Ultimo spettacolo al Comunale di Bologna di una stagione nel complesso molto soddisfacente, La rondine di Puccini aveva il suo maggiore motivo di interesse – non l’unico – nell’esperimento di una nuova soluzione per il finale del terzo atto, che è poi il finale assai tormentato dell’opera. Di che si tratta? Come è noto, la prima versione della Rondine (1917) non lasciò soddisfatto completamente neppure Puccini, che vi apportò alcune modifiche negli anni successivi, e soprattutto nel ’20 e ’21: tanto che è lecito parlare di tre diverse versioni, con cambiamenti più o meno sostanziosi e successivi ripensamenti. Specialmente per il finale, che nei tre casi diverge in modo abbastanza considerevole sia sotto l’aspetto drammaturgico che musicale. Ma con una differenza di fondo.
Il problema consiste nel fatto che solo il finale della prima versione, quello che evidentemente lo stesso Puccini giudicava debole e che in generale mai fu considerato convincente, è orchestrato; degli altri due rimane l’abbozzo o riduzione per canto e pianoforte, in relazione ai cambiamenti apportati sul libretto. Ora Alfredo Mandelli, con l’avvallo dell’Istituto di Studi Pucciniani, propone una via di uscita che ha dell’ingegnoso e che merita grande attenzione. Approfittando anche di una certa giustificazione teatrale – un pianoforte in scena nel grand hòtel della Costa Azzurra dove si svolge l’ultimo atto, in simmetria a quello che figurava nel primo – inserisce quelle sei pagine di spartito che segnano il ritorno in scena del personaggio di Rambaldo e la peripezia del dramma di Magda: e fa cantare i cantanti accompagnati appunto dal pianoforte in scena. Poi riattacca l’orchestra con la prima versione, mentre i cantanti eseguono le parti scritte nello spartito della terza versione, fino alla fine. Che se ne guadagna? Incontestabilmente un finale più logico e motivato, più coerente e dunque soddisfacente. Ciò detto – e ribadito che l’operazione di Mandelli è condotta con cura estrema e competenza – è possibile però avanzare un dubbio, forse soltanto un’impressione: che cioè l’assurda e mielosa prima versione, con la sua incoerenza e illogicità, risulti dal punto di vista della teatralità pucciniana – e tanto più in un’opera di situazioni precarie come la Rondine – assai meno immotivata e inefficiente di quanto si pensi. Siamo sicuri che essa non funzioni, musicalmente, nella sua scabra durezza? E che psicologicamente non sia altrettanto incisiva del logicissimo pentimento di Magda?
Su questo e altro la decorosa edizione bolognese della Rondine ha fatto opportunamente riflettere, più che regalare emozioni. Eppure non si trattava affatto di uno spettacolo mal pensato: alla resa dei conti è mancato però un compiuto assemblaggio tra palcoscenico e orchestra, sicché episodi singoli anche ben definiti non sempre quagliavano in una veduta d’insieme. Vedi per esempio la prestazione ineccepibile di Paolo Coni (Rambaldo) e William Matteuzzi (Prunier), e quella generosissima di Bruno Beccaria (Ruggero): non sempre valorizzate dall’impeto poco incline alle finezze del direttore Thomas Fulton e dalla generica recitazione imposta dalla regia di Samaritani (al solito, meglio come scenografo). Elena Mauti Nunziati, giunta alla prima in sostituzione di altra collega, ha dato spessore al personaggio di Magda con l’esperienza e la grinta. Nel complesso, dunque, non una Rondine esaltante ma senz’altro utile. Non è anche questo un compito che i nostri teatri sono doverosamente tenuti a compiere?
Musica Viva, n. 8/9 – anno XI