Brahms – Concerto n. 1 in re minore per pianoforte e orchestra op. 15

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Concerto n. 1 in re minore per pianoforte e orchestra di Brahms

È noto che la nascita del Primo Concerto per pianoforte e orchestra di Brahms fu lunga e tormentata, e avvenne per fasi successive. Il lavoro, abbozzato negli anni 1852-53, avrebbe dovuto portare alla creazione di una Sinfonia, come Brahms desiderava e come anche il suo mèntore Robert Schumann si era entusiasticamente augurato (“Se egli abbasserà la sua bacchetta magica là dove le potenze delle masse corali e orchestrali gli potranno concedere le proprie forze, noi potremo attenderci di scoprire paesaggi ancor più meravigliosi nei segreti del mondo degli spiriti”: è un passo del celebre articolo Vie nuove, 28 ottobre 1853). All’inizio del 1854 il progetto originario si trasformò in una Sonata per due pianoforti, scelta evidentemente ritenuta utile da Brahms, pianista eccelso, per avvicinarsi all’idea di Sinfonia attraverso un cartone preparatorio che si basasse sullo strumento che conosceva meglio e che gli era più congeniale. Nell’estate del 1854 Brahms lo orchestrò per farne un primo tempo di Sinfonia; ma nel corso dell’anno abbandonò l’idea della Sonata, informandone l’amico violinista Joseph Joachim: «Ritengo che lascerò da parte la mia Sonata in re minore. Ho suonato spesso i primi movimenti con la signora Schumann, e sono sempre più convinto che nemmeno due pianoforti siano sufficienti». Proprio a Clara Schumann, sempre nel 1854, Brahms comunicava di aver “”trasformato la mia Sinfonia abortita in un Concerto per pianoforte””.

Da quel momento il processo compositivo, pur non mutando più l’obbiettivo, passò attraverso una serie innumerevole di ripensamenti e di riscritture: il primo movimento fu rimesso in discussione più volte e rielaborato ancora nel 1856-57; quello centrale, in origine una sarabanda in tempo Lento funebre, respinto e sostituito da un Adagio (verrà riutilizzato, anni dopo, nel secondo coro del Requiem tedesco); il terzo integralmente riscritto nel 1857. Tutto questo fervore compositivo si protrasse fino al 1858, senza che Brahms fosse interamente soddisfatto del suo lavoro. Nel marzo 1858 fu organizzata una prova segreta del Concerto con l’autore al pianoforte e solamente pochi amici presenti: tra questi Joachim, divenuto ormai, dopo la morte di Schumann, il consigliere ufficiale di Brahms. Nuovi dubbi e nuove modifiche. Per quanto Brahms si rendesse conto di non poter più incidere a fondo su un ordito sonoro ormai troppo fitto, era pur necessario alla fine giungere a una conclusione. A Joachim confessò: «Su questo Concerto non riesco più ad avere un giudizio obbiettivo, come non riesco più ad avere, su di esso, alcun potere».

La prima esecuzione del Concerto avvenne il 22 gennaio 1859 ad Hannover, solista lo stesso Brahms, direttore Joachim, con accoglienza tiepida. Si trattava in realtà di un’anteprima in vista della presentazione al Gewandhaus di Lipsia del 27 gennaio (direttore Julius Rietz, solista ancora Brahms), dove il Concerto fu subissato dai fischi. Il giorno dopo Brahms, scrivendo a Joachim, osservò: «Penso, comunque, che questo risultato sia il meglio che potesse capitarmi: mi induce a lottare, mi dà coraggio. Dopo tutto sono ancora in una fase di sperimentazione e sto orientandomi a tentoni. Però, a ben pensarci… i fischi erano davvero troppi». Una successiva esecuzione ad Amburgo, il 24 marzo, venne nuovamente diretta da Joachim e si risolse in un successo formale, di stima. Brahms decise allora di ritirare il Concerto, e vi apportò ancora qualche miglioramento in vista della pubblicazione, uscita nel 1861. Come interprete lo riprese solo nel 1865, sotto la direzione di Hermann Levi, non ancora passato al partito wagneriano. Ma per vederne la definitiva consacrazione si dovranno attendere gli anni Ottanta, quando i trionfi del secondo Concerto si rifletteranno anche sul primo.

