Carl Loewe – 14 Ballate

C

Carl Loewe e la Ballata romantica

 

La Ballata tedesca dell’età del Romanticismo si distingue sia dal semplice Gesang per voce e pianoforte che dal Lied propriamente detto, genere cui fondamentalmente pur appartiene, per ragioni poetico-letterarie e psicologico-espressive prima che specificamente musicali. A differenza del Lied – nel quale il compositore esprime se stesso soggettivamente e liricamente in una forma poetico-musicale concentrata e di piccole dimensioni mirante a descrivere, contemplare o interpretare universalmente la qualità psichica di uno stato d’animo, di una suggestione o di un’immagine -, la Ballata è un racconto epico-drammatico e fantastico per lo più ispirato a leggende medioevali o a lontane vicende storiche, intriso sovente di cupi, fatalistici e perfino macabri accenti, nel quale il compositore per così dire fa da tramite fra il poeta e l’ascoltatore rimanendo, come soggetto, sullo sfondo: in altri termini, narrando più che sentendo in prima persona. (Di qui, per differenziare, la determinazione della Ballata come «Lied narrativo» all’interno del Lied vero e proprio).

Se all’inizio la Ballata romantica appare una specie particolare del genere liederistico, tanto che Schubert può dare il titolo di Lied a composizioni come Erlkönig (1815) e Der Tod und das Mädchen (1817) che sono in realtà Ballate – e così facendo denuncia chiaramente l’intenzione di elevare il Lied, in quanto forma musicale, a forma d’arte autonoma, in sé compiuta, emancipata esteticamente -, col tempo essa acquista un proprio ruolo specifico come tipo poetico-musicale, senza tuttavia diventare un genere a sé stante; e nel momento stesso in cui se ne definiscono i compiti e i confini, la Ballata esce dal suo ambito particolare – una sottospecie del Lied per canto e piano-forte – per assumere nuove, più ricche vesti, non soltanto nel campo sinfonico-vocale, dove si mostra doverosamente ampliata nonché incisivamente drammatizzata, ma anche in quello prettamente strumentale e segnatamente pianistico da un lato, in quello teatrale e operistico dall’altro: come confermano là Chopin, Liszt e Brahms, per non citare che alcuni esempi, qui Weber, Wagner e perfino gli italiani, i francesi e i russi. Di modo che la Ballata esce così e si afferma anche fuor di Germania.

Che Wagner potesse senza alcuna difficoltà di ordine drammaturgico e formale-musicale fare di una Ballata, quella di Senta, il nucleo centrale e originario di un’opera che è anche il prototipo dell’opera romantica tedesca della metà dell’Ottocento – Der fliegende Holländer (1843) -, al punto che la Ballata di Senta si estende a tutta l’opera racchiudendone il senso e la forma («In questo pezzo depositai inconsciamente il germe tematico di tutta la musica dell’opera […] Quando mi misi infine alla stesura del lavoro, la figura tematica che avevo concepito si estese spontaneamente, quale trama completa, all’intero dramma»), aiuta a comprendere, indirettamente, parecchie cose. Anzitutto il tipo della Ballata poteva essere assunto come materia di un atteggiamento fondamentalmente romantico, tale da connotare l’essenza stessa di un’opera romantica quale l’intendeva Wagner: e ciò per l’intreccio inestricabile di spirito popolare, fascino nordico, dramma del mistero, senso del destino incombente, brama dell’infinito, anelito alla redenzione, e così via. In secondo luogo la Ballata, pur rimanendo identicamente se stessa (e così Senta ce la propone alla metà esatta dell’opera), era in grado di generare l’architettura di un intero lavoro teatrale, come suo centro, senza però soffocare gli sviluppi che da quel centro si diramano in molteplici direzioni, toccando situazioni e stati d’animo diversissimi. Ed è ovvio che ciò non si sarebbe potuto verificare se la Ballata non avesse rappresentato un tipo consolidato e riconoscibile nella sua forma e nel suo significato poetico-musicale; ma neppure se fosse stata un genere autonomo e autosufficiente, come per esempio il Lied vero e proprio: ed infatti l’inserzione di Lieder nell’opera – persino in Weber, che fu l’ultimo a tentare l’innesto non artificialmente – rimane un’aggiunta esterna, che dà lustro all’azione ma non ne fa parte, ponendosi programmaticamente al di fuori di essa come sua sospensione o deviazione.

Lo stesso, in tutt’altro ambito, accade con Chopin, il creatore della Ballata pianistica, che erratamente è stata definita una filiazione particolare del Lied ohne Worte (Romanza senza parole) mendelssohniano e schumanniano. Le quattro Ballate composte da Chopin fra il 1831 e il 1842 debbono il loro titolo e il loro significato formale-espressivo non, come banalmente si potrebbe credere, al fatto che furono ispirate da componimenti letterari del poeta e patriota polacco Adam Mickiewicz, bensì a quello che trasfondono il carattere di narrazione drammatica – una narrazione drammatica che assume via via sensi diversi, ora dolorosi, ora idillici, ora estatici, ora addirittura epici e patriottici – dal campo della vocalità – il cui filo sotterraneo d’altronde permane anche in assenza delle parole – a quello del linguaggio strumentale e cioè pianistico. Chopin non ha bisogno di mantenere lo schema rigidamente strofico e cadenzante della Ballata con i suoi riferimenti descrittivi – come invece farà Liszt nelle Ballate in re bemolle maggiore e in si minore composte fra il 1849 e il 1854, seppur irrobustendole di sfoghi lirici e di preziosismi armonici — per giustificare il contenuto dei suoi lavori: quel che conta è mantenere, della Ballata, il tono, il tratto caratteristico, attingendolo direttamente al tipo poetico-musicale ed estendendolo alla «pura» effusione del pianoforte, priva di parole ma a suo modo eloquente. Ed è proprio questo tono, a quanto pare, più che la forma o il soggetto descritto e narrato, a costituire l’essenza della Ballata, tanto da rendere l’invenzione musicale subito percepibile e attiva. (Diverso, per concludere questo breve excursus sulla storia della Ballata nell’Ottocento, una storia dai risvolti tanto molteplici quanto riconducibili a un modello unico – fatto quasi senza uguali nelle vicende delle forme musicali -, è il caso delle quattro Ballate op. 10 (1854) di Brahms e della Ballata op. 118 n. 3, che pur sta in un contesto tutto particolare: giacché per quanto Brahms si ispiri alla vecchia ballata scozzese Edward ripresa e tradotta da Herder – quasi un prototipo del genere, musicata anche da Loewe, Schubert e perfino Ciaikovski – il rapporto del musicista con la forma della Ballata sembra mediato dall’esempio chopiniano e tende semmai a recuperare, nella trasposizione strumentale, un senso classico, leggendario e trasfigurato, di dolente intimità e di malinconica illustrazione lirico-musicale).

