Di quel personaggio singolare che fu Charles Ives, eccentrico compositore del tempo libero e rigorosissimo sperimentatore della Nuova Musica, si continua ad avere da noi un’idea tutto sommato vaga: piena di rispetto e perfino di ammirazione, ma appunto vaga. E’ probabile che le musiche oggi in programma, non tra quelle di più frequente esecuzione, finiscano per confermare l’impressione di un talento speciale, ma difficilmente comprensibile nelle sue espressioni idiomatiche: legate come sono a un mondo transoceanico a noi lontano, e forse anche lontano da se stesso. “”Charles Ives””, scrive il massimo studioso italiano della sua figura, Gianfranco Vinay (ma piace aggiungere che a una fiorentina d’adozione, Aloma Bardi, si deve la meritevole traduzione dei suoi pirotecnici scritti Prima della sonata), “”incarnava tutte le virtù della Old America rurale, pionieristica e puritana, coniugate con quelle della New America metropolitana e affaristica””: insomma, una contraddizione vivente, un esplosivo miscuglio di innovazione e di conservazione, di fedeltà e di evasione. Un sogno americano, ma di segno utopico, cui sembra rimanere estraneo l’elemento doppiamente unificante del cosmopolitismo e del realismo.
Three Places in New England (“”Tre luoghi della Nuova Inghilterra””) sono rievocazioni musicali, tra il ricordo del passato e l’esperienza del presente, di luoghi del natio New England cari a Ives per il loro significato affettivo e simbolico: paesaggi della memoria, storica e personale, intessuti da una fitta rete di citazioni e di associazioni non solo musicali. Poco o nulla essi dicono a noi. Ma il modo in cui Ives li raffigura travalica il riferimento contingente e diviene ricreazione di un mondo, poetico e sonoro, mitico e insieme reso percepibile nella idealità del vagheggiamento.
Il primo brano, intitolato The “”St. Gaudens”” in Boston Common (Col. Shaw and his Colored Regiment), composto negli anni 1911-1912, si rifà al monumento del colonnello Shaw e al reggimento di negri da lui guidato durante la guerra civile americana: ricordi evidentemente appresi dai libri di scuola e trasfigurati dall’immaginazione si mescolano con motivi musicali e canti patriottici calati in un’atmosfera visionaria, a tratti distorta. Intensi contrappunti si intrecciano con ritmi lentissimi e ostinati, suoni lividi nel registro acuto si rispecchiano in placide oasi liriche, appelli realistici di strumenti bellici (ottoni rinforzati contro i legni diafani, tamburo militare) si alternano a misteriose apparizioni di timbri estranei, di matrice colta (pianoforte, organo). L’epico e il solenne sono al tempo stesso celebrati e contraddetti in una pagina che rivive il passato con commozione, ma anche con accenti di lucida modernità.
Anche il secondo brano, Putnam’s Camp, Redding, Connecticut, composto nel 1912, si ispira a un luogo della storia patria americana: esso infatti trae spunto dal parco di Putnam, dedicato alla memoria del generale Israele Putnam e situato nel luogo dove questi tenne quartiere al tempo della rivoluzione americana. Questo brano, di carattere spigliato e quasi estroverso, è però più carico di reminiscenze anche personali. La rivoluzione americana viene evocata dalla marcia militare The British Granadiers che la commemora, mentre i motivi della banda paesana e della danza campestre che esplodono in caotiche sovrapposizioni si riferiscono ai ricordi infantili delle sfilate festose e delle esibizioni della banda di cui il padre di Ives era l’animatore instancabile a Danbury nel Connecticut.
Nel terzo e ultimo brano, intitolato The Housatonic at Stockbridge, composto a più riprese tra il 1903 e il 1914, il ricordo si fa ancora più privato, fino a sovrapporsi con il luogo a cui si lega. Ives ripensa a una passeggiata fatta in compagnia della moglie lungo le rive del fiume Housatonic e, rivivendola, la colora di echi e suggestioni tanto intime quanto delicate, traducendole in un clima di leggerezza e di impalpabilità quasi impressionista. Al punto che questa pagina perde ogni connotato concreto e diviene ripensamento di un paesaggio dell’anima, astratto e universale.
