II 4 novembre 1876, sul podio del teatro granducale di Karlsruhe, Felix Otto Dessoff teneva a battesimo una novità assoluta, la Prima Sinfonia di Johannes Brahms. Senza ottenere, da principio, un successo particolarmente vivo, la Sinfonia in do minore si guadagnò tuttavia apprezzamenti lusinghieri e, fra gli altri, una lode curiosa, quella di Hans von Bülow, che la definì la «decima Sinfonia di Beethoven». Quest’espressione, rimasta poi addirittura proverbiale, a Brahms sicuramente fece molto piacere, sciogliendo per così dire un nodo cruciale della sua carriera creativa; giacché forse erano proprio quelle le parole che sperava di sentirsi dire, come quelle che avrebbero potuto scacciare l’incubo storico che, sommandosi alla patologica insicurezza che lo affliggeva continuamente, fino a ora (aveva già quarantatre anni) gli aveva impedito di offrire al mondo della musica una sua Sinfonia: «Non puoi avere un’idea di quel che si sente avvertendo dietro le spalle i passi di un gigante come quello», aveva confidato a Hermann Levi parlando della difficoltà di comporre una Sinfonia con la consapevolezza di ciò che aveva fatto Beethoven. Il quale, peraltro, aveva cominciato a costituire un problema anche per le generazioni precedenti a quella di Brahms: idolo e spauracchio a un tempo per tutto il Romanticismo musicale tedesco, Beethoven aveva lasciato l’imbarazzantissima eredità di un concetto della forma profondamente rivoluzionato, al punto da impedire irrevocabilmente qualsiasi ritorno alla sicurezza del tempo di Haydn o Mozart.
Non sempre capace di raccogliere in pieno la lezione – del resto difficilissima – di Beethoven, l’Ottocento tedesco aveva imboccato vie in più di un caso devianti: all’impegno temibile della grande forma assoluta sostituendo sovente l’articolazione in piccoli pezzi brevi, dove si insinuavano leggi creative anche notevolmente compromesse con esigenze extramusicali, fino a sconfinare nella musica a programma, o comunque nell’ibrido estetico del connubio fra musica e ispirazione letteraria. Tanto peggio, poi, quando si aveva a che fare con la Sinfonia, che di per sé moltiplicava le incertezze formali in misura proporzionale alle possibilità, ormai larghissime, offerte dall’orchestra ottocentesca, e al peso storico che sulla forma, sul nome stesso di Sinfonia, gravava, al solito, dopo Beethoven, e specialmente dopo la Nona: opera che perfino Wagner prenderà a modello nel costruire la sua idea di dramma musicale totale.
Con il trascorrere del tempo, di fronte al perfezionarsi della rivoluzione teatrale wagneriana ispirata da Beethoven, la questione era parsa aggravarsi. Se Schubert aveva imboccato una nuova via verso il rinnovamento della forma sinfonica – via bruscamente interrotta per la morte prematura del compositore –, l’ultimo grande lavoro che rendesse effettivamente ragione del suo titolo di Sinfonia era venuto nel 1850, con la Renana di Schumann, seguita un anno dopo dalla rielaborazione definitiva della Quarta. Per quasi un ventennio, dopo di allora, la civiltà musicale germanica non era riuscita più a produrre una Sinfonia vera e propria, se non per opera di autori minori, condannati all’oblio, o di quell’Anton Bruckner, fervente wagneriano, che sarebbe poi divenuto, suo malgrado, l’antagonista di un confronto con Brahms sia storicamente che costituzionalmente improponibile.