L’op. 15 è il frutto cli un’ossessione (scrivere una Sinfonia, sogno che avrebbe dovuto attendere fino al 1876 per realizzarsi) e di una ricerca accompagnata da uno strenuo spirito di autocritica. La conseguenza fu una contraddizione risolta con un compromesso, adottando uno schema tradizionale per un modello alternativo. Non stupisce quindi che il destino del Concerto fosse contrastato e difficile. Molti dei rilievi che gli vennero mossi dai primi ascoltatori (e non bisogna dimenticare che Brahms ebbe fin dall’inizio ascoltatori attenti e non prevenuti) sono in parte comprensibili. In effetti il Concerto in re minore è lontano dalle convenzioni del concerto per strumento solista, in quanto il pianoforte e l’orchestra vi sono trattati su un pia-no di assoluta parità: il che lo fece sembrare una Sinfonia con pianoforte obbligato. La stessa evidente ambizione di rifarsi al Beethoven drammatico ed eroico (soprattutto a quello del Terzo Concerto in do minore) collide con la profusione di passaggi divaganti e sospesi (nel senso del phantasieren romantico alla Schumann) e con il contenuto eterogeneo, appassionato, malinconico, giocoso, dei temi. Insomma esso ci appare come un lavoro di sperimentazione che solo a posteriori avrebbe trovato la sua giustificazione e la sua esatta collocazione nella storia del Concerto per pianoforte: costituendo, di essa, una sorta di ultimo anello. E ciò che ce lo fa apprezzare nel suo pregio e nella sua novità, poteva apparire all’epoca di composizione un difetto. L’accusa ricorrente, che a noi appare infondata, di non offrire al solista alcuna occasione di protagonismo, va anch’essa intesa secondo un’ottica che aveva a punto di riferimento la letteratura brillante, o quella salottiera, del tempo: assorbite entrambe da Brahms, ma finalizzate ad altri scopi. Pur privo di vere e proprie cadenze (del tutto abolita quella fondamentale del primo movimento), la parte pianistica presenta notevoli difficoltà tecniche (arpeggi rapidissimi, doppie terze e seste, tripli trilli, doppie ottave, decime spezzate nella mano sinistra, eccetera: senza contare la densità massiccia degli accordi, mossi da una stratificata polifonia interna), ma non nel senso della esibizione virtuosistica. Giacché la sua sostanza rimane quella di un pensiero sinfonico integrato e ampliato al pianoforte.

L’impegno costruttivo e architettonico si manifesta soprattutto nel tempo d’apertura, che da solo occupa quasi la metà del Concerto. Ma non si tratta tanto di questioni di durata quanto di intenzioni. Nell’indicazione Maestoso e nella stessa tematica è impossibile non ravvisare l’ombra incombente della Nona Sinfonia di Beethoven (che Brahms, fra l’altro, aveva ascoltato per la prima volta a Colonia nel marzo 1854, proprio durante la gestazione del Concerto). L’introduzione orchestrale, di eccezionale ampiezza (90 misure), è di altrettanto eccezionale complessità: al primo tema, appassionato, cupo, tempestoso, sostenuto da un lungo pedale cromaticamente discendente, quasi basso dilatato di passacaglia, segue una dolce parentesi lirica, di trepida emozione, da cui si originano, prima e dopo il riapparire del primo tema, singoli spunti che verranno ripresi ed elaborati dal solista nel corso del movimento. L’entrata del pianoforte, punteggiata da trombe e timpani soli, è pensosa e severa, quasi velata, e può ricordare un corale. La progressiva integrazione tra solista e orchestra avviene nella gigantesca riesposizione e prosegue, alternando slanci e ripiegamenti, monologhi e dialoghi (tra i quali spicca quello poeticissimo con il corno), nell’intenso e tuttavia stringato sviluppo: per trovare infine nella ripresa, avviata questa volta dal pianoforte, la piena estrinsecazione di sostanza e decorazione, di forza drammatica e concentrazione espressiva.

L’Adagio in re maggiore si apre con un tema introverso degli archi con sordina, accompagnati in terze dai fagotti, poi ripreso dal corno. Molto dolce ed espressiva è l’entrata del pianoforte, che elabora liberamente, come in un intermezzo fantastico, frammenti del tema. La parte centrale, affidata ai legni, ha un profilo più vivo e marcato, mentre il ritorno del primo tema, tra accordi ed arpeggi del pianoforte, sospingerà l’Adagio verso sonorità celestiali, di astratta purezza trascendente. L’epigrafe che accompagnava questo movimento nel manoscritto posseduto da Joachim (“”Benedictus qui venit in nomine Domini””) ha fatto per anni la delizia dei commentatori, già portati a riconoscere nel Concerto un’impronta programmatica (il primo biografo di Brahms, Max Kalbeck, aveva visto nel primo tempo l’evocazione del dramma della follia di Schumann). L’intestazione (cancellata in seguito) è stata interpretata in vari modi: come traccia di una Messa non completata o come un ritratto musicale di Robert e Clara Schumann. A noi pare che possa essere considerata semplicemente un devoto omaggio a Beethoven (Missa solemnis).

L’Allegro non troppo finale è nella forma del Rondò. Un tema vigoroso, un po’ rude e scontroso nei suoi nuovi tratti di danza popolare, viene esposto dal pianoforte, solo, passa all’orchestra, ritorna al pianoforte e poi invade baroccamente il Tutti. Una sua variante, di tono più leggero e lirico, introduce la parte più melodica del movimento, che culmina non inaspettatamente in un fugato a quattro voci degli archi in si bemolle minore. Seguono il ritorno del tema iniziale in re minore, una breve cadenza del pianoforte e la ripresa dell’elemento fugato da parte degli strumentini, in re maggiore. Nonostante la maestria dell’elaborazione e delle variazioni, e qualche nota asprigna di ironia mozartiana, questo finale denuncia un’intenzione dimostrativa, forse residuo della sua prolungata genesi, e la volontà di chiudere ad ogni costo con un’affermazione positiva.


Wolfgang Sawallisch / Mattias Goerne, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione sinfonica 2000-2001

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