Berlino, 27 luglio 1924: Busoni ist tot
Il titolo della mia relazione allude evidentemente a una città e a una data connesse a un evento, la morte di Busoni, e a una prima questione, ciò che essa significò nell’ambiente culturale e musicale dell’epoca, gli inizi degli anni Venti in Germania. Questo titolo sottintende però un’altra questione, di più vasta e complessa portata, che desidero introdurre soltanto in forma problematica: le ragioni che portarono alla rapida scomparsa di Busoni compositore dalla vita musicale e dalla coscienza artistica non soltanto di una città a cui furono legate le sue sorti e le sue più importanti affermazioni come musicista, ma anche di una intera nazione, che Busoni aveva eletto a sua seconda patria, la Germania. E allora non potrà sfuggire il riferimento un po’ ellittico al titolo di un celebre saggio di Piene Boulez su un compositore con cui Busoni intrattenne, proprio a Berlino, contrastati ma non effimeri rapporti: Arnold Schönberg. Che cosa sostiene Boulez nel proclamare che Schönberg è morto? Pressapoco questo: Schönberg non è stato coerente con se stesso, fino in fondo, giacché non ha realizzato nella pratica ciò che in teoria aveva sviluppato, la composizione seriale. Dunque non ci interessa più, è un creatore incompleto e storicamento morto. Ma Busoni come c’entra? Procediamo con ordine.
Busoni ist tot. Sotto questo titolo lapidario, i giornali berlinesi dettero la notizia della morte di Busoni già nelle edizioni pomeridiane del 27 luglio (era spirato alle tre e mezza del mattino dopo lunga e penosa agonia) e, con assai maggior rilievo, il giorno successivo, tentando anche un primo bilancio della sua figura. Si insisteva soprattutto sulla grande personalità del pianista, delle cui ultime apparizioni a Berlino si serbava ancora viva memoria, sul vuoto che si veniva a creare all’Accademia delle Arti e delle Scienze, dove Busoni aveva allevato una scuola di compositori di prestigio, sul destino che non gli aveva permesso di portare a compimento l’ultima e più ambiziosa opera, il Doktor Faust. Sono ritratti pieni di rispetto e di reverenza, cui anche i bei caratteri gotici ancora in uso a quell’epoca conferiscono accenti di nobile solennità; ma stranamente reticenti nel definire in modo chiaro la personalità dell’artista, e ancor più quella del compositore. Per quanto i bilanci tirati a caldo non siano mai del tutto attendibili, sembra di cogliere in essi l’imbarazzo verso un fenomeno sfuggente e complesso, se non intimamente contraddittorio: non interamente decifrabile neppure nell’ambiente che più era stato testimone della graduale ma costante crescita delle molteplici attività creative di Busoni.
La storia dei rapporti di Busoni con Berlino abbraccia trent’anni fra i più ricchi di eventi e di fermenti della cultura e dell’epoca moderna. Anche le interruzioni più o meno lunghe che intervallano i tre principali periodi della permanenza stabile di Busoni a Berlino (la breve e deludente esperienza come direttore del Liceo Musicale di Bologna nel 1913-14, l’ultima tournée in America prima della guerra, la tremenda parentesi degli anni bellici trascorsi in volontario esilio a Zurigo) sembrano serbare come punto di riferimento la mèta del ritorno a Berlino, espressione di una Heimatsehnsucht nella sostanza inappagabile. Non che Busoni identificasse Berlino e la Germania come la sua patria, che continuava a rimanere idealmente l’Italia; lì aveva trovato però un equilibrio che, per quanto precario, garantiva un margine di tranquillità e di concentrazione e forniva le premesse per una fertile operosità. Berlino significava anzitutto la casa, oasi di felicità e di abbandono, soprattutto da quando il crescente benessere economico aveva fatto dell’abitazione al numero undici di Viktoria-Luisen-Platz un vero e proprio santuario: la stanza della musica, con gli strumenti prediletti e le reliquie raccolte in ogni parte del mondo durante i viaggi e le tournées, la sterminata e amatissima biblioteca, indice di una tutt’altro che estrinseca vocazione alla cultura enciclopedica, la stanza da fumo, nella quale Busoni riceveva godendosi un buon sigaro, l’ala riservata alle donne, affidata alla discreta sorveglianza della moglie Gerda. Lì Busoni aveva trascorso i suoi momenti più belli, lì da ultimo vorrà morire.
