Il mito di Faust s’incarna nel Novecento nella figura ideale di un musicista, il tragico protagonista del romanzo di Thomas Mann Doctor Faustus. Nel narrare la vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn, Mann si serve della musica per esprimere la situazione dell’arte contemporanea, della sua civiltà, dello spirito di un’epoca profondamente critica e inquieta.
II motivo di fondo del romanzo – il patto stretto col diavolo in cambio di una inaudita attività creativa – introduce nel mito di Faust una variante della massima importanza: Adrian-Faust vende l’anima al diavolo non per appagare la sua sete di conoscenza e di esperienza del mondo, ma per riuscire a realizzare un’arte di avanguardia capace di dare testimonianza, con obiettività e rigore, della crisi della musica in quanto linguaggio e mezzo di comunicazione intersoggettivo, e nello stesso tempo di ricostruire dalle fondamenta un ordine non puramente negativo. L’allontanamento della sterilità e della disperazione, sia pur temporaneo e pagato al prezzo non solo della dannazione eterna ma anche della pazzia, consente la creazione di opere apocalittiche, nelle quali il dossolversi dell’arbitrio soggettivo e il rifiuto dei suggerimenti dell’istinto s’incontrano all’estremo dell’astrazione razionale e demoniaca.
E’ risaputo che nell’abile montaggio del suo romanzo Mann si rifà a modelli precisi: se Nietzsche e Hugo Wolf prestano i loro tratti alla figura del protagonista e ne condividono il destino (la sifilide e la conseguente pazzia), l’influsso di Arnold Schönberg e della Filosofia della musica moderna di ‘I’heodor Wiesengrund Adorno è palese in tutti i passi nei quali Mann tratta di problemi e di tecniche musicali. In particolare il tipo di composizione esposto nel capitolo XXII e chiamato esplicitamente tecnica dodecafonica è debitore in più punti della teoria di Schönberg; per quanto la consulenza di Adorno e la stessa personalità dell’autore arricchiscano considerevolmente temi e svolgimenti della trattazione. Se Schönberg volle cautelarsi imponendo una nota nella quale si chiarisse il suo diritto di “”proprietà spirituale”” sulla tecnica dodecafonica, era d’altro canto chiaro che Mann non aveva inteso affatto identificare con Schönberg il musicista di sua libera invenzione. Adrian Leverkühn è infatti una figura ideale che non impersona tanto un concreto compositore (le sue stesse opere, così come ci vengono descritte, non hanno realtà sonora compiuta), bensì una situazione paradigmatica dell’arte del Novecento, e di quella musicale in particolare.
La forza del romanzo sta proprio nel fatto che ad esservi rappresentata è la condizione stessa della musica contemporanea: sospinta in un vicolo cieco dalla crisi dei linguaggi tradizionali, messa di fronte all’obbligo di ritrovare la propria identità. Che a venir dibattuta sia la capacità della musica di costruirsi organicamente con un proprio senso e di comunicare questo senso ad altri individui, non soltanto quindi con una forma ma anche con un contenuto, costituisce un ulteriore punto di interesse della grandiosa tessitura manniana. Spogliato dei suoi aspetti più propriamente romanzeschi e della sua cornice simbolica, il Doctor Faustus di Thomas Mann è un inesauribile repertorio delle vicende e dei personaggi della musica del nostro secolo, da cui non e possibile prescindere per inquadrarne lo sfondo.
