Che bello, l’Eugenio Onieghin di Ciaikovsky! E che bello che due nostri teatri importanti, che inseguono la qualità e si sforzano per realizzarla, ne abbiano date due edizioni così diverse a poche settimane di distanza, e si siano impegnati per farci amare Ciaikovsky dopo averlo amato essi stessi in sede di preparazione; e che bello che il pubblico, a Bologna come a Venezia, abbia risposto alla grande, riempiendo i teatri ogni sera di entusiasmo e di emozione, appassionandosi non solo alla storia e ai personaggi ma anche alle avventure dell’interpretazione, magari stimolato dal confronto. “”A Bologna i ga i nomi, ma i xe veci, ciò””, diceva nell’intervallo un simpatico vecchietto veneziano a un amico che già a caldo avanzava qualche paragone: senza orgogli campanilistici, ma con quell’amore per il teatro e l’opera che è il bene più saldo, la ragion d’essere ancora oggi del più affascinante spettacolo del mondo.
Punti di forza differenti contribuivano in entrambi i casi a delineare proposte interpretative di alto profilo, che non si escludevano a vicenda. A Bologna, la presenza di un direttore come Vladimir Delman, in autentico stato di grazia, e di cantanti come Mirella Freni e Nicolai Ghiaurov, che sembravano quasi rivivere sulla scena la serena pienezza del loro incontro nella vita (e se i “”veci”” fossero tutti così, benedetta quell’età), dava già sulla carta la garanzia di una esecuzione nella quale protagonista sarebbe stata prima di tutto la musica, con al centro la figura di Tatiana, cui la Freni avrebbe dato assoluto risalto vocale e scenico. Così è stato, e in un modo che non si scorda più. C’è un destino già scritto nei personaggi, quando sono interpretati da artisti di questa classe e personalità: la loro solitudine, la loro individualità e forza interiore li pone per così dire al di sopra della storia, in una dimensione, irraggiungibile, di sogno. Fin dalla scena della lettera, che con la Freni diviene molto più di una dichiarazione d’amore scaturita di getto dall’animo impressionabile di una fanciulla romantica, si comprende che Tatiana non potrà essere corrisposta da Onieghin; neppure dopo, quando le parti si invertono, e sarà lui a dichiararle il suo amore.
Ma c’erano, a Bologna, anche i “”giovani””: Paolo Coni (Onieghin) e Giuseppe Sabbatini (Lensky). Voci importanti, mature al punto giusto per affrontare la prova e uscirne a testa alta da ogni punto di vista, salvo uno: quello della presenza scenica. Il fatto è che nell’Onieghin di Bologna mancava la regia, sicché le stesse scene, convenzionali e oleografiche, di Meskhishvili, fornivano soltanto un contenitore vuoto, più amorfo di quello che in sé erano o potevano essere. Naturalmente il regista c’era, Robert Sturua: ma non riempiva né di gesti né di intenzioni i movimenti dei personaggi; li lasciava, per così dire, a se stessi, perché seguissero un proprio corso di pensieri e di emozioni, e li esprimessero con la forza della loro personalità, così come gli suggeriva l’istinto. E ciò non bastava per stringere la trama delle passioni, soprattutto di quelle più sotterranee e nascoste, che nell’opera sono le più influenti e decisive, posto che le si colleghino alla musica. Eppure, tutto riusciva così chiaro dalla direzione di Delman, dal suo guardare oltre la superficie, nelle pieghe della musica, per dare risalto alle sfumature, alle sottigliezze e ai contrasti, in una lettura sinfonica di esemplare trasparenza e calibratura dei piani sonori, capace di comunicare il senso del dramma, nelle sue tensioni e nelle sue sospensioni corali, con una misura personalissima ancorché perfetta. Questi rapporti, a Venezia, risultavano come ribaltati: tutto qui partiva dalla scena, e nella scena si compiva. Si ha un bel dire, per esempio nei momenti di stizza per operazioni che stravolgono i delicati equilibri fra testo e musica, che nel teatro d’opera la regia viene dopo la musica: quando c’è e funziona, tutti ne traggono vantaggi, dalle scene, che diventano parte integrante della rappresentazione, ai cantanti, che si coordinano e agiscono anche quando non sono in primo piano, agli spettatori, che vedono rispecchiato ed esplicitato ciò che la musica suggerisce e indica, interpretato ciò che il testo vuole sia interpretato. Questo ha fatto Andrei Serban, in una visione molto coerente anche nell’uso delle scene, molto suggestive e benissimo realizzate, di Obolensky, che dalla veduta in esterni del giardino della proprietà dei Larin progressivamente si richiudevano nel doppio ambiente della festa e della casa dell’ultimo atto, isolando i personaggi nel definitivo compiersi del loro destino.