Allorché nella primavera del 1894 aveva stabilito di fissare la sua dimora a Berlino, Busoni era un artista giovane e inquieto, ancora alla ricerca di se stesso. La scelta era stata fatta prima di tutto per motivi pratici: la posizione geografica di Berlino consentiva infatti una relativa comodità negli spostamenti. La prima impressione fu di cordiale, reciproca antipatia; ma Busoni dovette ben presto ricredersi. Berlino, capitale di un impero forte e ambizioso, era una città in rapida ascesa dal punto di vista sia sociale ed economico che artistico e culturale, in un fervore d’iniziative accompagnato da contrasti anche aspri fra le vecchie tradizioni e le idee moderne, queste ultime già indirizzate risolutamente verso il nuovo secolo. Proprio nel 1894 si era aperto il Deutsches Theater con lo scopo primario di rappresentare i drammi moderni di autori quali Ibsen, Wedekind, Gerhart Hauptmann, in messe in scena innovatrici e antitradizionali favorite dalla carismatica presenza di Max Reinhardt. Nelle arti figurative, dal circolo che faceva capo a Max Liebermann, allora quarantasettenne, sarebbe nato di lì a poco il movimento della Secessione, portatore di nuovissime e ancor più acerbe polemiche. Con gli uni e con gli altri Busoni ebbe contatti strettissimi tanto sul piano umano quanto su quello artistico, culminanti in importanti collaborazioni: non ultimo il progetto della prima ripresa moderna della Turandot di Gozzi al Deutsches Theater nell’adattamento di Karl Vollmoeller, con la regia di Reinhardt e le musiche di scena appunto di Busoni.
In campo musicale la tradizione resisteva incontrastata, questo è vero; ma a Berlino operavano artisti di prim’ordine: Arthur Nikisch era il direttore dell’Orchestra Filarmonica, Felix von Weingartner si occupava dei concerti e Karl Muck delle opere al Teatro di Corte, e nel ’98 Richard Strauss avrebbe iniziato la sua attività come primo maestro della Regia Cappella prussiana. Tutte questo coincidenze esercitarono su Busoni un’irresistibile attrattiva, facendogli apparire Berlino sotto un punto di vista diverso da quello che si era immaginato. Inoltre l’atmosfera della città, i suoi luoghi caratteristici, la variopinta mescolanza degli abitanti, lo stesso modo di vivere, l’attività frenetica delle sue istituzioni, il fuoco delle polemiche e delle sperimentazioni, il conflitto fra mondo vecchio e nuovo, tutto ciò lo affascinò immensamente: una volta presavi stabile dimora, fu conquistato dalla magica atmosfera di Berlino, dalla quale non si sarebbe mai più liberato, ricevendone in cambio energici stimoli artistici. Che cosa è infatti la prima opera teatrale di Busoni, La sposa sorteggiata (Die Brautwahl), se non una celebrazione di Berlino? Con la sua atmosfera baluginante e crepuscolare mediata dall’inventiva di Hoffmann, vera protagonista di quest’opera è la Berlino “”Biedermeier”” del 1820, rivissuta modernamente nei suoi caratteristici luoghi celebri (la Zelte, il Tiergarten, la vecchia torre vicino al palazzo municipale, la Spandauerstrasse, gli interni borghesi riccamente addobbati secondo il gusto del tempo): uno sfondo personalissimo che la musica assorbe e riverbera magicamente.
Già dopo un lustro dal suo arrivo, al cader del secolo, Busoni si era conquistato un posto di rilievo nella vita artistica e culturale della città. Come pianista, la consacrazione definitiva era avvenuta nel 1898, con quattro storici concerti ideati per illustrare la storia e lo sviluppo del Concerto per pianoforte da Bach a Liszt.Tutto il maggiore repertorio pianistico fu presentato da Busoni alla sua maniera nel corso di questi anni, per culminare, come ultima e magnifica appendice, nel dicembre 1904 con tre interi concerti monografici dedicati a Liszt, che fecero enorme scalpore a Berlino: “”Busoni, pianista meraviglioso ed esigente (wunderbar und anspruchsvoll), che onora la nostra città…””, esordiva nella sua recensione il critico del “”Berliner Neueste Nachrichten”” (1).
