Morte (attuale) e trasfigurazione (operistica)
Per molto tempo l’opera lirica ha evitato di confrontarsi con la storia contemporanea. Nata aristocratica (“”spettacolo veramente da principi””, l’aveva ai suoi albori definita Marco da Gagliano), aveva portato sulla scena, in una lingua forbita e nobile, dei e semidei, ai quali conveniva il canto più della parola. Il fatto che in essa i personaggi dovessero recitar cantando sembrava renderla inadatta alla misura realistica. Agli dei e ai semidei si vennero poi sostituendo gli eroi della storia antica; uomini in carne ed ossa, colti nella realtà della vita quotidiana, comparvero dapprima nel genere buffo, sotto forma di commedia o di farsa, pur nella stilizzazione delle convenzioni comiche. Il melodramma dell’Ottocento seppe conquistare al teatro musicale una bella dignità borghese, cucendosi addosso nuovi abiti; ma subito Wagner lo riconsegnò al rango del mito, rispecchiandovi simboli da ricercare nel profondo, o da contemplare nell’alto dei cieli.
L’opera del Novecento è in gran parte espressione di un disagio, esistenziale e linguistico. Ma anche quando affronta temi legati all’attualità, sembra fuggire la realtà e darne semmai una testimonianza riflessa, denunciare malesseri e inadeguatezze spingendosi sempre più verso terre desolate. Se parla dell’uomo contemporaneo, lo fa pur sempre per mediazioni: letterarie, teatrali e formali. Per contro, l’evasione dai soggetti della vita contemporanea significa anche riconoscimento della difficoltà di coniugare i mezzi che dell’opera sono propri secondo i modi e i tempi del presente: il suo fine non è descrivere la realtà ma ciò che si trova dietro la facciata dell’apparente, forse dell’esistente.
The Death of Klinghoffer (La morte di Klinghoffer), la nuova opera del compositore americano John Adams e della poetessa Alice Goodman presentata in prima mondiale a Bruxelles, è un esempio di opera basata sull’attualità. Ma è un’opera in senso antico, se non vecchio: nonostante lo spunto, che è fornito dalla tragedia dell’Achille Lauro, e il libretto, che è la cronaca fedele del sequestro compiuto da quattro terroristi palestinesi e conclusosi con l’uccisione di Leon Klinghoffer, un ebreo americano invalido in crociera. Una storia di ordinaria brutalità dei nostri tempi che potrebbe nella sostanza appartenere a ogni epoca.
Adams e la Goodman costruiscono l’opera classicamente, articolandola in due atti incorniciati da un prologo e da un epilogo e suddividendola in scene a sé stanti, legate da preludi e interludi orchestrali. E ciò lascia subito intendere che l’opera non vuol tanto creare una nuova drammaturgia per raccontare una vicenda contemporanea quanto evocare, illustrare e interpretare ciò che vi sta dietro: non solo gli stati d’animo e le reazioni dei personaggi ma anche le motivazioni che li muovono, sotto il profilo sia psicologico che ideologico. Essenziale è a questo fine la funzione del coro, che si presenta fin dall’inizio suddiviso in due schieramenti speculari, simmetricamente contrapposti: i palestinesi e gli ebrei in esilio. Questa contrapposizione si scioglie nel corso dell’opera per rivelare un’identità di fondo: le vicende di individui anonimi implicati in una serie di fatti tragici non sono che la manifestazione di un destino di sofferenza radicato nella storia universale dei popoli. Questo destino comune è l’esilio nel deserto, conseguenza di un giogo che opprime nella stessa misura persecutori e vittime. L’uccisione di Klinghoffer diviene così metafora di un sacrificio rituale compiuto per esorcizzare il male: e infatti il suo corpo martoriato e gettato in mare risorgerà per intonare il canto dell’espiazione e del perdono. Da ultimo una voce fuori campo invoca Dio perché sollevi gli uomini, al di là delle fedi, dall’oscurità in cui sono precipitati. Il messaggio dell’opera è esplicitamente religioso e per essere compreso viene detto, non cantato o evocato dall’orchestra. Così facendo, l’opera abbandona del tutto lo spunto di attualità, si interroga sul valore della storia e abbraccia il mito: offrendo, nel tono della catarsi, un segno positivo di speranza. Ma questo rimane estraneo al linguaggio dell’opera proprio in quanto esce dai confini di una convenzione fino a quel momento pienamente rispettata.
L’aggancio con l’attualità va allora cercato altrove. Ma è un aggancio per così dire rovesciato. Lo si può forse trovare nella contrapposizione fra la ricostruzione “”obiettiva””, documentaria e puramente esteriore offerta dalla televisione e quella assai più sfuggente, stratificata su più livelli, del teatro. Durante tutta la rappresentazione noi vediamo i particolari di ciò che sta accadendo riprodotti su uno schermo gigante calato in mezzo alla scena. La presenza costante della telecamera si materializza così in immagini, anzi nella cultura delle immagini. Ma è una visione superficiale, distorta e falsificata nell’ottica. stessa del documento-verità. Essa non coglie infatti che l’esteriore; mentre il teatro, trasfigurando con i suoi mezzi le immagini in gesti simbolici, in valori sentimentali e spirituali, in comportamenti ora disperati ora umanamente commoventi, dà altri significati all’irrompere della violenza e della crudeltà, all’atto terroristico nel quale aguzzini e vittime sembrano preda di un’identica paura, di una stessa incapacità di dominarsi e di capire. Per questo il teatro diviene il luogo del commento e della decifrazione, e poi della liberazione, nella drammaturgia musicale dell’opera. Dove il canto aspira ad abbandonare il declamato monocorde e statico per aprirsi ad ariosi sostenuti dall’orchestra con insistita densità timbrica. Senza smentire il suo modo di comporre basato sulla tecnica delle iterazioni di piccole unità ritmiche e melodiche, con ambizioni però non più solo “”minimaliste”” , Adams recupera in blocco i mezzi espressivi dell’opera, anzi della storia dell’opera: cori memori delle suggestioni di antiche polifonie, interludi che sviluppano musicalmente i contrasti, forme chiuse che hanno l’impianto dell’aria, insiemi che si risolvono in concertati. E una musica che procede a scatti, a episodi, rinunciando programmaticamente alla continuità drammatica per riconquistare i simboli di un’aspirazione antica, originariamente finalizzata alla comunicazione: quasi a voler fissare in un linguaggio allusivo, essenziale ed espressivo fino all’evidenza, stati d’animo e pensieri di una condizione umana e spirituale immodificabile. Ciò che l’opera è sempre stata, indipendentemente dalla contemporaneità dei soggetti, lo ritroviamo compendiato qui, nel bisogno di credere in qualcosa di assoluto, oltre l’apparenza. E perfino la regia post-moderna di Peter Sellars, in quella scena fissa metallica che incombe e che inghiotte l’azione come nel ventre di un orrendo mostro marino costruito dalla civiltà, sembra il rito iniziatico di una celebrazione del teatro come forma antica e insieme eterna della ribellione e del compianto.
Musica Viva, n.5 – anno XV