Quasi paradossalmente, quindi, è al di fuori della sua forma originaria – composizione per canto e pianoforte appartenente come sottospecie al genere liederistico – che la Ballata estende la sua influenza nella storia dell’Ottocento: al punto che la formula «tono di ballata» (Balladenton), quel tono che Hugo Wolf strazierà e alienerà nei rituali terribili delle sue «danze della morte», riapparirà sovente anche in composizioni che ad essa formalmente non appartengono, per esempio di Mahler, Berg e Schönberg. Ed è questo tono, non uno schema formale specificamente musicale, a caratterizzare l’individualità della Ballata come tratto poetico-espressivo che, per la sua stessa configurazione, determina e condiziona il rivestimento musicale.

 

Dal punto di vista della composizione musicale, nella Ballata per canto e pianoforte dell’età del Romanticismo un elemento melodico unitario accompagna le strofe del testo, ripetendosi o variando in corrispondenza delle mutazioni dei versi: il tono discorsivo che le è proprio in quanto narrazione drammatica (fatta in terza persona, non in prima, benché si alternino racconto e dialogo) si configura come aderenza al testo passo dopo passo, ed è di carattere rappresentativo, non lirico o contemplativo come avviene nella contemporanea e affine Romanze; ciononostante, proprio perché segue il testo nella sua evidenza illustrativa e semantica, facendo del pianoforte un mezzo indicativo, illustrativo, quando non chiaramente onomatopeico, la Ballata assume una cadenza speciale, un andamento inconfondibile metrico e musicale che ha radici nello spirito popolare ed espressione in significazioni letterarie; inoltre, se non trattiene ormai più nulla dell’originario accento di danza, sembra evocare sensazioni immutabili, lontane nel tempo eppure immediatamente riconoscibili, quasi note ab aeterno: appunto un «tono di ballata» che, a poco a poco, si impadronisce dell’ascoltatore e gli offre un solido supporto d’ascolto. (Il fatto che Schubert tenda a fare delle sue Ballate dei Lieder, e talvolta dei suoi Lieder delle Ballate, non cambia nulla alla sostanza del problema e riguarda semmai la posizione individuale di Schubert; già Schumann, che vive in un’epoca di minor libertà e di maggiori condizionamenti formali, starà attentissimo a non confondere i due terreni).

Formalmente la Ballata oscilla dunque tra la forma strofica modificata e variata e la forma durchkomponiert, ossia musicata per disteso, ma il suo tono differisce da entrambi questi tipi fondamentali di Lied: e proprio nel modo di aderire a questa differenziazione strutturale si costruirà la strada per il suo compiuto riconoscimento. Rispetto al Lied vero e proprio, essa non ha né la solidità musicale della forma strofica, nella quale l’intonazione melodica del testo e le figure dell’accompagnamento pianistico si sovrappongono alla poesia e la trascendono in una concentrazione di natura prettamente musicale e soggettiva, né le sottigliezze sfumate della forma durchkomponiert, che, operando per così dire tutto all’interno del testo, fanno sì che la struttura e i suoi valori vengano modificati e messi in relazione per mezzo della musica (e ciò si deve in primo luogo alle ardite intuizioni di Schubert). La Ballata si pone a mezza strada, accogliendo sollecitazioni extra-musicali e forme opposte come il recitativo e l’arioso, il declamato e perfino lo Sprechgesang, stilemi operistici alla moda ed elementi propri del Singspiel, per trovarsi poi a suo agio nelle grandi dimensioni della cantata e dell’oratorio profano (come nella mendelssohniana Die erste Walpurgisnacht, 1841). Decisiva per essa è la forma poetica e in seconda istanza il suo contenuto, latore del «tono». Ed è a questo proposito determinante che, prima ancora che come forma musicale, la Ballata si fosse stabilizzata ed emancipata con segno inconfondibile in componimenti poetici puri sgorgati nel lungo corso del Romanticismo tedesco, con Herder, Schiller e Goethe, fino a Theodor Fontane, dopo aver trovato, elevatasi a genere questa forma poetica, il teorico in Ludwig Uhland: il codificatore della Ballata tedesca dell’età del Romanticismo, grazie al quale essa assume tutti interi i suoi caratteri distintivi. Questa splendida fioritura a cavallo dei due secoli, e oltre, segna uno spartiacque nella storia della Ballata e dà vita a una seconda, più matura stagione, quella della Ballata come forma poetico-musicale della piena età romantica.

