato: il fascino esercitato da Firenze come centro culturale e artistico; la solidità e la generosità dei dirigenti e dei lavoratori del Teatro Comunale; il legame di stima e di apprezzamento nei confronti dell’orchestra e del coro del Maggio.
Tradotto in termini statistici, ciò significa essenzialmente tre cose: l’immagine di Firenze e del suo festival musicale internazionale tiene; lo stato di salute del teatro è reputato almeno buono e tale da meritare l’impegno da parte di un artista conteso dalle massime istituzioni mondiali; la qualità delle masse artistiche stabili fiorentine non è pregiudizialmente inferiore a quella dei complessi con cui Mehta è abituato a lavorare, sia in Europa che in America (egli è tuttora a capo dell’orchestra filarmonica di New York e di quella d’Israele).
Motivi affettivi, che certo non vanno sottovalutati, si intrecciano a valutazioni obiettive: giacché non sarebbe pensabile che Mehta accettasse Firenze solo per quelli e non anche per la fondata convinzione di poter continuare a lavorare ai livelli che gli sono consoni. Così, senza nulla togliere all’abilità e alla diplomazia dei dirigenti fiorentini (Romano ha riannodato personalmente con molta bravura fili già precedentemente intessuti da Vlad, Bogianckino e Alberti, se non addirittura prima, guarda caso, da Bartoletti), il successo si configura in primo luogo come un risultato dell’orchestra e del coro sulla scia delle importanti produzioni tenute a battesimo da Mehta: da quelle del fulgido 1969 (Aida, Messa di Requiem, Ratto dal serraglio e Fidelio) in un festival affettuosamente sopranominato del «mehtamaggio»), alla Tetralogia wagneriana degli anni ’79-’82, alla recente, superlativa prova nella Sagra della primavera di Stravinskij.
Questo riconoscimento di Mehta appare ancor più significativo se lo si ricollega ai recenti attestati di stima e perfino di ammirazione rilasciati all’orchestra e al coro del Maggio da direttori quali Prétre e Giulini, Sawallisch e Maazel, oltre allo stesso Mehta. Riconoscimenti che vengono a illuminare una situazione interna di malcelato disagio e, alla luce dei fatti — si pensi solo al recente concerto con Maazel, del tutto degno di un grande festival d’orchestre —, francamente incomprensibili. (Valga per tutti il caso curioso di un grandissimo musicista e di un didatta unico come Piero Farulli che da anni manifesta apertamente la sua sfiducia verso l’orchestra, battendo sul tasto della professionalità. E’ arrivabile che con l’arrivo di Mehta anche queste incongruenze vengano superate.
Il passato si riverbera così sul futuro, nel segno di una continuità ideale. Un episodio può servire a chiarire la portata della scelta di Mehta. Allorché egli venne invitato a Firenze per riprendere e concludere la Tetralogia con Ronconi e Pizzi, non fece mistero che la sua accettazione, oltre che all’importanza dell’evento, era motivata dal desiderio di affrontare una sorta di «prova generale» in vista di un analogo, prossimo impegno a Vienna: il suo grande debutto, appunto, nella Tetralogia di Wagner. Le cose andarono diversamente. A Vienna, Mehta non potè portare a termine il ciclo per l’ostilità, prima ancora che della critica e del pubblico, dell’orchestra e del teatro; mentre l’esperienza fiorentina si rivelò, nel segno della collaborazione e dello sforzo di tutti i partecipanti, un evento fondamentale e forse irripetibile della sua carriera. E’ forse nata in quel momento la premessa per gli sviluppi odierni. Rinsaldarli, in fondo, è stata la logica conseguenza di quella premessa. Ma ciò può voler dire forse anche un’altra cosa: perfino un direttore come Mehta, osannato e acclamato in tutto il mondo, giunto all’apice della carriera sente il bisogno di rinsaldare i legami con un’istituzione ricca di storia e di tradizioni, e di impegnarsi fermamente, scegliendo di affrontare con fiducia un compito non facilissimo, per contribuire a coltivare un terreno tanto fertile quanto, talvolta, accidentato. Se, come è auspicabile, Bruno Bartoletti scioglierà le riserve per la sua nomina a direttore artistico del Comunale, Firenze potrà vantare un modello unico al mondo di collaborazione fra due artisti congiuntamente impegnati a organizzare e realizzare la vita musicale del Maggio, e non soltanto di quello. Dal loro prestigio, passando direttamente attraverso l’orchestra e il coro, l’inserimento internazionale della città, del teatro e del festival trarrebbe senza dubbio una spinta decisiva.
da “”La Nazione””