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Le metamorfosi di Faust nel Novecento hanno inizio con l’Historie du Soldat di Igor Stravinsky, composta nel 1918. La tragica storia del soldato insidiato e conquistato dal diavolo, che coi suoi raggiri ottiene infine la sua anima, è una evidente variante della leggenda di Faust, passata nei racconti popolari russi della celebre raccolta di Aleksandr Afanasev. Di qui Stravinsky e lo scrittore Charles Ferdinand Ramuz la trassero per dare vita a una delle più geniali e avventurose creazioni del teatro musicale novecentesco. Nata in tempo di guerra, condizionata da pesanti ristrettezze economiche, l’Historie du Soldat fu concepita per un organico ridotto (sette esecutori, tre attori e due danzatori) e per una sorta di carro di Tespi ambulante che potesse facilmente circolare di villaggio in villaggio, adattandosi a rappresentazioni popolari: proprio come avveniva un tempo con gli spettacoli faustiani delle marionette e delle compagnie di giro, prima che Goethe elevasse l’intera tradizione a unitaria, individuale creazione d’arte. Non è certo un caso che Stravinsky pensasse a questo soggetto in questa forma in un momento particolarmente critico della sua esistenza: per quanto il racconto popolare avesse un carattere specificamente russo per l’ambiente e le situazioni che vi sono descritte, i sentimenti che vi erano espressi e la morale che se ne traeva consentivano una interpretazione universale riferibile a tutti i paesi e a tutte le epoche, massimamente in periodo di guerra. Ed era proprio questo lato essenzialniente umano a interessarlo e sedurlo.
Il soldato di Stravinsky è un Faust in miniatura, mosso da bisogni elementari ma sinceri. La sua anima è racchiusa nel violino, che egli baratta col diavolo in cambio di un libro magico onnipotente: solo per accorgersi che ricchezza e potenza non danno la felicità. Tutto il soggetto è ridotto a simboli elementari: e in ciò, oltre che nella tagliente incisività del linguaggio musicale, sta la sua forza di emozione e di commozione.
Il fatto che la quasi totalità dei numeri musicali siano marce o danze o canzoni accresce l’immediatezza della comprensione e scandisce la vicenda con stacchi netti, garantendo così la massima evidenza rappresentativa. Quando alla fine il soldato ricade in potere del diavolo che gli sottrae il violino per l’ultima volta, un velo di pietà si stende sulla sua sconfitta: come se salvezza e dannazione si fossero già consumati senza lasciare strascichi oltre la sua lenta uscita di scena.
Il diavolo dei racconti popolari di Stravinsky in fondo è soltanto un’immagine della fantasia, con cui è possibile spiegare l’eterna tristezza e follia della vita.
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Tutt’altro senso intese dare Ferruccio Busoni alla sua interpretazione del mito di Faust. Partito dall’idea di mettere in musica il Faust di Goethe, Busoni esitò a lungo prima di rinunciare a un compito tanto affascinante quanto impervio e risolversi a basare la sua opera sull’antico spettacolo di marionette. Da esso trasse non soltanto la traccia per il soggetto e l’impianto scenico ma anche quei vari spunti magici e illusionistici della tradizione popolare che si adattavano perfettamente a essere sviluppati in una personalissima concezione dell’opera lirica. di cui il Doktor Faust constituisce la summa. “”L’opera accoglie nel suo seno, ammette e promuove tutti i mezzi e tutte le forme musicali che altrimenti non possono essere adoperate se non tino per volta. Offre l’occasione di impiegarli tutti insieme o a gruppi. Il campo dell’opera va dai semplici motivi di canzoni, di marcia e di danza. sino ai contrappunti più elaborati, dal canto all’orchestra, dal “”sacro”” al “”profano””, e ancora più oltre: lo spazio smisurato di cui essa dispone la rende capace di assimilare ogni genere e ogni tipo, di riflettere qualsiasi stato d’animo””.
Senza dubbio Busoni ebbe presente il poderoso dramma faustiano di Christopher Marlowe, che influì anche nella scelta del titolo, e non dimenticò, almeno come punto di riferimento ideale, la sublime ascesa del poema goethiano. Strada facendo però, in una gestazione isolatamente lunga e continuamente differita – è noto che l’opera, iniziata nel 1914, rimase incompiuta alla sua morte il 27 luglio 1924 -, la visione di Busoni si arricchì di elementi simbolici e di significati psicologici complessi, attinti a fonti diverse e riplasmati in una creazione profondamente originale e indipendente, con accentuati caratteri autobiografici.