Per quanto sotto il profilo letterario possa lontanamente ricollegarsi alla Ballad inglese, di tipo popolare e colto, operistica e non, la Ballata moderna aveva attecchito in suolo germanico già nella seconda metà del Settecento, modificando il suo aspetto tradizionale e ampliando i suoi orizzonti. È qui infatti che si tenta su nuove basi e con aspirazioni grandiose quella intima unione di poesia e musica da cui sarebbe nato il Lied, ma che intanto avrebbe dato spazio alla Ballata trovando in Johann Rudolf Zumsteeg (1760-1802) il primo entusiasta cultore. Energico dinamismo, pathos vibrante, impulso drammatico, pittura d’ambiente e tendenze popolaresche sono i connotati della Ballata di Zumsteeg, che senza dubbio influenzò i compositori venuti dopo di lui: egli offrì loro, per così dire, il materiale grezzo, il vocabolario, i colori, i fondamenti di una tecnica pianistica stilizzata ma efficacemente rappresentativa; quel che invece manca in Zumsteeg è proprio il tono di ballata, quell’inconfondibile cadenza che sarà la cifra della Ballata ottocentesca.

Decisiva per i poeti tedeschi dello Sturm und Drang – Herder, Bürger e Schiller in testa – fu la conoscenza della raccolta di antiche Ballate popolari inglesi Reliquies of Ancient Poetry, pubblicata nel 1765 da Thomas Percy. Questo slancio iniziale, trasceso verso nuove aspirazioni il cui ambito si estendeva ora anche a regioni specificamente letterarie, fece sì che la Ballata costituisse una delle più individuate espressioni di una sensibilità e di un atteggiamento lirico-narrativo che, coagulatosi artisticamente in Germania, interessò quasi tutta l’Europa e si diffuse dal genere poetico a quelli teatrale e romanzesco, fino a toccare la sfera dell’estetica e della filosofia. Al genere poetico specifico vengono dati i contenuti che, ancor più definiti, verso la fine del secolo acquisteranno spirito e carattere costanti e contribuiranno ad arricchire indirizzi e programmi del romanticismo letterario in generale: persino in luoghi periferici come l’Italia, dove Giovanni Berchet immagina la Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – uno dei manifesti del romanticismo italiano – come commento alle sue traduzioni di due Ballate di Bürger (1816).

Ma è soltanto con i grandi poeti del Romanticismo tedesco che la Ballata fisserà questi contenuti, ulteriormente fioriti e differenziati, in una forma poetica di solida invididualità stilistica e di compiuta organicità. Se il carattere è dato dai contenuti – soggetti fantastici e misteriosi, solenni e tragici, popolari e letterari, nei quali il destino, con senso continuamente simbolico e metaforico, incombe e incalza, consentendo però al poeta di mantenere quell’obiettività e quel sereno distacco conferiti da eventi e situazioni che accadono in altri tempi e spazi, lontani dal presente – è la forma poetica, la sua nobile semplicità e il suo stile elevato, a innalzare il rango del genere prediletto, specchio dei tempi. Un genere che, in piena temperie romantica, parrà quanto mai adatto alla musica, e anzi ad essa predestinato. L’alta qualità letteraria raggiunta dalla Ballata, l’invariabilità del suo schema di base, più che un deterrente per la musica, rappresenteranno una possibilità unica e splendida di animare e far vibrare coi suoni quei racconti estremamente ricchi di spunti, allusioni e significati attuali. E la fantasia accesa e partecipe del musicista romantico troverà una forma letterariamente elevata e una stabilità di accenti che, col concorso della musica, diverranno tono. Il tono della Ballata, appunto.

Il sassone Johann Cari Gottfried Loewe (1796-1869), che non è certo uno dei massimi compositori dell’Ottocento ma neppure uno dei minori o addirittura dei minimi, è considerato dagli storici della musica il «classico» maestro della Ballata. Questa definizione non nasce, come si crede, da astratte classificazioni di termine o di genere e neppure dalla semplice constatazione che nella produzione di Loewe la Ballata occupa un posto di assoluto rilievo sul piano della quantità: 368 ballate per canto e pianoforte e 17 oratori in stile di ballata, oltre a numerosi altri pezzi ad essa riconducibili. Piuttosto, essa deve il suo motivo a due elementi convergenti e complementari. Anzitutto Loewe, per formazione, cultura e personalità artistica, trova nella Ballata un’affinità e una congenialità tali da esserne perfettamente configurato e conformato, sì da scoprire se stesso nella fusione totale di intenzioni espressive e di mezzi adatti a realizzarle individualmente; in secondo luogo e di conseguenza, la Ballata come tipo poetico-musicale raggiunge il suo equilibrio e la sua completa stabilità attraverso l’opera di Loewe, che non soltanto ne fissa i confini e le regole ma anche ne condiziona la diffusione e la ricezione. Se alla parola “classico” non diamo soltanto un significato storico ma anche uno di carattere estetico – e in questo senso la storiografia ottocentesc intendeva il concetto, come modello giunto a perfezione o al meno ad autonomia e compiutezza artistica – la definizione d Loewe come «classico» maestro della Ballata – benché egli sii un romantico – apparirà del tutto adeguata. Loewe è il maestro classico della Ballata nella misura in cui la Ballata conquista con lui e grazie a lui dimensioni e proporzioni classiche, destinate a porsi e a durare come paradigmatiche.

Se per nascita Loewe appartiene alla prima generazione romantica, la sua produzione si rafforza e tocca il culmine negli anni Trenta dell’Ottocento, e si prolunga senza inaridirsi fino pochi anni prima della morte, ossia oltre la metà degli anni Sessanta. Egli, in altri termini, è un protagonista della piena stagione romantica nella sua fase più espansa e critica, un posteri non soltanto di Schubert ma anche di Schumann e un contemporaneo di Brahms. Ma per capire bene la sua posizione storica, bisogna tener presente che la formazione musicale di Loewe era avvenuta sotto la guida di Johann Friedrich Reichard (1752-1814), uno dei maestri della preistoria del Lied ma soprattutto un convinto assertore del postulato goethiano secondo il quale, tanto nel Lied quanto nella Ballata, si dovesse preferire la semplice forma strofica all’elaborazione continua, assegnare all’esecutore il compito di differenziare l’espression da strofa a strofa. A questo principio Loewe, che oltre ch compositore fu un acclamato esecutore delle proprie opere come cantante, non venne mai meno. Nella sua produzione, che abbraccia tutta la storia della Ballata romantica, egli ebbe modo così di unire la semplicità e la fedeltà al testo di ispirazion goethiana con le conquiste più avanzate dei musicisti romantici, rimanendo tuttavia fedele a un modello di Ballata che si potrebbe definire la mediazione fra i due estremi: fedeltà che riposava tanto su un senso di misura e di controllo artigianal quanto sulla convinzione pressoché assoluta circa le sue qualità estetiche.

