Opere in lingua originale o tradotte? Su questo annoso e mai del tutto risolto conflitto teorico e pratico “Opera Oggi” ha chiesto un intervento a Fedele D’Amico (musicologo e principe dei nostri traduttori di libretti d’opera), a Sergio Sablich (curatore di un importante convegno sull’argomento nell’ambito dello scorso Maggio Musicale Fiorentino) e a Giorgio Vidusso (sovrintendente del Comunale di Firenze, dove è stata adottata la soluzione dei “sopratitoli”).
I princìpi del bene e del male
Quando il Teatro Comunale di Firenze mi chiese di coordinare un convegno sulla traduzione di opere liriche (per il 50° Maggio Musicale, 1987) convenimmo che non si sarebbe dovuto dibattere se tradurre sia un bene o un male, ma più concretamente esemplificare come, dove e quando la parola cantata venisse, e venga tradotta, nella lingua del posto. Ciononostante il convegno scivolò sovente su affermazioni di principio: e benché la schiera dei favorevoli alla traduzione fosse di gran lunga la più numerosa (dato che di traduzione si doveva parlare), non mancò chi tagliasse la testa al toro e si dichiarasse concettualmente contrario. Guadagnandosi così a buon mercato il gettone di presenza.
Tutti, credo, sono convinti in via di principio che l’opera data in lingua originale sia preferibile: ma quando la lingua originale è anche quella del pubblico che assiste alla rappresentazione, e che dunque la capisce (far finta di capire quando in realtà non si capisce un’acca di quel che succede è un atteggiamento snobistico oggi frequente, ma facilmente smascherabile). Sta però di fatto che l’opera si è sempre tradotta, con il consenso dei compositori stessi, in ogni epoca (cosa che il convegno, dati alla mano, ha ampiamente dimostrato: ed era il suo primo compito). Si trattava dunque di stabilire che cosa si perda e che cosa si guadagni quando si traduce; e soprattutto come ci si debba regolare nella prassi della traduzione.
Sul primo punto mi pare che non ci siano dubbi: si perde l’integrità del rapporto originario fra parola e musica, così come il compositore l’ha concepito , e si guadagna una partecipazione diretta e viva all’atto dell’esecuzione. Giustamente è stato osservato che ogni esecuzione o interpretazione costituisce un caso sempre diverso di “”traduzione”” di cui la traduzione del testo è un momento esplicativo, che ha il compito di restituire, in ogni circostanza, alla parola la sua funzione, quella cioè di significare qualcosa nel canto, per essere poi completata dalla musica. Se manca questo aggancio, vien meno anche la comprensibilità del tutto, di cui la parola cantata a parte. Dunque anche della musica, del dramma, eccetera.
Si giunge così al punto centrale della questione: come si deve tradurre la parola can-tata, in modo da ridurre al minimo l’alterazione di quel rapporto originario e far sì che ciò che si guadagna sia infinitamente più importante, all’atto pratico, di ciò che inevitabilmente si perde?
Mi pare che dal convegno siano emerse due tesi, peraltro escludentesi a vicenda: quella del principe dei traduttori nostri, Fedele D’Amico, che dà prima di tutto valore al significato della parola e della frase in rapporto al segno musicale, puntando sulla sua cantabilità, e quella di Lorenzo Arruga, che connette la traduzione a un momento di interpretazione anche libera del testo nell’ambito della concretezza della realizzazione teatrale. Per l’uno il lavoro avviene principalmente a tavolino o al pianoforte (anche se poi D’Amico segue personalmente il destino delle sue traduzioni in teatro, e cambia quando c’è da cambiare); per l’altro è decisivo pensare ogni traduzione nel contesto di quel determinato spettacolo, per quei cantanti, in quella regia (e difatti ci ha dato a Ravenna un Flauto magico memorabile proprio in quanto progetto globale di opera tradotta). Entrambi, e noi con loro, concordano su due corollari fondamentali: ogni autore, ogni opera, costituiscono un caso a sé e determinano la scelta della prassi e dello stile della traduzione: essenziale perché una traduzione abbia efficacia è la cura della dizione, ossia il lavoro dei e sui cantanti affinché le parole siano pronunciate distintamente e comprensibilmente (cosa che la relazione di Rodolfo Celletti, e un pò anche l’esperienza, dimostrano di assai rara e difficile attuazione).