Faust è per Busoni il simbolo di un’aspirazione all’agire inappagabile e infinita, “ein ewiger Wille” “”eterno volere””, come egli stesso si nomina nel punto culminante dell’opera. Nello stesso tempo però quest’aspirazione non si accontenta dì essere tale, ma vuole raggiungere un risultato tangibile, compiere l’opera definitiva e perfetta. Le esperienze magiche, mistiche e mondane che Mefistofele gli offre accrescono l’ansia di Faust, acuendone l’insoddisfazione e il vuoto: dalla coscienza negativa di Faust nascono la purificazione e l’impulso a compiere l’azione creatrice che rinnovi la vita esausta. A partire dalla scena alla corte di Parma, nucleo insieme generativo e centrale dell’opera, Busoni abbandona lo spettacolo delle marionette e avvia un proprio corso di pensieri. Il bambino che Faust ha avuto dalla Duchessa diviene a sua volta il simbolo che produce e rende possibile una soluzione quasi riconciliante e trascendente l’ambito del dramma: l’essere, generato dall’impulso più puro, determinerà il sopravvivere spirituale dell’individuo e del suo “”eterno volere””.
La scena finale dell’opera, così come risulta dal libretto di Busoni, esprime questi concetti in modo chiaro e costituisce il nodo cruciale dell’interpretazione busoniana del mito di Faust. L’apparizione della Duchessa illumina Faust sul significato che il bambino morto ha per lui.
Dopo che al suo ultimo tentativo di avvicinarsi a Dio ha rigettato da sé anche la fede, Faust pronuncia queste parole: “”Dannato! Non v’è dunque alcuna grazia! Sei tu inesorabile? Così l’opera sia compiuta. Vostro malgrado, malgrado voi tutti, che vi credete buoni, che noi chiamiamo malvagi, voi che, per i vostri antichi litigi, prendete a pretesto gli uomini, e caricate su loro le conseguenze della vostra contesa. A questo alto grado della mia maturità si spezza ora la vostra malvagità, e nella mia libertà conquistata scompaiono insieme Dio e Demonio””.
Faust parla dunque con gli accenti di Zarathustra, abbattendo le barriere del mondo delimitato dal bene e dal male. Poi prosegue: “”A te, sangue del mio sangue, a te, carne della mia carne, che sopito, immacolato e ancora fuori del tempo sei unito in questo istante tosi profondamente a me, a te lego la mia vita. Che essa trapassi dalle più profonde radici del mio tempo che si allontana fino al puro, fresco sbocciare del tuo nuovo essere. Così io continuo a operare in te, e tu crea per me: fà più profondo il solco che tracciai da vivo, finché ti basti la forza. Ciò che io ho costruito, tu rafforzalo; ciò che ho tralasciato, compilo tu. Così mi pongo al di sopra di ogni legge. abbraccio insieme tutte le epoche ed unisco la mia vita alle generazioni che verranno: io, Faust, eterno volere!””.
Mentre Faust si spegne, dal luogo dove giaceva il bambino morto è sorto un adolescente nudo con un ramo fiorito nella destra. Con le braccia alzate s’inoltra nella neve verso la città e sparisce nella notte. Entra a questo punto il Guardiano Notturno, sotto le cui vesti si cela Mefistofele. Illuminando con la sua lanterna il corpo inanimato di Faust.,si chiede tra il serio e l’ironico: “”Che sarà mai accaduto a quest’uomo? Una disgrazia?”.
Non sembra dubbio quindi che, trasferendo la propria vita esausta a un nuovo essere, Faust celebri la propria immortalità beffando il diavolo, cui consegna solo un corpo inanimato: ed è altrettanto chiaro che Busoni intendesse con ciò, fondando l’opera del futuro, farsi carico in quanto creatore di un messagio simbolico e universale da affidare alle generazioni venture. In tal modo parlano gli ultimi due versi dell’Epilogo recitati dal poeta: “”Dell’ascesa continua è questo il senso. La danza chiuderà il suo cerchio un giorno””. Al tirar delle somme, dunque, Busoni si identifica con Faust esprimendo non soltanto le sue aspirazioni ma anche la capacità di risolvere in atto gravido di futuro le proprie esperienze e le proprie conoscenze; spogliando da ultimo la visione del personaggio delle sovrastrutture metafisiche – la lotta fra bene e male, fra Dio e il diavolo – per far emergere a tutto tondo – e senza “”rivestimento””, di qui il simbolo dell’adolescente nudo – la figura dell’artista creatore, che crea per dare agli altri la possibilità di continuare a creare. E ciò è molto coerente con ciò che Busoni fu in vita come artista e come pensatore.