L’ «aurea mediocritas» della Ballata di Loewe, fedele al tono di ballata al punto da esserne sovente condizionato in modo negativo, non deve essere giudicata col metro di valore di Lied schubertiano e schumanniano o brahmsiano, di cui reca non pochi echi nel dettaglio ma da cui si differenzia nettamente dal punto di vista della sostanza. Mai come in questo caso un giudizio puramente estetico – più che mai del resto illegittimo a priori – sarebbe fuorviante. La Ballata di Loewe infatti, soprattutto nella sua fase più matura, rappresenta un documento di un atteggiamento compositivo che è anche atteggiamento estetico e sociale, motivato e radicato in una cerchia precisa – non necessariamente periferica – della vita e della cultura tedesca dell’età del Romanticismo. Se la Ballata di Loewe non tenta neppure le ascensioni vertiginose e le folgoranti rivelazioni di uno Schubert o di uno Schumann – e il paragone fra composizioni dello stesso genere non gli è certo favorevole, anche se il suo Erlkönig non è poi da buttare al confronto con Schubert -, ciò è dovuto da un lato alla natura del tipo di Ballata fatto proprio da Loewe (illustrare e ritrarre più che sviluppare musicalmente), dall’altro al ruolo che essa assolveva per il pubblico cui era destinata. I1 postulato estetico di questo pubblico, le cui manifestazioni possono essere racchiuse nel fenomeno più generale del Biedermeier, era quello di contemperare esigenze culturali le cui pretese salivano di continuo con una semplicità tecnico-espressiva che, oltre a espletare funzioni formative del gusto in senso artistico, si attenesse ai bisogni primari del consumo «piacevole» e «partecipato» insieme: e non c’è dubbio, anche senza dover seguire alla lettera le famigerate tesi adorniane, che il carattere di fondo di questa tendenza era dato dalla borghesia tedesca dell’età della Restaurazione. Loewe, musicista colto e abile organizzatore musicale, fa della Ballata un modello per questa società, accomodando esigenze esteiche (proprie e altrui) e desiderio di affermarsi secondo la moda o il gusto del tempo. La sua Ballata è a un tempo popolare e rappresentativa e vive del piacere di stare insieme in compagnia a raccontarsi e ad ascoltare storie fantastiche e cupe, grottesche ed eroiche; con il suo tono blandamente descrittivo che si rivolge a un uditorio che sa di ascoltare una storia ma che vuole anche che questa storia, in musica, gli sia esposta a un certo livello (livello che non deve essere né più alto né più basso di quello richiesto), essa incarna una funzione precisa: formare e rispecchiare un’identità, magari connotando le reminiscenze storico-patriottiche di cui la Ballata è per sua natura intrisa di chiare attualizzazioni di stati d’animo politici, o toccando le corde, care alla sensibilità romantica, del misticismo religioso.

E in questo equilibrio, che nessuno come Loewe seppe raggiungere, che sta il senso della sua Ballata. Ciò non significa, è evidente, rinuncia in toto all’elaborazione musicale, alla creazione propriamente detta. Se Loewe ci appare un maestro del compromesso e della via di mezzo, ciò gli è possibile ottenerlo in quanto musicista colto e sensibile, ferrato ed esperto, capace di mescolare – estraendoli dal tono poetico della Ballata – immediatezza di espressione, nobile pathos e artifici compositivi sottili. L’abilità, anche furbesca, di seguire e far seguire il testo passo dopo passo, variando e trasformando gli accenti senza tuttavia perdere quello di fondo e la quadratura generale dell’insieme, significa in lui coerenza formale, ma di tipo affatto speciale. Se l’elementarità della linea vocale (affidata però alla capacità interpretativa dell’esecutore, in senso goethiano) e la semplicità dell’invenzione melodica appaiono talora preoccupanti; se l’insistenza su tratti illustrativi, descrittivi, imitativi (le onomatopee delle cavalcate, dei venti sibilanti, delle acque scroscianti e così via) è spesso deprecabile e triviale e banale, non bisogna sottacere quei requisiti che, sotto l’aspetto compositivo, innalzano il rango del linguaggio e dello stile individuale di Loewe: irregolarità e ritorni ciclici della melodia non legati alla stroficità del testo, contrazioni e dilazioni del tono narrativo, sospensioni e accelerazioni degli impulsi ritmici, sfasamenti metrici giustificati dal senso musicale, preziosità armoniche e sottolineature di carattere espressivo-pittorico, ma non meramente illustrativo, nell’accompagnamento pianistico. Tutto ciò avviene con la tranquilla naturalezza di chi sa quali sono i confini entro cui muoversi, gli spazi d’intervento e le misure della propria arte. Loewe non sforza questi limiti. È ben felice – così sembra – di starci dentro. Anche quando non si innalza alla grandezza poetica dei suoi modelli letterari o dei suoi vicini musicisti, sa trovare, per la sua musica, il posto e il ruolo che le convengono. E se non brilla, neppure sfigura al confronto.

 

 Il re degli Elfi

 
Chi cavalca a quest’ora attraverso la notte e il vento?

È il padre col suo bambino;

l’ha stretto forte nelle sue braccia,

lo regge sicuro, lo tiene al caldo.