Altra impresa di rilevanza storica furono i dodici concerti sinfonici dedicati a musiche contemporanee nuove o poco note (il ciclo parlava espressamente di “”Opere nuove o raramente eseguite””) che Busoni organizzò a Berlino fra il 1902 e il 1909 nell’intento di svolgere nella città che aveva scelto come sua residenza un’opera di promozione in favore delle più recenti esperienze compositive europee. Suo scopo era infatti da un lato offrire un panorama il più possibile completo delle tendenze meno conosciute della musica contemporanea, non soltanto tedesca, dall’altro aiutare i giovani compositori facendoli ove possibile intervenire di persona alle esecuzioni. Busoni stesso vi partecipò in molteplici vesti: come pianista, direttore d’orchestra, compositore e autore di rielaborazioni di musiche altrui. Fu anche per merito di iniziative come queste se Berlino, roccaforte della tradizione e depositaria dei massimi valori della musica tedesca, divenne una città internazionale e un centro d’irradiazione di una cultura musicale indirizzata in senso europeo e cosmopolita.
Non è un caso per esempio che Arnold Schönberg, dopo le prime delusioni patite a Vienna, guardasse proprio a Berlino nella speranza di ottenere occasioni e incarichi più favorevoli, e cercasse prima di tutto di mettersi in contatto con Busoni, la cui indiscussa autorità sembrava promettere molto nella battaglia in nome della musica moderna. Quel che ne seguì non fu propriamente un aggancio e fece anzi affiorare incomprensioni e gelosie sempre più accentuate, che portarono da ultimo a una rottura completa fra i due musicisti. Non interessa qui indagarne le ragioni, connesse senza dubbio a profondi problemi creativi e artistici; quel che conta è notare che questo incontro di destini e di grandi personalità avvenne proprio a Berlino in un fermento di idee e di aspirazioni altrove impensabile. Ed è significativo aggiungere che Busoni, oltre a interessarsi di Schönberg e a studiare le sue musiche, subendone un’impressione che talora rasenta l’influenza, gli fornì le prime occasioni di verificare la portata delle proprie composizioni; non da ultimo prestandogli alcuni allievi, come Steüermann e Grünberg, che da lui erano stati educati ad apprezzare ed eseguire la musica contemporanea. Ma questa non è l’unica testimonianza dell’interessamento di Busoni per i colleghi più giovani. Edgar Varèse, giunto a Berlino nel 1907 e rimastovi fin quasi allo scoppio della guerra, frequentò assiduamente Busoni e ricevette da lui consiglio e aiuto; e proprio il fatto che a Berlino vivesse Busoni, racconta Varèse, costituiva per i giovani musicisti un motivo di attrattiva, che si armonizzava in modo singolare con l’ambiente eccitante della città: “”L’importanza di Berlino, crogiuolo culturale, era nell’attrattiva che la città esercitava su personalità che avevano lasciato il loro paese d’origine o che progettavano d’abbandonarlo”” (2).
Questo lungo periodo, felice nonostante le battaglie e i rinnova-menti non sempre facili da attuare si conclude irrimediabilmente con la guerra. Mi pare significativo che molte delle relazioni del nostro Convegno prendano spunto dalla guerra per introdurre nel labirinto della vita musicale, culturale, artistica, ma anche politica e sociale, degli anni Venti in Germania e a Berlino.