Tutti d’accordo, quindi? C’è un aspetto del problema, toccato solo marginalmente dal convegno, sul quale vale la pena di riflettere. Ed è il modo in cui noi oggi ci accostiamo all’opera, nell’epoca del disco, del-la televisione e del cinema. A rischio di finire incenerito dai fulmini di D’Amico, credo che il pubblico che frequenta l’opera – e dico il repertorio, dato che l’opera contemporanea ha da tempo cessato di esistere almeno come fenomeno generale – non senta più l’esigenza di un’immediatezza legata alla nuda e cruda comprensione delle parole. Quando i compositori si battevano perché le loro opere venissero tradotte (e persino Wagner lo faceva), si preoccupavano anzitutto dell’impatto con un pubblico che non le conosceva che doveva essere aiutato ex-novo a capire le parole per arrivare alla musica. Questo fattore di attualità e di novità si è del tutto perduto da quando l’opera è diventata repertorio, e repertorio di un passato più o meno remoto, a cui ci accostiamo con passione ma con la stessa sensazione che proviamo quando entriamo in un museo: che cioè quelle opere d’arte parlino non solo parole di un’altra lingua rispetto alla nostra, ma anche un altro linguaggio, che con amore e partecipazione dobbiamo sforzarci di imparare. E per impare un linguaggio non basta capirne le parole. Si obietterà che il teatro non è un museo: lo è invece, e nel senso più alto, da quando l’opera non è più espressione della contemporaneità, ma di un passato che solo il nostro interesse rende ogni volta di nuovo presente. E’ su questo equivoco che si basa l’efferata mania di voler rendere l’opera “”attuale”” a tutti i costi, da parte di certi registi, sforzandola ad essere quello che non è.
Di fronte a questi cambiamenti, di ben altra portata, è essenziale continuare a tradurre le opere del passato? Certo che sì. A patto però di ammettere che l’esistenza dell’opera lirica non è dipendente da quest’ordine tassativo. Men che mai oggi, in presenza di mediazioni che condizionano comunque
l’ascolto di un’opera anche a teatro: dato che sono insite nella realtà oggettiva del nostro tempo, in ciò che i dotti chiamano “”recezione””. Paradossalmente, Mario Bortolotto giunse a sostenere che a teatro dovrebbe essere ammesso solo chi dimostrasse di essersi preparato per benino, anche sulla conoscenza del libretto, in lingua originale, s’intende (e magari anche quando l’opera è italiana; perché quante parole si capiscono veramente nel canto?): in fondo è ciò che già accade per la maggior parte degli ascoltatori. I quali, allora, sforzo per sforzo, hanno anche tutto il diritto di sentirsi le opere dal vivo in lingua originale. E di arrangiarsi da sé, se lo vogliono.
Ma, ripeto, il convegno verteva sulla “”traduzione della parola cantata”” e non ammetteva, almeno nelle intenzioni, petizioni di principio. Solo che quando, nell’ultima seduta, si venne a discutere dei sopratitoli (innovazione che il teatro fiorentino ha introdotto stabilmente in alternativa alla traduzione, e che consiste nella proiezione simultanea di didascalie con la traduzione sinteica del libretto, mentre l’opera è eseguita in ingua originale), la bagarre si scatenò con tale violenza da sembrar riguardare davvero il principio del bene e del male. In qualità di curatore dei sopratitoli per il Teatro Comunale (lavoro che svolgo come prestatore d’opera professionale, senza averne sposato la causa), ritengo che i sopratitoli siano uno strumento utile per seguire una rappresentazione nella stessa misura in cui lo sono una scheda illustrativa o guida in un museo: fanno cioè parte di quelle mediazioni di cui un “”fruitore”” (ammesso che voglia fruire) può servirsi se e come crede. Sono convinto che lo spettatore di oggi non venga disturbato, proprio per l’abitudine in lui connaturata a usare le sue facoltà visive in associazione ad altre facoltà, da questo mezzo: di cui, oltretutto, può disporre a suo piacimento, come semplice richiamo – diciamo promemoria – di ciò che vede e ascolta. O non curarsene affatto. Se è davvero così importante capire le parole, però, i sopratitoli aiutano anche più della traduzione della parola cantata. Giacchè, se l’opera è finita, le vie alla sua comprensione sono infinite.
L’enorme successo riscosso dai sopratitoli, presso un pubblico che da anni frequenta il teatro o che da poco, con molte riserve, vi si è accostato, mi conferma nell’idea che la sopravvivenza dell’opera lirica sia legata, assai più che a effimere mode divistiche e registiche, alla comprensione dei suoi valori eterni, mediati dalla capacità di riviverli, con sensibilità e consapevolezza, nelle condizioni della nostra cultura, coi mezzi della nostra epoca. Perciò curiamo i nostri musei, i nostri teatri, e rendiamoli degni dei tesori che contengono, con spirito di fedeltà. Senza disprezzare quei mezzi moderni che ne accrescono la funzionalità, e che forse possono aiutare a conservarceli.
A proposito dei sopratitioli, fedele D’Amico ha scritto e detto, ripetutamente, che sono una ignobile americanata. Mi sembra eccessivo. Ma, si sa, quando i conti non tornano, la colpa è sempre degli americani.
Opera Oggi, n. 6, marzo-aprile 1988