 

«Figlio mio, perché nascondi il tuo viso con tanta paura?»

«Non vedi, padre, il re degli Elfi?

Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?»

«Figlio mio, è una striscia di nebbia.»

 

«Caro bambino, vieni, vieni con me!

Bellissimi giochi farò con te;

tanti fiori variopinti ci sono sulla riva,

mia madre ha tante vesti d’oro.»

 

«Padre mio, padre mio, e tu non senti

quel che il re degli Elfi mi promette sussurrando?»

 «Tranquillo, rimani tranquillo, bambino mio:

 tra le foglie secche mormora il vento.»

 

«Bel fanciullo, vuoi venire con me?

Le mie figlie avranno cura di te;

le mie figlie guidano la schiera notturna,

ti cullano e danzano e ti cantano la ninna-nanna.»

 

«Padre mio, padre mio, e tu non vedi laggiù

le figlie del re degli Elfi in quel luogo tetro?»

 «Figlio mio, figlio mio, certo che lo vedo:

 i vecchi salici hanno un aspetto così grigio.»

 

«Ti amo, mi attira la tua bella figura;

e se non sarai docile, userò la violenza.»

«Padre mio, padre mio, ecco che ci afferra!

 Il re degli Elfi mi ha fatto del male!»

 

Il padre inorridisce, cavalca veloce,

stringe fra le sue braccia il bimbo che geme,

raggiunge il palazzo con fatica e con pena:

nelle sue braccia il bambino era morto.

 

 Messer Oluf

 
Messer Oluf cavalca a tarda notte e da lontano,

per presentarsi alle sue nozze.

Ecco danzano gli Elfi sulla verde sponda,

la figlia del re degli Elfi gli porge la mano:

 <<Benvenuto, Messer Oluf, vieni, danza con me, ti regalerò due speroni d’oro.>>

<<Non posso danzare, danzare non voglio,

perché domani è il giorno delle mie nozze.»

«Avvicinati, Messer Oluf, vieni, danza con me,

e ti regalerò una camicia di seta,

una camicia di seta così bianca e fine,

mia madre l’ha candeggiata col chiaro della luna.»

 <<Non posso danzare, danzare non voglio,

perché domani è il giorno delle mie nozze.»

Avvicinati, Messer Oluf, vieni, danza con me,

e ti regalerò un mucchio d’oro».

< Un mucchio d’oro lo prenderei volentieri,

ma non posso né debbo danzare.»

«E se tu Messer Oluf non vuoi danzare con me,

peste e malattia ti colpiscano!»

Gli dà un colpo sul cuore,

in tutta la sua vita non aveva mai sentito un tal dolore.

Poi lo solleva sul suo cavallo:

«Cavalca a casa dalla tua preziosa damigella!»

 E quando giunse davanti alla porta di casa,

sua madre lo stava aspettando tremante:

«Dimmi, figlio mio, dimmi ti prego,

perché sei così pallido e bianco?»

«E non dovrei essere pallido e bianco,

sono capitato nel regno del re degli Elfi.»

«Dimmi, figlio mio, così caro e fedele,

che cosa debbo dire alla tua sposa?»

«Dille che ho cavalcato nel bosco or ora,

per provare il mio cavallo e il mio cane.»

Di prima mattina quando non era ancor giorno,

giunse la sposa col corteo di nozze.

Versavano idromele, versavano vino:

«Dov’è Messer Oluf, lo sposo mio?»

«Messer Oluf ha cavalcato nel bosco or ora,

per provare il suo cavallo e il suo cane.»

La sposa alzò il drappo scarlatto,

là giaceva Messer Oluf ed era morto.

 

 Conte Eberstein

 

Nella sala (del palazzo) di Spira, ecco che si alzano i suoni,

si salta e si balla alla luce di torce e candele.

Il conte Eberstein guida la danza

con la figlia incantevole dell’Imperatore.

 E come lui ora la solleva in lieve girotondo,

lei gli sussurra sottovoce (tacerlo non può):

«Conte Eberstein, stai bene attento!

Questa notte il tuo bel castello sarà in pericolo!»

 «Ehi», pensa il conte, «Vostra Grazia Imperiale,

dunque per questo mi avete invitato a danzare?»

Cerca il suo destriero, lascia il suo seguito

e si precipita verso il suo castello in pericolo.

 Intorno alla fortezza di Eberstein, brulicano i combattenti,

strisciando nella nebbia con uncini e corde.

Il conte Eberstein li saluta ghignando

e li getta dal terrapieno giù nei fossati.

 E quando il giorno dopo arriva l’Imperatore,

pensa che il castello sia già stato preso.

Ma sul terrapieno danzano fra i suoni

il conte e tutti i suoi armati:

«Sire Imperatore, se un’altra volta volete insidiare castelli, bisogna

che v’intendiate meglio di danza.

Vostra figlia danza così bene,

per lei la mia fortezza sarà aperta.»
 

Nella sala (del castello) del conte, ecco che si alzano i suoni,

si salta e si balla alla luce di torce e candele.

Il conte Eberstein guida la danza

con la figlia incantevole dell’Imperatore.

 E come ora la solleva nel girotondo nuziale,

le sussurra sottovoce (tacerlo non può):

«Virginea damigella, stai bene attenta!

Questa notte una piccola fortezza sarà in pericolo!»

 

Canto nuziale

 

Cantiamo e raccontiamo ben volentieri del conte,

che ha abitato qui nel castello,

qui, dove voi offrite un banchetto al nipote,

che oggi ha sposato, del defunto signore.

Costui s’era dunque conquistato la gloria

alla guerra santa con molte vittorie;

e quando tornò a casa e scese da cavallo,

trovò il suo bel castello lassù, ma dispersi averi e servitù.

 
Eccoti qua, conte, ora sei a casa,

ma è difficile che ti ci trovi a tuo agio!