Il ritorno di Busoni a Berlino avvenne in un clima completamente mutato e segnato dalle angoscie della guerra, che Busoni aveva vissuto in uno stato di prostrazione e di velleitaria neutralità, lui italiano trapiantato in Germania e autoesiliatosi in Svizzera. Busoni attese invano segnali di richiamo dall’Italia, dove un movimento capeggiato da Casella tentò l’impossibile per offrirgli incarichi di prima importanza; o forse, meglio, finse di non sentirli, nella convinzione che troppe cose lo legassero nonostante tutto alla nazione sconfitta, ma sopravvissuta e scossa da nuovi aneliti. La caduta del Reich, il nuovo corso politico nato sulle ceneri della disfatta, la crisi economica e un diffuso stato di incertezza in ogni campo avevano sì apportato radicali rivolgimenti anche nell’ambiente della cultura e dell’arte, ma avevano anche favorito, sia pur disordinatamente, la rinascita di nuove iniziative e di nuovi movimenti. Busoni l’aveva previsto già alla fine della guerra, in una lettera al marchese Silvio della Valle di Casanova che suona anche sinistramente profetica:
A costo di farLa sorridere della mia “”olimpica ingenuità””, io affermo che la Germania, nazione democratica, rifiorirà nuovamente. Al contrario degli Stati Uniti, cordialmente ignoranti, moralisticamente religiosi, persecutori di negri e sterminatori d’indiani; al contrario della Svizzera, limitata nei suoi interessi piccolo-cantonali; la Germania darà libertà di parola a quegli spiriti eletti e colti finora costretti al silenzio.
Se il Tedesco non verrà più incitato con bandiere sventolanti ed elmi lucci-canti e poi costretto in ginocchio, potrà conseguire la sua grandezza in altre forme.
Questa speranza e questa fede dovrebbero rafforzare e ringiovanire tutti i germanofili, ai quali pure io non appartengo incondizionatamente (3).
Senza dubbio Busoni si riteneva parte di quella cerchia di spiriti eletti e colti a cui finalmente veniva ridata libertà di parola. La decisione di far ritorno in Germania significava anche dare il proprio contributo a questo nuovo inizio e intenderlo nel senso di quella continuità col passato che da sempre era stata una delle fedi più salde di Busoni uomo e artista. Tanto più che la Germania e Berlino in particolare avevano dimostrato di tenere a lui, offrendogli un incarico di massima autorità, la direzione della classe superiore di Composizione all’Accademia di Stato delle Arti e delle Scienze, e accompagnandolo con l’assicurazione che il suo ritorno sarebbe stato accolto con alti onori e riconoscimenti: ed erano suoi ex-allievi come Leo Kestenberg, dagli eventi postbellici sollevati a posti di comando, a fornirgli le più ampie garanzie. Così Busoni, 1’11 settembre 1920, rientrò definitivamente a Berlino.
Alcune lettere descrivono il suo stato d’animo in modo particolarmente efficace. Il suo primo pensiero fu, naturalmente, per Gerda (4):
Non sono ancora da due ore a Berlino, e ti devo scrivere immediatamente… Finora ho visto Berlino solo tra le 8 e le 9 del mattino, col bel tempo… Il portinaio della nostra casa mi ha accolto come un padre. L’appartamento è tenuto in modo sorprendente e mi sembra così bello e ricco!… Devo raccogliermi un poco…
Pomeriggio
C’è uno strano contrasto tra l’abbigliamento modesto, spesso povero e la disinvoltura con cui vengono accettati gli alti prezzi!… Questa lettera è tutta sconnessa, non te ne devi meravigliare; perché non ho le idee ben chiare e sono un po’ emozionato. Ma l’appartamento è meraviglioso. Tutto risplende! Un po’ anche
il tuo F.
Lettera del 12 settembre 1920 (5):
Sono seduto nella mia biblioteca – “”la cité des livres””, dice A. France – e (per quanto posso giudicare sommariamente) vi ritrovo ogni volume al suo posto; carta, inchiostro, penna, insomma tutto il necessario per scrivere è pronto. Ho esitato a entrare in questa stanza e mi sono deciso a farlo appena questa mattina. – E’ domenica e piove. Così rimango buono buono a casa… Qua dentro è stupendo. Purtroppo non altrettanto fuori di qui. Bisogna ricominciare la lotta per tenere alta la nostra concezione dei valori. Dopo l’America e Zurigo – ora Berlino. – Eppure neanche oggi posso dire una parola definitiva. Vedrai. Se non andrà – dovremo scegliere qualche cosa di diverso. Ma son sempre ancora persuaso che è necessario tentare, riprendere la casa, affrontare l’esame. Per sapere tutto. Penso di lavorare molto; mi concentrerò… Sì, sono contento di lavorare. – Persino di riprendere ex-novo il pianoforte. La prima notte è trascorsa passabilmente… Ho incontrato ieri Hans Herrmann (il re della canzonetta di Berlino): “”To’ Busoni; fortuna che La incontro. Volevo che mi firmasse un ventaglio per una signora””. – E mai possibile una cosa simile?!!