L’aspetto inquietante di tutto ciò sta nel fatto che Busoni non musicò mai interamente questa scena finale, benchè nel libretto essa fosse stata stesa anni prima della sua morte. L’opera si arresta esattamente prima dell’ultimo monologo di Faust, sulle parole: “”Oh, pregare, pregare! Dove, dove trovare le parole’?””. L’incompiutezza del Doktor Faust, che solo un’interpretazione superficiale può imputare a mere circostanze biografiche, è la smentita più dura di ciò che l’opera voleva essere nelle intenzioni del suo autore. Senza la parola magica che compia la catarsi, l’utopico sogno di riscatto teso a restaurare in un ripiegamento umanistico l’identità dell’uomo e del mondo rimane privo di musica, ossia, nel contesto dell’opera, lettera morta; e, per contrasto, l’ultima battuta detta da Mefistofele-Guardiano notturno dà alla vicenda di Faust gli accenti di un dramma interiore indecifrabile e irrisolto, di portata enormemente più ampia, quasi tragica. Luigi Dallapiccola, ravvisandovi connotati emblematici della condizione di solitudine e di dubbio propria dell’epoca contemporanea, ha rivendicato per primo al Doktor Faust di Busoni quei caratteri di dolorosa attualità che, negandosi alla Verklärung della tradizione operistica, lo fanno entrare in modo diretto nel vivo del labirinto del teatro musicale novecentesco.
La condizione di Busoni è quella di chi, volendo salire alla sommità dei cieli, finì per ritrovarsi sull’orlo dell’abisso infernale: una condizione che dà al mito di Faust un significato inconcluso, insieme enigmatico e precario, esemplarmente sub specie modernitatis.
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Nell’Angelo di fuoco di Sergej Prokofiev (rappresentato postumo nel 1955, ma composto fra il ’19 e il ’27) Faust e Mefistofele sono presenti come personaggi dell’azione soltanto nel quarto atto, quando la vicenda della visionaria protagonista, Renata, si avvia ormai alla conclusione. Si tratta però di un’inserzione della massima importanza nel contesto dell’opera, e non solo perchè dà vita a una pagina di umorismo macabro, grottesco, fra le più tipiche dello stile fantastico di Prokofiev. In quest’opera, che il compositore stesso sceneggiò rifacendosi al romanzo del poeta simbolista russo Valerij Brjusov, il mito di Faust è ritratto per così dire alle origini con la ambientazione storica nella Germania del Cinquecento, che vide fiorire la storia e le prime leggende popolari sulle imprese e il destino del ben noto dottore, mago e negromante. Realisticamente dunque il cavaliere Ruprecht può incontrare in una taverna di Colonia Faust in compagnia di Mefisto, assistere alle loro discussioni teologiche e ai macabri giochi di prestigio con i quali il diavolo in persona cerca di irretire la sua preda. Questa scena prelude all’atto finale, il sabba delle monache invasate e la condanna al rogo di Renata, che segna il trionfo del caos orchestrato con diabolica astuzia dallo spirito del male.
Se dunque la presenza di Faust e di Mefistofele, come pure le riccorrenti scene di stregoneria e di magia sono in qualche modo giustificate dalla cornice ambientale nella quale l’opera si svolge, il tema di fondo – il significato dell’angelo di fuoco che possiede Renata turbando coloro che le si avvicinano – oltrepassa l’ordito del color gotico locale per proporsi come metafora di un’ossessione moderna, problematicamente ambigua: altremodo riflessa e amplificata dal liguaggio infocato e drammatico della musica, uno dei risultati più convincenti dell’avanguardia musicale russa degli Anni Venti. E ancora. Se il contrasto tra follia mistica e “”verità”” scientifica consente una lettura in chiave attuale, come già fece una memorabile regia di Strehler, il ruolo e la funzione del mito faustiano si definiscono nella sfaccettata complessità dei personaggi, per via di accumulazione e di stratificazione. Renata ci appare di volta in volta come una santa o come una indemoniata; e il suo enigma – rifratto in quello della natura celeste o infernale dell’angelo luminoso – non si svela neppure alla fine: la sua condanna non suona giudizio morale, ma esprime semmai uno stato di fatto, il coivolgimento in una follia e in un disordine collettivo che la voce ferma dell’Inquisitore cerca invano di ridurre a spiegazione razionale, affidandosi a una imposizione di forza.