I venti vanno e vengono dalla finestra,

passano attraverso tutte le stanze.

«E che dovrei fare in questa notte autunnale?

Ne ho passata più d’una ancora peggiore,

e la mattina ha sempre migliorato le cose.

Avanti dunque, presto: al lume della luna,

a letto, nella paglia, nella lettiera!»

 
E mentre giaceva così in docile sonno,

qualcosa si muove sotto il letto.

«Il ratto, che frusci, che frusci quanto vuole!

Mah, se avesse una briciola di pane!»

Ma guarda un po’! C’è là un ornino minuscolo,

un nanetto proprio bellino con una piccola lampada,

con gesti d’oratore e posa di parlatore,

ai piedi del conte spossato,

che, se non dorme, vorrebbe dormire.

 «Ci siamo permessi di far festa quassù,

da quando hai lasciato le stanze,

e poiché ti credevamo molto lontano da qui,

così ora abbiamo pensato di far baldoria.

E se lo permetti e non ti dispiace,

noi nani gozzovigliamo, pacifici e allegri,

in onore della ricca, della leggiadra sposa.»

Il conte nella tranquillità del sogno:

«Servitevi pure della stanza!»

 Ecco che giungono tre cavalieri, vengono a cavallo,

avevano sostato sotto il letto;

segue poi un coro fra canti e fra suoni

di piccole, comiche figure;

e carri dopo carri con tutti gli arredi,

da far rimanere senza fiato,

come si trovano solo nei palazzi dei re;

finalmente su una carrozza dorata

son portati la sposa e gli ospiti.

 E tutti ora corrono a pieno galoppo

scegliendo il proprio posto nella sala;

per ballare e piroettare e saltare allegramente,

ognuno si elegge un tesorino.

E tra fischi, tra suoni, tra trilli e tra canti,

si lotta e volteggia e mormora e grida,

e bisbiglia e stormisce e ronza e sussurra;

il conticino, lui getta uno sguardo,

e gli sembra di avere la febbre.

 Ora ci si agita e dimena e si strepita nella sala

da panche e seggiole e tavoli,

ognuno ora vuole al festoso banchetto

ristorarsi accanto al suo amore;

si potran le salsicce, i prosciutti così piccoli

e ancora arrosto, pesce e pollame, va in giro senza posa il vino

prelibato; tutti fan fracasso e si vezzeggiano a lungo

e infine spariscon fra i canti.

 E se dobbiamo cantare che cosa è ancora accaduto,

allora tacciano chiasso e fragore.

Giacché quel che egli, così garbato, ha visto in piccolo,

l’ha vissuto e goduto in grande.

Trombe e bòtti, suoni e canti,

e cavalieri e carrozze e corteo nuziale,

essi vengono e si mostrano e si inchinano tutti,

innumerevole gente felice.

Così è andata e la va anche oggi.

 

 La parata notturna

 
Di notte verso la dodicesima ora

il tamburino lascia la sua tomba,

fa la ronda con il tamburo,

va rullando su e giù.

Con le sue braccia scarnificate

batte con tutte e due le bacchette insieme,

suona più d’un bel rullo,

la sveglia e la ritirata.

 Il tamburo ha uno strano suono,

ha un suono molto forte;

i vecchi soldati morti

ne vengono risvegliati nella tomba.

E quelli che giacciono nel lontano nord

irrigiditi nella neve e nel ghiaccio,

e quelli che giacciono a sud,

dove la terra è troppo calda per loro;

 

e quelli che sono coperti dal fango del Nilo

e dalla sabbia d’Arabia,

escono dalle tombe

e prendono in mano il fucile.

 

E giungono su aerei destrieri i cavalieri morti,

i vecchi squadroni insanguinati

con ogni genere d’armi.

 

E verso la dodicesima ora

il condottiero abbandona la sua tomba,

arriva cavalcando lentamente,

circondato dal suo stato maggiore;

porta un piccolo cappello,

porta un semplice vestito,

e una piccola spada

egli porta al suo fianco.

 

La luna con la sua luce gialla

illumina la vasta pianura,

l’uomo col piccolo cappello

contempla le truppe.

 

Le file salutano

e mettono il fucile in spalla,

poi al suono di una marcia

tutto l’esercito sfila.

 

I marescialli e i generali

chiudono il cerchio intorno a lui,

il condottiero dice al suo vicino

una parola sottovoce nell’orecchio;

 

la parola fa il giro dell’esercito,

risuona lontano e vicino:

«Francia», è la parola d’ordine,

la risposta: «Sant’Elena!»

 

Questa è la grande parata

nei campi elisi,

che verso la dodicesima ora

il defunto Cesare tiene.

 

Il fido Eccardo

 

«Oh fossimo lontano di qui, oh fossi a casa!

Esse vengono. Ecco che viene l’orrore notturno;

sono loro, le sorelle maligne.

Si avanzano strisciando, ci trovano qui,

bevono quel che ci siamo procurati a fatica, la birra,

e ci lasciano solo i boccali vuoti.»

 Così parlano i bambini e si acquattano alla svelta;

ecco che appare davanti a loro un vecchio signore:

«State buoni, bambini! Bimbi cari, zitti!

Le larve vengono da una caccia assetata,

e se le lascerete bere come desiderano,

allora saranno benigne con voi, le maligne.»

 Detto fatto! Ecco che arriva l’orrore

ed ha un aspetto così grigio e spettrale,

eppure tracanna e gozzoviglia a più non posso.

La birra è sparita, i boccali sono vuoti;

ora sibila e sbuffa, la schiera furiosa,

nella valle lontana, sui monti.

 I bambini atterriti vanno a casa di corsa,

si accompagna a loro l’amico devoto:

«Cocchini, non siatemi tristi.»

«Ora ci rimprovereranno e picchieranno a sangue.»