Lettera del 14 settembre 1920, alla moglie (6):
Tutti sono stati molto cordiali, come, in generale, il tono a Berlino è molto umano e simpatico. Sono uscito pochissimo. (Ho tanto da fare e ne sono molto contento)… E’ come un sogno pensare che son di nuovo qui già da quattro giorni.
La lettera successiva parla già quasi soltanto di lavoro, come in una ritrovata normalità.
Che cosa in realtà celasse questa apparente normalità, si ricava da questa lettera, inedita, a Philipp Jarnach, datata Berlino, 2/ 3.10.1920 (7):
Le mie condizioni intellettuali sembrano quindi essere normali. Ben diverso è invece il mio stato d’animo che sembra strano a me stesso e non del tutto comprensibile. Divento molto solitario e mi meraviglio che gli altri non si accorgano della distanza che è stata percorsa in questo lasso di tempo. Le persone singole e l’intera città. – La maggior parte delle prime sono rimaste là dove le avevo lasciate. Ma proprio coloro che si sforzano di non rimanere indietro mi sembrano immiseriti – – sono quelli con cui meno mi capisco, perché siamo cambiati sia io che loro; mentre il tono dei meno pretenziosi lo conosco dai vecchi tempi e, facendomi forza, lo posso assumere. Di sera Berlino è tetra.
Nessuno esce per proprio piacere. Alle dieci di sera, quando un tempo “”incominciava il bello””, ora tutto è morto. Ma la gente ha un modo di fare cortese e modesto. L’abbigliamento consiste tutto di roba raffazzonata. Qui si vede un uomo che porta ancora la giubba militare e qui una donna. con guardaroba d’anteguerra riaggeggiato. Le ragazze sono serie e hanno buone maniere. Hanno tutte un lavoro o una professione e, assorte nei loro pensieri, si occupano dei
fatti propri.
Se si guarda alle cifre, i prezzi sono fantastici. In realtà però io vivo ancora
dei 500 franchi che ho portato con me e che a Zurigo sarebbero già spesi da un pezzo.
Sempre a Jarnach, il 5 agosto 1920 (dunque poche settimane prima di rientrare a Berlino), Busoni aveva avanzato pesanti riserve sul clima che caratterizzava la confusa rinascita tedesca, prendendosela con la babele ché accompagnava i proclami delle avanguardie, “‘espressionismo’ e ‘atonalità’ e simili ingredienti della salsa di cui è fatto questo profluvio di parole””. Anche questa lettera è inedita (8):
Si buttano là dei “”nomi”” e vi si gioca come con palloni da calcio. E vanno a finire in testa a colui cui non erano indirizzati, o che stava solo a guardare. Tutti parlano insieme. – In questa arena (un giardino zoologico scatenato) scende ora l’umile sottoscritto. Non munito di frusta e pistola (come sarebbe necessario), ma disarmato e quasi nudo. – La sottile corazza di cui mi cinge l’Accademia di Stato può trasformarsi facilmente in bersaglio. – Pazienza; a patto che restino illesi la testa e i coglioni! –
Due giorni più tardi (sempre da Zurigo, il 7 agosto 1920), Busoni scrisse al marchese Casanova in termini più possibilisti (questo atteggiamento profondamente diverso a seconda dell’interlocutore è un tratto caratteristico della sua personalità): “”A Berlino vado incontro a lotte e a privazioni, ma anche a delle soddisfazioni ed a varie attività. L’ironia della situazione vuole, ch’io occupi un posto parallelo a quello di Pfitzner, come un capo delle classi di composizione all’Accademia dello Stato. Si daranno le mie opere al gran Teatro”” (9).