Eccettuata la scena della lettera, che collocata in esterni perde buona parte del suo significato di liberazione da un’ossessione claustrofobica dell’anima ma anche dallo spazio chiuso (quando Tatiana chiede alla Njanja di aprire la finestra, un regista sensibile dovrebbe capire la metafora: non è forse già la stessa invocazione di Mélisande morente?), Serban non ha fatto altro che realizzare ciò che si trova in Ciaikovsky (e in Puskin), ma lo ha fatto con una attenzione ai dettagli e con una sensibilità di interprete che continuamente ci avvicinava stretto stretto al cuore dell’opera. Certo, Tatiana alla fine del primo atto (scena terza) non dovrebbe andarsene via prima che Onieghin abbia finito di parlarle; ma com’è eloquente quel gesto, e come ci dice tutto del suo orgoglio ferito, della sua vergogna e del suo dolore, del suo rifiuto, una volta che ormai tutto le è chiaro, di stare a sentire la predica finale dell’uomo di mondo che, di fronte a tale catastrofe dei sentimenti, non sa far altro che ammonirla: state attenta, con me vi è andata bene, ma un altro avrebbe anche potuto approfittarsene, chiaro no? E splendido, poi, all’inizio del secondo atto, è quel momento in cui Tatiana, prima della festa in cui sa che rivedrà Onieghin, si accascia sul divano, sola, quasi a voler raccogliere le forze per sostenerlo; o gli sguardi che i due si scambiano, increduli, dopo che Onieghin ha fatuamente corteggiato la sorella Olga, provocando il risentimento di Lensky: ancora non sappiamo quale tragedia ne seguirà, ma è come se già l’avessimo intuito. Tutti questi approfondimenti psicologici, questi elementi chiarificatori dell’azione, o di ciò che sta dietro 1’azione, toccano l’apice nella scena finale dell’ultimo incontro fra Tatiana e Onieghin, nei gesti di chi vorrebbe toccarsi e non può, vorrebbe spiegarsi e sa che non serve più a nulla; sicché quella porta inondata di luce che si chiude alle spalle di Tatiana è davvero una condanna definitiva e un riconoscimento del buio come sola dimensione dell’amore, e dell’amore come infelicità.
Dal lato musicale, il punto di forza dell’edizione veneziana erano il gioco di squadra e l’omogeneità anche generazionale della compagnia di canto. Ma il protagonista qui era Onieghin, non Tatiana: e non solo perché Dmitri Hvorostovsky (il debutto più impressionante che si ricordi in Italia da qualche tempo a questa parte) aveva tutti i requisiti scenici e vocali per essere l’Onieghin ideale. Si trattava piuttosto di una conseguenza dell’impostazione registica, nella quale Onieghin appunto fungeva da catalizzatore del dramma: ogni atto si conclude con lui, solo, in scena. Per noi, è l’interpretazione giusta. Ciò non toglieva nulla, anzi, alle altre figure, e soprattutto a Lucia Mazzaria Scandiuzzi, una Tatiana meno primadonna ma di bellissimo rilievo, fresca e convincente nella sua ingenuità e nella sua dolorosa consapevolezza, e a Neil Shicoff, Lensky talvolta incline a forzare ma intensissimo nel fraseggio (e attore formidabile nel quadro del duello, fin dall’aria eseguita con varietà di accenti straordinaria).
Il direttore Vjekoslav Sutej non poteva certo competere con la finezza e l’armoniosa eleganza di Delman; ma nella sua foga talvolta un po’ brutale e disordinata si rivelava qualcosa della modernità di una partitura che oggi non suona più ai nostri orecchi languida e sentimentale, ma semplicemente vera e anche teatralmente emozionante nella sua fortissima drammaturgia musicale. Abbiamo definitivamente conquistato Ciaikovsky, e questi Onieghin di Bologna e di Venezia stanno a dimostrare che siamo alla fase seconda, quella degli approfondimenti e delle riflessioni interpretative che aggiungono qualcosa di nostro anche alla vita dei capolavori, ogni volta rinnovandola.
Musica Viva, n.4– anno XV