«No, assolutamente, tutto andrà magnificamente bene,

soltanto state zitti e ascoltate come topini.

 E chi vi consiglia e chi lo comanda,

è colui che gioca volentieri coi bambini,

il vecchio Fedele, il fido Eccardo.

Di quest’uomo favoloso vi hanno sempre narrato,

ma la conferma, quella che a ognuno manca,

ora voi la avete preziosa fra le mani.»

 Arrivano a casa, posano il boccale, ognuno

 pieno di timore, davanti ai genitori,

e attendono le botte e i rimproveri.

Ma vedi, si assaggi una birra squisita!

Si beve e si fa il giro già tre e quattro volte,

e il boccale ancora non finisce.

 Il miracolo dura fino al giorno dopo.

E chieda chi ha voglia di chiedere:

com’è andata coi boccali?

I topolini sorridono divertiti in silenzio;

balbettano e tartagliano e spifferano infine,

e di colpo i boccali diventano secchi.

 E quando un padre, un maestro, un anziano vi parla,

bambini, con faccia onesta,

ascoltatelo e ubbiditelo prontamente!

E anche se vi è difficile tener ferma la lingua,

parlare a vanvera è dannoso, tacere è bene:

così i boccali si riempiranno di birra!


Il cantore

 
Che cosa sento là fuori davanti alla porta,

che cosa risuona sul ponte?

Lascia che al nostro orecchio

il canto risuoni nella sala!

Il re parlò, il paggio corse;

il ragazzo tornò, il re chiamò:

Fatemi entrare il vecchio!

 Nobili signori, io vi saluto,

il mio saluto, belle dame, a voi!

Che ricco cielo! Stella accanto a stella!

 

Chi conosce i loro nomi?

Nella sala piena di sfarzo e di splendore,

occhi, chiudetevi; qui non è tempo

di rallegrarsi per lo stupore.

 

Il cantore strinse gli occhi

E toccò le corde a pieno suono;

 i cavalieri guardavano animosi,

e le belle chinavano lo sguardo.

Il re, cui la canzone piacque,

ordinò che in onore della sua arte

gli fosse portata una collana d’oro.

Non dare a me la collana d’oro,

ma dalla ai cavalieri,

davanti al cui aspetto fiero

si schiantano le lance dei nemici;

dalla al cancelliere, che tu hai,

e fa’ che agli altri pesi che porta

anche questo, d’oro, si aggiunga.

Io canto come canta l’uccello,

che dimora in mezzo ai rami;

la canzone che erompe dalla gola

è un compenso ricco e lauto.

Ma se posso chiedere, questo solo chiedo:

fa’ che mi diano in una coppa

d’oro puro il vino migliore.

Alzò la coppa e la bevve tutta:

O bevanda che soavemente ristori!

O felice la casa amica della fortuna,

dove questo è un piccolo dono!

Nella felicità pensate a me,

e ringraziate Dio così fervidamente come io

vi ringrazio per questa bevanda.

 Enrico l’uccellatore

 Il nobile Enrico sedeva al paretaio,

proprio contento e di buon umore;

come mille perle brilla e splende

il chiarore dell’aurora.

 Per prati e campi, boschi e pianure,

senti, che dolce suono!

Il canto dell’allodola, il verso della quaglia,

il dolce usignolo!

 Il nobile Enrico si guarda intorno ed è così felice:

com’è bello oggi il mondo!

E ciò che conta, oggi ci sarà un buon bottino!

E ammira il firmamento.

 Ascolta e si scuote dalla fronte

i riccioli biondi sparsi…

Ehi là! Ma cosè quel drappello

che avanza al galoppo?

 La polvere si solleva, il suolo rimbomba,

si avvicina il fragore delle armi;

perdio! questa gente mi rovina

tutta l’uccellagione!

 E adesso! che c’è? Il drappello si ferma

improvvisamente davanti al duca,

il nobile Enrico si fa avanti e chiede:

Chi cercate, signori? Parlate!

 Essi sventolano i gagliardetti variopinti

ed esclamano: il nostro signore!

Viva l’imperatore Enrico, evviva!

La stella di Sassonia!

 Chinandosi s’inginocchiano davanti a lui

e in silenzio gli rendono omaggio,

e gridano, quand’egli chiede stupito:

Così vuole l’Impero di Germania!

Enrico allora guarda profondamente commosso

su, verso il firmamento:

Mi hai dato un buon bottino!

Signore Iddio, sia fatta la tua volontà!


Principe Eugenio

 
Tende, sentinelle, chi-va-là!

Notte allegra sulle rive del Danubio!

I cavalli stanno in cerchio intorno

legati ai paletti;

alle strette selle di camoscio

pendono le pesanti carabine.

 Intorno al fuoco sulla terra,

davanti agli zoccoli dei cavalli,

riposa il picchetto austriaco.

Ogr uno giace sul suo mantello,

le penne dei berretti ondeggiano.

Il luogotenente gioca a dadi con l’alfiere.

 Accanto al suo destriero stanco,

su una coperta di lana

riposa tutto solo il trombettiere:

«Basta coi dadi, basta con le carte!

La bandiera imperiale

udrà lieta un canto cavalleresco!

La faccenda di otto giorni fa,

nell’interesse di tutto l’esercito,

l’ho messa giù in versi appropriati,

e ho scritto anche la musica.

Quindi, voi bianchi e rossi!

State attenti ed ascoltate!»

Ed egli canta la nuova melodia

 una, due, tre volte piano

agli uomini della cavalleria;

e quando per l’ultima volta

finisce il canto, prorompe in un sol colpo

il coro potente ad una voce:

«Principe Eugenio, il nobile cavaliere!»

Ehilà, questo suono raggiunge come un tuono di tempesta

l’accampamento turco, laggiù.

Il trombettiere si liscia i baffi

e di soppiatto scivola

dalla vivandiera.