Busoni non tardò a riassumere il ruolo di protagonista nella vita musicale berlinese, anche se intorno a lui si muovevano in direzioni spesso opposte, personaggi di grande spicco, con i quali sarebbe stato difficile collaborare. L’ideale della “”nuova classicità”” (“”Junge Klassizität””), avanzato da Busoni in questi anni, dimostra a sufficienza l’estraneità al nuovo clima culturale berlinese, che l’avrebbe condotto presto all’isolamento. Di Franz Schreker, nuovo direttore della Berliner Musikhochschule, aveva letto con raccapriccio il manifesto pubblicato sui giornali: in uno scatto d’ira di lui tipicissimo, aveva commentato con Jarnach che “”con i lupi bisogna ulrare”” “”mit den Hähnen muss man Krähen””. E neppure con Hindemith, personalità emergente nella nuova musica tedesca, sembrava possibile stabilire un contatto, che pure gli veniva suggerito, da Jarnach e da comuni amici.
Se la fama del pianista resisteva incrollabile, adesso Busoni veniva apprezzato molto di più anche come compositore. Nel gennaio 1921 il periodico musicale “”Der Anbruch””, in concomitanza con l’uscita di un numero speciale dei “”Musikblätter”” a lui interamente dedicato e di grande, molteplice impegno critico, organizzò a Berlino una serie di tre concerti di sue musiche, comprendenti tutte le più significative composizioni sinfoniche e per strumento solista e orchestra. Dopo aver diretto i primi due concerti, nel terzo Busoni fu solista, direttore Gustav Brecher, del Konzertstück, della Fantasia indiana e del monumentale Concerto per pianoforte con coro maschile. Fu in questa circostanza che venne per così dire ufficializzata la funesta etichetta destinata a pesare sulla fortuna critica di Busoni negli anni a venire, e quasi fino a oggi: quella di un sommo pianista che faceva anche il compositore.
Eventi memorabili nella storia della musica a Berlino all’inizio degli anni Venti sono legati al nome di Busoni. La prima rappresentazione in Germania delle opere Arlecchino e Turandot (19 maggio 1921) coincise con la riapertura della ex-Hofoper, ora ribattezzata Staatsoper, cui il nuovo direttore Max von Schillings aveva inteso dare orientamenti sperimentali su una linea aperta alla produzione contemporanea: e basti dire che fra il ’19 e il ’25 vi furono rappresentati, oltre a quelli di Busoni, lavori come Palestrina di Pfitzner, Die Frau ohne Schatten e Intermezzo di Strauss, Zwingburg di Kfenek, Jenufa di Janàcek; Histoire du Soldat, Pulcinella e Renard di Stravinskij e, da ultimo, la prima assoluta di Wozzeck, replicato ben 23 volte; fra i direttori, troviamo nomi come Leo Blech (anche per Busoni), Richard Strauss ed Erich Kleiber.
Un altro grande direttore, Wilhelm Furtwängler, dedicò a Busom uno dei suoi primi concerti come direttore stabile della Orchestra Filarmonica a Berlino: Sarabanda e Corteggio, studi preparatori per il Doktor Faust, vennero eseguiti nel febbraio 1922, a ulteriore testimonianza del prestigio di cui Busoni godeva a Berlino. Non si trattò però di un successo, né di pubblico né di critica; e questo fatto, se da un lato amareggiò l’autore, dall’altro lo convinse che soltanto nell’unità globale dell’opera le novità di linguaggio e di forma della qua musica avrebbero potuto trovare adeguata comprensione.