In altri termini, Renata è una incarnazione del diavolo che si è impossessato della sua anima (il simbolo di Madiel, l’angelo di fuoco che non ammette contatto carnale, è in questo senso chiaro) e che si serve di lei per fare nuovi proseliti; ma è anche una vittima del diavolo, da cui traspare perfino il dramma di Margherita, sedotta e abbandonata, punita ma non dannata. E allora Ruprecht può essere visto a sua volta come una incarnazione di Faust, preso nei lacci di una trappola diabolica che si va stringendo via via che si compie il suo cammino di iniziazione ai misteri della magia, alle controverità della scienza, alle rivelazioni dell’amore. Non a caso Ruprecht assisterà accanto a Faust alla convulsa apparizione degli spiriti nel convento, che l’Inquisitore (forse Mefistofele stesso?) alimenta per apporre alla disarmonia dell’irrazionalità il peso schiacciante del suo furore dogmatico.
Queste identificazioni, se di identificazioni si tratta, sono molto più caratterizzate nell’opera di Prokofiev che nella pseudocronaca medievale del romanzo di Brjusov. E’ significativo per esempio che il tema orchestrale con cui si apre l’opera ritorni ciclicamente a introdurre ogni nuova situazione nella quale la lotta col diavolo – o con l’angelo – si ripropone: quasi a costituire un Leitmotiv dell’eterno conflitto tra le forze razionali (quelle alle quali a poco a poco anche Ruprecht abdica) e le seduzioni del mistero che Renata porta con sé. Ciò crea un clima di forte tensione espressiva, a configurare un’ossessione acuta, un’allucinazione nevropatica, un disturbo psichico conforme al quadro clinico dell’arte del tempo di Prokoliev, e dello stato d’animo delle avanguardie in particolare.
Ed è proprio in ciò che sta l’aspetto moderno, novecentesco, dell’Angelo di fuoco. La rappresentazione incorniciata nell’illusione teatrale eli un Medioevo ricostruito nasconde la sostanza attuale di una crisi dalle proprorzioni gigantesche, che la musica di Prokofiev traduce in massima evidenza drammatica. Ma a guardar bene ciò che ne costituisce l’essenza – la vera sostanza drammatica – non è tanto una tentazione diabolica che dall’esterno venga a sconvolgere l’equilibrio dell’individuo, quanto la capacità stessa dell’individuo a resistere di fronte ai mostri che nascono e crescono in lui rendendo vana la difesa della ragione. Il Faust di Prokofiev – sia esso identificato con Ruprecht o con Renata – è incapace anche soltanto di tentare la conquista di uno stadio superiore della coscienza: e Mefistofele è già dentro di lui, nella disarmonia delle sue visioni. Ciò spiega non soltanto il finale aperto dell’opera, senza certezza ne di salvezza né di dannazione, ma anche perché i due personaggi, insieme storici e allegorici, cioè Faust e Mefisto, possano entrare nell’azione solo come fantocci, bizzarre figure da teatro delle marionette: avendo lasciato ad altri, meno scoperti protagonisti, la sostanza di un dramma tutto interiore, senza vie d’uscita liberatorie.
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La carriera di un libertino di Stravinskv (1951) è l’opera del Novecento che più si distacca dai pregiudizi che condizionano in senso negativo l’atteggiamento e le intenzioni dei compositori impegnati e d’avanguardia. Accettare l’opera come genere, rispettarne le convenzioni e le formule, significava per Stravinsky esplicitare i sensi nascosti delle vicende umane mediante la loro eposizione mitica sul palcoscenico, e ricavarne perciò una morale e una verità positiva. Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, il modello del Faust di Goethe, e soprattutto del Secondo Faust, si riflette nel cammino percorso dal protagonista dell’opera neoclassica di Stravinsky, per riaffermare alla fine, e sia pure con significato diverso, una chiara delimitazione dei confini fra bene e male.