 
Il mulino diroccato

 Cavalcando silenzioso e solo

il vecchio conte penetra nel bosco.

Egli cavalca al di sopra di pietre e rovi,

al suo fianco penzolano spada e corno.

 

E il sentiero diviene sempre più tetro,

le rocce si ammassano l’una sopra l’altra.

Ecco che giunge presso un mulino,

ma non c’è vita né vicino né lontano.

 

Diroccati sono tutti i ballatoi,

il flusso dell’acqua non spinge alcuna ruota di mulino.

Attraverso il tetto aperto si vede il cielo,

tutt’intorno macerie ed erbacce.

 

Scorge dentro solo una panca,

l’ospite fosco ci si mette a sedere,

incrocia le braccia sul petto,

e spontaneamente chiude gli occhi.

 

Ecco che tutto prende vita intorno a lui,

il macchinario rumoreggia sinistro e pesante,

l’acqua scroscia, il boschetto vive,

la ruota del mulino gira con rumore allegro.

 E vedi, coi sacchi nel fracasso

i garzoni vanno dentro e fuori,

dal ballatoio, dapprima ancora vuoto e deserto,

il mugnaio manda un saluto amichevole.

Adesso corre saltellando giù dal sentiero

la sua figlioletta, fresca e giovane.

Il volto chiaro come il cielo,

i suoi bei capelli danzano nelle trecce.

Si avvicina al conte e gli porge

il bicchiere, in cui splende oro liquido.

Come ai vecchi tempi il suo cuore ora sente

la felicità dell’amore.

E volgendo lo sguardo alla fanciulla,

stende la mano verso il bicchiere.

Ma quando lo vuole prendere svelto,

quel che afferra è soltanto aria.

Spariti sono sia il bicchiere che il vino,

il mugnaio e la sua figlioletta.

La ruota del mulino non gira più, l’acqua non scroscia,

solo il vento sibila attraverso le travi.

E allora il conte salta di nuovo

sul suo morello e se ne va cavalcando.

Cavalca silenzioso lungo il bosco

e si asciuga una lacrimuccia dalla gota.

 L’ammiraglio prigioniero

 
Sono oggi trentatré anni,

che non ho visto una vela,

la torre si erge immobile,

la catena è qui eternamente.

Mi hanno murato, me il delfino,

dentro una rupe senza luce,

e irraggiungibile là in alto

una piccola finestrella.

 Quel che mi pesa tanto sul cuore

non è che son lontano dalla luce e dal giorno,

ma che non posso vedere te,

sacro mare azzurro.

Non odo come si rotola la marea,

e non sento lo stridio dei gabbiani,

e se la catena non sferragliasse,

tutto sarebbe silenzio di tomba.

Hanno costruito la torre lontano dal mare,

dove non si infrange nessuna onda,

non fischia nessun marinaio e non sibila alcuna tempesta,

nessun colpo di cannone risuona il mezzo alla tempesta.

Quel che mi pesa tanto sul cuore

non è che mi hanno gettato in una notte silenziosa,

ma che non posso sentire te,

mare rimbombante.

Le mie ossa vetuste sono pesanti e vuote,

il mio corpo non guarirà mai,

il mio pugno non stringerà più la miccia

e mai più l’ascia d’arrembaggio.

La grande bandiera sull’albero maestro,

la fiancata della nave vorrei vedere,

e ragazzi, quel che voi prendete di mira,

se lo porti via il diavolo!

Quel che mi pesa tanto sul cuore

non è che appassisco in catene e prigione,

ma che non posso più combattere su di te,

mare sconvolto dalle battaglie.

All’assalto, su, all’arrembaggio,

e fate fuoco ancora una volta!

Ehi! Nave con nave e coperta con coperta,

e io l’ammiraglio!

Oh fossi caduto tra il fischiare delle pallottole!

Qui giaccio infermo e piagato,

languisco come un pesce nella sabbia

e muoio come un cane!

Quel che mi pesa tanto sul cuore

non è che muoio a poco a poco,

ma che non posso morire su di te,

mare tante volte domato!

La nave abbassa le ali nel dolore,

come una vedova vestita di nero,

la bandiera copre la salma dell’eroe,

come veste mortuaria.

Dal fianco della nave affonda nel mare,

che trema di sacro orrore,

me invece seppelliscono nella sabbia,

e nemmeno sparano in quel momento!

Quel che mi pesa tanto sul cuore

non è che la mia vita sia corsa via qui dentro,

ma che non posso dormire dentro di te,

mare, tomba d’eroi!

 
La cavalcata di Odino

 

Messer Oluf, il fabbro d’Helgoland,

lascia l’incudine a mezzanotte.

Il vento ulula in riva al mare,

quando bussano con forza alla sua porta:

«Fuori, fuori, ferrami il cavallo,

debbo andare ancora lontano, e il giorno è vicino!»

Messer Oluf gira la chiave del portone

e davanti a lui sta un nobile cavaliere.

Neri son la corazza, l’elmo e lo scudo,

sul fianco gli pende una grande spada.

Il suo morello scuote la criniera con furia

e scalpita con impazienza.

«Da dove vieni a quest’ora? E dove vai così in fretta?»

«Sono stato a Norderney, ieri.

Il mio cavallo è veloce, la notte è chiara,

prima che sorga il sole debbo essere in Norvegia!»

«Se aveste le ali, allora lo crederei!»

«Il mio morello corre col vento,

ma qua e là già impallidisce una stella!

Fa’ in fretta col ferro, fa’ presto!»

Messer Oluf prende il ferro in mano,

è troppo piccolo, ed ecco che si allunga.

E come si estende sullo zoccolo intero,

il maestro è preso da orrore e paura.

Il cavaliere monta in sella, la sua spada tintinna:

«Bene, Messer Oluf, buona notte!

Hai ferrato bene il cavallo di Odino,

Ora corro via alla battaglia cruenta.»

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