Dilaga il Reno, crescono le Ondine
Soprattutto alla fine, dopo il Crepuscolo degli dei che pure dei quattro è lo spettacolo più bello, si rimane con un po’ di rimpianto per quello che complessivamente l’idea di Pier’Alli avrebbe potuto darci del ciclo dell’Anello del Nibelungo, se fosse stata realizzata a tensione meno alterna. La scelta di utilizzare i sussidi delle riprese filmate non tanto per raccontare una storia parallela all’azione e alla musica (siamo miracolosamente scampati dal sapiente che ci spiegasse che Wagner aveva inventato anche il cinema) quanto per risolvere determinati problemi di natura anche teatrale, raggiunge qui i suoi momenti più alti: per esempio nell’episodio della morte di Sigfrido e della marcia funebre, collegando la musica alla sua rappresentazione allusiva, o nella scena finale, dove finalmente l’utopica didascalia wagneriana trova la sua realizzazione più completa (“”Mentre l’intero palcoscenico appare ancora occupato dal solo incendio, il bagliore della vampa improvvisamente si spenge; così che riman subito soltanto una nuvola di vapore, la quale, perdendosi verso il fondo, si posa all’orizzonte a guisa di cupa nuvolaglia. Al tempo stesso, il Reno, cresciuto in gran piena, rovescia il suo flutto sul luogo occupato dal rogo””. Eccetera. Per la prima volta tutto questo l’abbiamo non solo immaginato, ma anche veduto. Ed è stato emozionante). Restano invece le perplessità sull’uso dei film come mezzo evocativo di simboli che nell’essere esplicitati (per di più arbitrariamente) perdono molto del loro significato: vedi cavalli al galoppo, teorie di valchirie e di eroi in passerella, statue di dei nel Walhalla-Museum, paesaggi bui e tempestosi che sarebbero piaciuti tanto a Snoopy e che enfatizzano ingenuamente pur accettabili associazioni. Il pericolo del didascalismo è la trappola dell’operazione coraggiosa di Pier’Alli: e quando gli prende la mano, sfiora la banalità. Un esempio? In un momento di megalomania, forse ispirandosi alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, pensa che sia utile che le tre figlie del Reno siano accompagnate da altri gruppi di sorelle che ne mimano variamente i movimenti quando quelle cantano (prima scena del terzo atto): il povero Sigfrido crede di avere le traveggole, e si tiene prudentemente in disparte. Qui siamo fuori da ogni rapporto col testo. E non è neppure un bel vedere.
Se rimarchiamo questi momenti di imbarazzo (ma onestà impone di dire che in questo caso sono forse gli unici in cinque ore e passa di spettacolo), è solo per ribadire che Pier’Alli avrebbe potuto darci una Tetralogia esemplare, e che la sua idea di base, cadute a parte, era di audace intelligenza, con tratti di invenzione non comuni. La coesione tra inserti filmati e spazio scenico teneva mirabilmente nel Crepuscolo, assai più che nelle precedenti giornate: con momenti di autentica suggestione, proprio nel modo in cui la dimensione teatrale veniva ricreata entro le proiezioni e ne assorbiva le sensazioni, continuamente contrappuntando realtà e memoria. Si aggiunga che Pier’Alli è riuscito anche a collegare coerentemente l’epilogo ai suoi lavori precedenti, molto togliendo di inessenziale e sviluppando invece ciò che non solo stava alla base della sua visione ma ne era anche la parte più viva: la riflessione sul mito come eterna illusione dell’immaginario poetico e spirituale nei suoi archetipi. E questo coglie in fondo un aspetto ben presente nell’opera di Wagner. Tutto sommato l’intera operazione, realizzata dal Comunale di Bologna con pieno coinvolgimento delle sue forze, oggi definitivamente attestate su posizioni di qualità rara, si chiude con un bilancio positivo.
Il fatto che poi questa sia stata anche l’occasione per ammirare senza riserve la civiltà di un direttore finora lodato soprattutto per la sua ineccepibile bravura tecnica è motivo che riempie di gioia. Riccardo Chailly ha dato qui la sua prova più convincente: e scusate se è poco. Ha saputo raccontare la partitura dipanandone i fittissimi intrecci con equilibrio ed eleganza, senza forzare mai le sonorità ma cogliendo tutti i punti culminanti del dramma musicale e caratterizzandone le specifiche valenze. E anche interpretativamente ha suggerito riflessioni interessanti: per esempio che il Crepuscolo non è solo asprezze e contorsioni, orrori e oscurità, ma possiede anche una sua dimensione di fiaba (il primo atto) che si confronta con tradizioni non del tutto dimenticate (secondo atto). Giungere poi alla scena finale facendo sentire tutto l’immenso groviglio di destini che vi si addensano, e scioglierlo a poco a poco nella commozione dell’addio e nella prefigurazione di una speranza di nuova vita, con verità e passione, è qualcosa che può riuscire solo a un musicista di profonda sensibilità, non solo a un bravo direttore. Chiediamo scusa a Chailly se non ce n’eravamo accorti prima. Wagner è capace di queste rivelazioni. Compagnia dí canto superba: cosa prevedibile con Siegfried Jerusalem, Bodo Brinkmann, Matti Salminen, Hartmut Welker, Gabriele Maria Ronge, Florence Quivar, il meglio di cui si possa disporre oggi per i rispettivi ruoli; meno per Sabine Hass, debuttante nella parte di Brünnhilde dopo tante Sieglinde. E invece la Hass ha dato prova di poter competere, almeno sul piano dell’intelligenza e della musicalità (ma anche la voce si è irrobustita e affinata in modo omogeneo, con qualche residuo problema negli acuti), con modelli importanti. Uniche italiane nel cast, Tiziana Tramonti e Benedetta Pecchioli sono ormai ondine collaudate, renane per vocazione. Ma il Reno, quello vero, sembra proprio aver trovato a Bologna questa volta una delle sue migliori trasposizioni. Non sarebbe il caso di ridarla tutta insieme, questa Tetralogia, lasciando a Chailly il tempo di studiare anche Oro e Sigfrido (La Walkiria ce l’ha già) e Pier’Alli quello di riflettere su alcuni punti?
Musica Viva, n. 1 – anno XVII