Nella Carriera di un libertino sono fusi tre archetipi mitici, quello di Faust, quello di Don Giovanni e quello della lotta dell’uomo con le morte e con il diavolo, rappresentato dalle partita di carte. All’ombra (Nick Shadow, ossia Mefistofele) che si offre di servirlo, Ton-Rakewell chiede la realizzazione di tre desideri: il piacere, l’assoluta libertà spirituale, la salvezza del mondo. In realtà anche questi desideri sono tentazioni del diavolo, che non esita a chiedere la ricompensa pattuita dope averne svelato l’illusione. Tom però lo beffa indovinando con il pensiero rivolto ad Anne le tre carte; e a colui non resta che renderle pazzo: Tom non riconoscerà più Anne e si spegnerà in manicomio fantasticando in sogno di Venere e Adone, in una scena che riconto alla lontana le visioni mitologiche di Faust.
L’Epilogo non è soltanto la conseguenze drammaturgica a lieto fine della struttura tradizionale di un’opera settecentesca a forme chiuse, ma anche la spiegazione della morale che dà un senso a tutto e ristabilisce un ordine di valori indiscutibile. Qui Stravinsky e Auden capovolgono il significato del mito di Faust nella interpretazione di Goethe: ma il ricorso all’ironia e all’oggettività disincantata non distrugge affatto, ma semmai rafforza, la spiegazione. Che è duplice: se non sempre un libertino può essere riscattato dall’amore, né trovare in una donna il simbolo dell'””eterno femminino””, l’ambizione a superare i confini della conoscenza e dell’arbitrio porta a una brutta fine; e benché ci sia perfino qualcuno che ne nega l’esistenza, come dice lo stesso Shadow, il diavolo s’annida da qualche parte, e con chi sta nell’ozio ha buon gioco.
L’opera si chiude così con un anticlimax ad effetto, che sembra ricondurre, come in un ciclo periodico, alla situazione iniziale. Ed è evidente che Stravinsky consideri anche il mito di Faust, come l’Opera in sé, una costante immutabile: un archetipo appunto, quasi privato, nella sua idealità, di svulippi e di evoluzioni economiche. Quasi a dire: la tragedia c’è, noi lo sappiamo, ed è grande: ma a che vale insisterci e disperarsi?
Non c’è da stupirsi perciò che il suo Faust giunga, per via di togliere, a identificare la libertà nella costrizione, e il fine in un principio. Non siamo poi molto lontani da una visione cristiana, se non addirittura cattolica, del personaggio e del suo destino. La lotta interiore di Faust si scioglie così nella liturgia della forma, che celebra i suoi riti senza dramma né passione. Così facendo Stravinsky nega che all’uomo sia consentito raggiungere con le sue proprie forze la trasfigurazione e la redenzione: al pessimismo di questa valutazione si oppone però la fede in valori certi e immutabili, che si rispecchiano nella tradizione e nella capacità di rinnovarla con la qualità, nuda ma non cruda, della creazione artistica.
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Vostre Faust, “”Fantaisie variable genre opéra”” di Michel Butor e Henri Pousseur (1969), appartiene a un genere teatrale di moda negli Anni Sessanta, quello dell’opera aperta, o variabile o “”mobile””, come la definiscono il titolo e gli autori. L’argomento è questo. Il giovane compositore Henri giunge in teatro, dove sta per essere reppresentata un’opera su Faust, per tenere una conferenza sui problemi della musica moderna.
Per metterlo alla prova, il Direttore del teatro gli propone di scrivere lui un’opera sullo stesso soggetto. Henri accetta. Nella prima parte del Vostre Faust, questo il titolo dato alle nuova opera. Henri incontra Maggy, una cameriera del cabaret vicino alla chiesa. Costei cerca di sottrarre Henri al suo pericoloso destino, ma il Direttore riesce ad allontanarla dalla scena. I due si danno un appuntamento per andare alla fiera ad assistere a una rappresentazione del Faust con le marionette.