Ma l’attività senza dubbio più incisiva e duratura svolta da Busoni in questi anni berlinesi fu quella di insegnante all’Accademia delle Arti. Finché lo stato della sua salute glielo consentì, tenne regolarmente le lezioni di composizione, riunendo intorno a sé allievi provenienti da tutta Europa, alcuni dei quali sarebbero poi diventati personalità di primo piano nella musica del nostro secolo: fra questi Nalther Geiser, Luc Balmer, Kurt Weill, Heinz Joachim, Mitropulos
Wladimir Vogel, l’allievo prediletto, allora poco più che ventenne. Ricorda Vogel:
Come insegnante, Busoni non era un dogmatico o un pedagogo alla maniera di Hindemith o di Schönberg. Non ha mai imposto uno stile o una corrente, non ha mai decantato come esemplari le proprie composizioni e solo in poche occasioni, prima di un pubblico concerto, ha suonato qualche sua opera, a casa sua, in una specie di prova generale, eseguendola lui stesso o insieme con Egon Petri o Michael Zadora. La letteratura, da Dante, attraverso Hoffmann, fino ad Anatole France, la pittura fino a Boccioni gli offrivano ricchi e svariati argomenti di conversazione. Forse è anche per questo che i compositori usciti dalla sua scuola hanno battuto vie così diverse, han potuto sviluppare la propria personalità e oggi non portano alcun marchio busoniano né appartengono a una particolare corrente, a un “”ismo”” musicale. Ma a ciascuno di essi Busoni diede, come base, un’inconfondibile eticità di fronte alla musica (10).
Il problema della successione di Busoni alla cattedra di perfezionamento in Composizione presso l’Accademia delle Arti di Berlino, rimasta vacante alla sua morte, venne risolto chiamando al suo posto Arnold Schönberg, colui che per primo era stato interpellato per dare una conclusione all’incompiuto Doktor Faust. E benché la distanza fra i due artisti fosse vistosa, e poche cose li avessero accomunati in vita, è lecito vedere un segno quasi provvidenziale in questa coincidenza che, all’alba di eventi tragici per la storia tedesca, fornisce una traccia legando in una linea di continuità un magistero basato anzitutto su un altissimo senso del dovere e di responsabilità morale, prima ancora che artistica. E forse, a ben guardare, è possibile notare delle convergenze che avvicinano queste due figure al di là delle differenze specifiche che li distinguono come compositori.
La sorte che toccò a Busoni dopo la morte, avvenuta nel momento cruciale di un dramma che proprio a Berlino aveva il suo epicentro, fu quella di un rapido, inesorabile oblio. La dispersione delle sue opere e delle sue carte, nonostante il tentativo degli amici di fondare un Archivio che le raccogliesse, e perfino delle sue cose – la casa, i mobili, i libri, svenduti all’asta nel 1925 a prezzi ridicoli – è solo un aspetto della scomparsa di Busoni dall’orizzonte della vita musicale tedesca. Ma se senza dubbio le circostanze legate alla storia anche politica degli anni Venti contribuirono a determinare questa situazione, altri, più profondi motivi ne furono la causa principale.
Sarà interessante verificare da più punti di vista attraverso le relazioni del Convegno il grado di integrazione di Busoni nella cultura berlinese degli anni Venti. E mio parere che Busoni le rimanesse sostanzialmente estraneo, in una posizione di isolamento, critico e indifferentemente scettico verso ciò che lo circondava; è a prima vista curioso che soprattutto verso le avanguardie, che condividevano molti dei suoi principi di rinnovamento e di svecchiamento delle istituzioni, Busoni combattesse una battaglia tenace e per molti versi ingiusta. In realtà, Busoni vagheggiava un ideale di perfezione e di tonalità difficilmente praticabile e attuabile nelle condizioni oggettive del suo tempo: la “”sua”” Berlino era semmai ancora quella fin de siècle e degli anni Dieci, non quella irrequieta e conflittuale del dopoguerra e degli anni Venti, nella quale era approdato come un naufrago scampato alla tempesta. A Berlino, in questi anni, la contraddizione è di casa ovunque, nel dibattito politico o idelogico, nel paesaggio urbano, negli eventi della vita quotidiana. E nelle sue manifestazioni, nella sua eterogeneità, nello scontro di elementi antagonistici incompatibili, che essa viene riconosciuta, vissuta e apprezzata. Nell’arte berlinese, che ne subisce il contraccolpo, l’opposizione tematica si esterna anche nel vocabolario delle forme e l’utilizzazione della contraddizione diventa un mezzo di espressione stilistica. Perciò l’arte degli anni Venti è, a Berlino, un’arte dello smontaggio e del rimontaggio, nelle arti applicate, come nel cinema, nel teatro, nella letteratura e nella musica.