I Three Places in New England configurano una sinfonia di emozioni e di immagini, di invenzioni e di citazioni, in senso dunque non solo formale: e in questa prospettiva globale va inteso il titolo generale A New England Symphony, “”Sinfonia della Nuova Inghilterra””, con cui sono anche indicati. Diretti per la prima volta da Nicolas Slonimsky il 15 febbraio 1930 a New York davanti al comitato americano dell’International Society for Contemporary Music, essi consacrarono un mito, mentre erano soltanto un sogno.
Béla Bartók
Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra
Allegretto – Adagio religioso – Allegro vivace
“”La serena pacatezza della contemplazione””
Bartók compose il suo Terzo Concerto per pianoforte e orchestra durante l’estate del 1945. A quel tempo era già gravemente malato e non poté completare la partitura. Le ultime diciassette misure furono ricostruite e orchestrate dal suo amico e allievo Tibor Serly, che rivide anche alcuni dettagli di scrittura, come pure le indicazioni di tempo e di metronomo, che mancavano del tutto per il terzo movimento. A quelli di Serly si aggiunsero alcuni ritocchi di Eugene Ormandy, direttore della prima esecuzione avvenuta l’8 febbraio 1946 a Filadelfia, con György Sándor al pianoforte. L’edizione della partitura, pubblicata nel 1947 da Boosey & Hawkes, dà conto con estrema cura e precisione di questi interventi. L’opera, a conti fatti, può dirsi pressoché compiuta dall’autore.
Il Terzo Concerto è, nei suoi lineamenti stilistici, un’opera tipica della tarda maniera di Bartók. Una semplice chiarezza strutturale e perfino tonale caratterizza questo lavoro. Esso si differenzia decisamente dai due Concerti per pianoforte che lo avevano preceduto, del 1926 e del 1930-31, scritti per così dire dal Bartók compositore in funzione dell’affermazione del Bartók pianista: in essi infatti lo strumento solista, con la sua scrittura martellata e aggressiva, si contrapponeva alla potente e compatta massa orchestrale in una sfida drammatica, quasi eroica. Qui ogni residuo di sfida e di competizione è concettualmente e idealmente superato: pur non escludendo contrasti, il Concerto mira alla collaborazione armoniosa, alla distillazione dei conflitti, alla serena pacatezza della contemplazione, alla raffinata concertazione. In questo tipo di pianismo più differenziato e controllato non è ininfluente il pensiero alla destinataria del Concerto, la moglie di Bartók Ditta Pásztory.
Il primo movimento, Allegretto, è in forma sonata ed è animato, in una singolare ampiezza di tratto, da una grandiosa melodia strumentale di carattere espressamente ungherese esposta prima dal pianoforte e poi ripresa dall’orchestra. Il pianoforte canta, propone, incalza, e l’orchestra raccoglie, integra e sviluppa le idee del solista. L’organicità percorre l’intero movimento e i suoi contenuti con un senso quasi classico, mozartiano, delle proporzioni.
Cuore del Concerto è l’Adagio religioso centrale, nel quale può essere visto un riferimento ispirato al Heiliger Dankgesang (“”preghiera di ringraziamento””) del Quartetto per archi op. 132 di Beethoven. Due assorte sezioni esterne, imperniate su figure di stampo polifonico e su una melodia corale del pianoforte, racchiudono un vasto episodio atematico percorso da fremiti metafisici, timbricamente esemplare dell’atmosfera angosciosa di tante “”musiche della notte”” bartókiane. L’estrema rarefazione e concentrazione della materia sembrano quasi valori a sé stanti, ma non escludono interpretazioni più suggestive o programmatiche, spirituali o laiche, come quella di Massimo Mila nel suo libro einaudiano su Bartók: “”Tale il senso della religiosità a cui è fatto esplicito riferimento nell’indicazione del secondo tempo: una depurazione dei grumi troppo spessi della materia vitale, una risoluzione dei nodi tumultuosi in cui s’aggrappa la turbolenza dell’uomo sospinto dalla pienezza delle sue energie, un posare stanco dall’affanno del vivere, che se non è proprio assoluta certezza di pace futura, è almeno distacco, acquisita convinzione della vanità di tanto gioire, soffrire, sperare, lottare””.
Questo distacco si oggettiva aggiungendo anche un risvolto ironico nel brillante Allegro vivace conclusivo, che il pianoforte attacca con gesto perentorio subito dopo l’Adagio: un rondò del tutto tradizionale, giocato sull’alternanza del ritornello asimmetrico, sincopato, ritmicamente incisivo, con due episodi di carattere fugato, fagocitati e rielaborati con piglio virtuosistico dal solista.