Nell’intervallo, il Direttore si presenta al pubblico e propone una votazione: Henri dovrà andare alla fiera in compagnia della ragazza di cui è innamorato e che vuole salvarlo o di un’altra, per esempio Greta, la sorella di Maggy? Due attori girano tra il pubblico distribuendo palline rosse e verdi per la votazione. Ma l’intervento del pubblico non si fermerà qui. Nella seconda parte dello spettacolo, esso potrà partecipare direttamente all’azione scenica, al fine di correggere o perfino capovolgere il risultato della votazione. Gli sono consentiti però solo quattro interventi. Ciò significa che la storia raccontata potrà avere cinque diverse conclusioni; le quali, secondo il tragitto percorso, si combinano con sei epiloghi, ciò che dà trenta possibilità di fine, trenta risposte al problema posto.
Proprio per consentire la partecipazione del pubblico (la quale potrà essere sia individuale che collettiva) l’opera si compone di pagine autosufficienti, tessere di un mosaico che possono comporsi in modi diversi, e che contemplano non soltanto diversi organici (limitati però dalla natura di piccola opera) su vari testi, ma anche diversi stili musicali e perfino molte citazioni da opere di argomento faustiano, per esempio di Gounod. Teoricamente, dunque, l’intervento del pubblico è influenzato non soltanto dalla scelta su come far procedere la vicenda (se verso la salvezza o verso la condanna di Henri), ma anche dalla reazione, perfino motivata da un giudizio estetico, ai “”segnali musicali”” che via via si succedono. E si impone per di più, a questi diversi impulsi, una scelta oculata, giacche, esauriti i quattro interventi, il destino sarà ormai fissato e la macchina teatrale condurrà inesorabilmente a un risultato immodificabile.
Vostre Faust (dove quel “”vostro”” è da intendersi in molteplici accezioni: il Faust di Butor, di Pousseur, del compositore Henri, del pubblico e così via) non è un’opera costruita secondo i principi dell’alea ma riassuntiva delle diverse versioni del mito di Faust (dalle marionette a Marlowe, da Goethe a Gerard de Nerval, da Berlioz a Gounod; con citazioni figurative e sceniche perfino di Rembrandt e Delacroix) e insieme aperta a nuove possibilità di interpretazione anche con mezzi linguistici nuovissimi, dalla musica seriale a quella elettronica. E se l’argomento basato sulla storia di Faust consentiva, partendo per lungo viaggio di ricerca e di sperimentazione, di appoggiarsi a qualcosa di conosciuto, il tema stesso si prestava ad essere sviluppato in un progetto eli tal fatta senza perdere il suo valore simbolico e universale: Faust come allegoria del labirinto e dell’avventura umana, e di quella artistica, secondo coordinate novecentesche, in ispecie. Ma ancor più importante è l’utilizzazione della storia di Faust come materia di rappresentazione teatrale onnicomprensiva e nello stesso tempo di forma variabile, mediazione sul teatro e sulle sue funzioni tutte da scoprire e da verificare: sotto questo aspetto il punto di partenza delle escursioni di Butor e Pousseur è, o sembra essere, il Prologo in teatro di Goethe. Cioè, l’inizio stesso del Faust.
C’è anche un altro aspetto che merita di essere sottolineato. Assegnando al Direttore del teatro il ruolo di Mefistofele, e al compositore di musica moderna Henri quello di Faust, resta sottinteso che al pubblico spetti il compito di esercitare le funzioni di Dio. E’ lui che può salvare o condannare Henri; fargli scrivere o no il Faust, apprezzare o meno le sue azioni; condurre a buon fine l’opera. Il suo ambito di intervento è tuttavia limitato, come si è detto: se gioca male le quattro carte, perde e resta sconfitto. Anche Dio, dunque, è parte di un ingranaggio mobile: e il suo rappresentante in teatro, il pubblico, un elemento sì intrinseco all’azione scenica – il burattinaio che tira i fili – ma anche limitato e condizionato. Con un vantaggio però: se il lavoro non gli va, può fischiare oppure andarsene; o magari distruggere con le sue stesse mani l’opera, perchè avviata a una fine ingloriosa.
“Progetto Faust”, atti del convegno di studi , Teatro Comunale di Treviso-Teatro Sociale di Rovigo. Treviso, Salone dei Trecento, 14, 15 e 17 ottobre 1986. Rovigo, Palazzo Roncale 16 ottobre 1986. Edizioni Ente Teatro Comunale di Treviso, 1991