Sul podio dei Münchner dopo la malora
Qualsiasi tentazione d’enfasi sulla personalità di Celibidache — acribia sul repertorio, fedeltà a un’unica orchestra, da tempo peraltro plasmata a sua immagine e somiglianza, rifiuto del consumismo discografico e dell’immane ne del divo — cade nel momento in cui egli si accosta alla musica. Non che Celibidache sia sempre facile da seguire nelle sue ragioni musicali, anzi; ma non v’è scelta esecutiva che non parta da riflessioni tecniche ed estetiche profonde, e che soprattutto non le renda immediatamente percepibili all’ascolto. Esecuzioni come quelle da lui donate della Quarta Sinfonia di Beethoven e del Concerto per orchestra di Bartòk sbagliavano il campo dei possibili desideri non tanto per la speciale originalità di certi stacchi di tempo o per l’ancor più strabiliante varietà delle sfumature dinamiche ottenute dai Münchner, quanto poi il senso di calma grandezza che da esse promanava: una grandezza che si vorrebbe infine definire morale. Dove anche la caratteristica più spesso rimarcata dell’arte di Celibidache, la larghezza dei tempi, si configurava come un modo di ascoltare risonanze e sviluppi della musica in tutta la loro ampiezza, nei rapporti organici di tensione e distensione che ne governano i temi. Se da tutto ciò una massima teorica dobbiamo trarre, è quella di tornare ad ascoltare la musica con devozione nella profondità interiore dello spirito. Celibidache ci insegna a cercare nell’anima della musica ciò che lui ha già trovato, da sempre: la luce di un’esperienza esplosiva.
da “”La Voce””