Condizionato in due direzioni opposte dalla consapevolezza storica (non imitare Beethoven, e tuttavia mantenere una continuità con il suo esempio), in guerra contro tanta parte delle tendenze proprie del suo tempo e insieme da esse influenzato forse oltre la sua stessa volontà, Brahms si trovava ad affrontare l’impegno sinfonico gravato anche dall’insicurezza e dall’autocritica che erano da sempre i suoi scomodi compagni di strada. Quasi a prepararsi al compito, dopo una prima rinuncia, nel 1854, e un’altra ancor più dolorosa, nel ’62, e poi fra questa e il finalmente sopraggiunto momento del battesimo della Prima, Brahms si era imposto il lungo noviziato della musica da camera: la forma sperimentata e manipolata negli organici ristretti – e dunque con l’impegno etico ridotto, secondo una scala di valori tacitamente accettata – dati dalla combinazione di poche parti strumentali solistiche (e anche qui con prudenza: alla forma più nobile del Quartetto per archi arrivando solo nel 1873, preferendo prima indugiare nel genere più «leggero» della musica con pianoforte). Della Sinfonia era venuta poi la prova generale, con le Variazioni su un tema di Haydn: dove la tecnica dell’elaborazione tematica integrale, idealmente suggerita da Haydn e compositivamente ricavata da Beethoven, ma come per via traversa, si sposava per la prima volta in lui con l’orchestra, fino allora, con l’eccezione del Concerto per pianoforte op. 15, confinata in pagine di poca ambizione, come le due Serenate, o unita alle voci nelle massicce architetture sinfonico-corali del Deutsches Requiem (1869).
Nonostante l’investitura a erede di Beethoven, il successo della Prima Sinfonia a Brahms era certo parso provvisorio. Neppure un anno dopo venne la Sinfonia in re maggiore, la Seconda. E come la creazione dell’una aveva richiesto tempo e sofferenze e fatica, così l’altra nacque con serena naturalezza, quasi ogni ostacolo e ogni difficoltà si fossero dissolti, bruciati nello sforzo della prima prova, lasciando al musicista la sicurezza e l’agilità, dell’animo non meno che della mano, necessarie alla successiva: placida, affettuosa, scorrevole e serena, tanto quanto originale e formalmente densa. Definitivo superamento del condizionamento psicologico insito nel modello di Beethoven.
Ma non scioglimento di tutto quello che Brahms aveva da dire nel campo della Sinfonia. Dopo un lasso di tempo colmato dal Concerto per violino, dalle Ouvertures Accademica e Tragica, dal Secondo Concerto per pianoforte op. 83 – deviazioni ma non elusioni del percorso di base – ancora non una, ma due Sinfonie a brevissima distanza di tempo (rispettivamente nel 1883 e nel 1885), secondo quell’istintivo lavorare «per coppie» che fu quasi una regola, forse anch’essa ereditata da Beethoven, dell’operare compositivo di Brahms. La Terza Sinfonia in fa maggiore, con il suo crepuscolare intimismo, la sua struggente malinconia di continuo indugiante in assorte contemplazioni di raffinata cesellatura – specchio di un tormento che giunge a sfiorare l’angoscia proprio nei momenti in cui cerca di occultarla e di risolverla formalmente – è un capolavoro nato da un rinnovato imperativo a creare ma non il raggiungimento dell’opera unica e definitiva, cui l’impegno sinfonico di Brahms per vocazione mirava. Così egli si accostò alla Quarta Sinfonia in mi minore consapevole che sarebbe stata l’ultima, e decise perciò a farla perfetta anche ideologicamente, congiungendo la dottrina e la tecnica del comporre, giunte all’ultimo tratto di maturazione, a una varietà e a un’intensità di emozioni illimitate, così in superficie come in profondità. L’ultimo tempo della Sinfonia in mi minore, che chiude la parabola creativa brahmsiana nel campo della Sinfonia recuperando la forma barocca della Passacaglia e dilatando le possibilità – costruttive ed espressive – della variazione integrale a misure impensabili, non è soltanto uno dei più grandiosi e perfetti finali di Sinfonia ma «il» Finale della Sinfonia nata e cresciuta nella tradizione classica. Ciò che Beethoven aveva annunciato nella Nona con l’aiuto della voce umana e della parola poetica, Brahms compie ora sotto il profilo puramente strumentale, riannodando la tradizione sinfonica ai suoi fili originari e preservandola dalla ormai imminente, ineluttabile rottura. Così facendo, Brahms trova e realizza la sua identità di sinfonista non di là oltre Beethoven, ma, compiendo un passo indietro gravido di conseguenze, di qua prima di lui, esorcizzandone e revocandone la presenza. Ed è l’unico, fra i sinfonisti dell’Ottocento, a salvarsi dalla catastrofe della fine di un’epoca, quella della Sinfonia.
Nuova Civiltà, gennaio-febbraio 1984