I fatti dell’estate. Mica facile ripercorrerli in uno sguardo d’assieme. Gli incontri casuali, o professionali, o viceversa attesi e desiderati, assumono in questo periodo una fisionomia e un significato diversi, piú incalzanti da un lato, meno fedeli dall’altro. Si vive e si ascolta d’estate decantando le impressioni di tutta una stagione, cercando conferme, provando delusioni e fastidi: ma con piú calma, forse anche con meno intensità e coinvolgimento. Tanta musica all’aperto, o in luoghi di fortuna, talvolta bellissimi, talaltra irrimediabilmente brutti, ma sempre comunque un po’ provvisori, e dispersivi nei confronti di ciò che si ascolta. Anche questo è un segno della diversità.
Di quest’estate ricorderò prima di tutto la bella esperienza della Muta di Portici di Auber al Festival di Ravenna: un’opera che si porta dietro molte citazioni nei libri di storia della musica, ma che è soprattutto un formidabile compendio di stili teatrali e musicali che l’Ottocento, nella sua tendenza al realismo, finì per emarginare e sottovalutare. Il legame della nostra coscienza operistica con questi prodotti di un’età di mezzo, splendidamente matura ma senza futuro, si è così irrimediabilmente interrotto. Eppure nella Muta di Portici è possibile ritrovare intatta la magia di tutto ciò che forse solo inconsciamente noi attribuiamo al mondo dell’opera in una sorta di immaginario collettivo stratificato dal tempo: lo spettacolo composito nei suoi elementi profondi e superficiali, la sfida della vocalità come mezzo di espressione non comune, l’intreccio di sentimenti e di ideali sul duplice piano della storia e delle passioni individuali. Nella Rocca Brancaleone tutti questi aspetti di un’opera e di un mondo affettuosamente complici riemergono da sensazioni che sentivamo familiari, perché appartenevano alle ragioni stesse delle nostre debolezze e del nostro amore per il melodramma.
A Bolzano i ragazzi del Conservatorio “”Monteverdi”” e il loro insegnante di esercitazioni orchestrali, Fabio Neri, hanno messo su con un impegno a dir poco sorprendente (sorprendente anche nei risultati) un’opera buffa di Cimarosa appena riscoperta in un fondo locale, Amor rende sagace, da cui sarebbero poi nate a Napoli Le astuzie femminili. Enzo Dara vi ha cantato la parte principale con la consueta maestria (il ruolo del vecchio con pretese erotiche regolarmente ridimensionate dai giovani amorosi è suo come di nessun altro) e ha galvanizzato la regia con trovate del consueto armamentario buffo, qui non fuori posto. Il fatto andava segnalato non solo per il contributo musicologico, ma anche per la dimostrazione che l’opera vive ancora nell’entusiasmo dei veterani e dei giovani, con pari intensità.
A Siena si è tornati a respirare l’atmosfera di iniziative importanti, come era nella tradizione della Settimana abbinata ai corsi di perfeziona-mento della Chigiana. Ma sul Ritorno di Ulisse in patria che ha inaugurato il Festival si dovrà tornare a parlare, magari partendo proprio da certi nodi cruciali messi in luce qui dallo spettacolo (una regia molto fertile di proposte e di problemi realizzata da Luciano Alberti) e dalla esecuzione musicale (la scelta filologica e discutibile di Alan Curtis). La valorizzazione di Monteverdi è uno dei compiti, tutt’altro che facili, da cui siamo attesi a breve scadenza. Meglio tardi che mai.
Monaco ha ravvivato il solito, sontuoso banchetto del repertorio tradizionale per il quale mena un giusto vanto con due prime assolute, Ubu Rex di Penderecki ed Enrico di Manfred Trojahn. Si continua ad attingere i soggetti delle nuove opere da testi teatrali che hanno una loro autonomia e una loro storia (Jarry e Pirandello), quasi fingendo di non accorgersene. E puntualmente l’opera diviene un apparato di supporti spettacolari estrinseci alla musica, che si limita a fare da sfondo e da riempimento. Oltretutto, con un gusto non sempre fine. Ma ciò basta perché il pubblico trovi un appiglio purchessia e non si senta disorientato. E invece bisognerebbe riconoscere che brancoliamo nel buio piú completo sul tema dell’opera contemporanea. E sulla musica d’oggi piú in generale: riascoltare a Ferrara, per Aterforum, un rapido ripassoella produzione di Cage mi ha generato impressioni contrastanti, nostalgia per un momento in cui i fermenti di idee erano ancora capaci di stimolare la crescita della ricerca e irritazione per la vacuità dei risultati operativi, lavoro dopo lavoro, tentativo dopo tentativo.
E invece la esaltante emozione di un concerto di Pollini a Lugano, dove l’idea che esista un modo sempre di nuovo vivo, moderno e attuale, di comunicare la musica, anche quella del passato, s’imponeva con l’evidenza dell’assoluto. Un concerto di Pollini non è forse un fatto da segnalare, se non per una ragione essenziale: Pollini rimane un modello ineguagliato di tensione morale e interpretativa, un vertice luminoso che indica ciò che vorremmo fosse sempre il nostro rapporto con la musica. Pollini con la testa non va mai in vacanza, neppure d’estate. E ciò spiega forse perché sia così difficile staccarsi dalla musica, in qualunque stagione.
Musica Viva, n.10 – anno XV