In uno dei suoi ultimi scritti, pubbl. postumo, Busoni notava:
I modernissimi si ingannano anche quando credono di poter rompere o di aver rotto con tutto ciò ch’è stato prima: non è così, nonostante la loro incrollabile persuasione… D’altro canto è innegabile che l’uomo ha gli occhi messi in tal modo da costringerlo a guardare in avanti; e che la sua esistenza è passabilmente giustificata soltanto se contribuisce a creare il presente. Triste destino è perciò vivere in tempi confusi, non chiaramente delineati e fluttuanti; i creatori condannati a cederci dentro ne risentono (11).
Queste affermazioni illuminano in modo esemplare la contraddizione che sta al fondo della personalità di Busoni. Se la cultura della crisi non gli apparteneva, egli apparteneva alla cultura della crisi, delle cui ineluttabili conseguenze era perfettamente consapevole. Un mondo si spegneva con lui, travolgendo l’utopia della compiuta integrazione dell’individuo nell’universo, della rivoluzione permanente da condurre nel seno stesso della coscienza artistica con la perfezione inattaccabile di ciò che è destinato a durare come classico. “”Qualche volta bisogna dar ragione anche ai bolscevichi (ma solo tra noi)””, si lasciò andare a dire Busoni una volta (lettera a Jarnach, 22.3.20): ed era il massimo della concessione disposto a fare, nella vita come nell’arte.
La musica del nostro secolo deve molto a Busoni non soltanto per quanto egli ha intuito, prefigurato, profetato, prescritto, ma anche per l’esempio che ha saputo dare di un modello di artista che instancabilmente cerca, che continuamente si mette in discussione, che non si appaga di nessuna conquista e aspira verso l’ignoto, verso l’illimitato, verso l’ultima parola che manca. La tensione di questa ricerca, che si riflette in una musica di acuta intelligenza e di fertilità cospicua, è ciò che Busoni ha lasciato in eredità, intravedendo soltanto a tratti – e sapendocela comunicare – quella olimpica serenità situata negli spazi infiniti dell’empireo cui spetta il dominio nel regno assoluto dello spirito, secondo la sua visione dell’essenza della musica. Nessuna scuola, nessuna corrente, nessuna tendenza, nessun movimento ha potuto però trovare in Busoni il suo vero, unico maestro; e a tutti, viceversa, si possono attribuire idee o stimoli che partono da Busoni. Stando al paradigma di Boulez, Busoni è un compositore incompleto e storicamente morto; ancor più dimenticato perché nessuno l’ha fatto suo, nella concretezza di riferimenti specifici, musicali, linguistici e formali. E dunque giustamente dimenticato.
Tutto ciò è troppo palesemente semplice per essere incontestabilmente vero. Ritorniamo perciò al nostro punto di partenza: “”Busoni e la Berlino degli anni Venti””. In Berlin – Ein Stadtschicksal, pubblicato nel 1910, Karl Scheffier sostiene che Berlino è una città condannata a un perpetuo divenire e priva di una propria esistenza (12).
Ma è proprio questo che ne costituisce il fascino e il potenziale creativo, conclude l’autore. Un destino storico sembra qui legarsi a uno individuale, sì da rendere lecita la domanda: Busoni è morto?
NOTE
(1) “”Berliner Neueste Nachrichten””, 19 dicembre 1904.
(2) Cit. in LOUISE VARESE, Varese. A Looking-Glass Diary, vol. I, New York 1972, p. 49.
(4) FERRUCCIO BUSONI, Lettere alla moglie, Milano 1955, p. 228 (lettera dell’11 settembre 1920).
(6) Ibidem, p. 289.
(7) Traduzione di Laura Dallapiccola. Questa lettera fa parte di una ampia raccolta di lettere di Busoni che saranno prossimamente pubblicate dal Centro Studi Musicali “”F. Busoni”” di Empoli in collaborazione con la casa editrice Faber di Londra, che ne cura parallelamente l’edizione inglese.
(8) Vedi nota precedente.
(9) Cfr. FRANCO GALLINI, Busoni negli anni della prima guerra mondiale: contributo di un carteggio inedito, in “”Musica Università””, IV, n. 4 (23), dicembre 1966, p. 23.
(10) WLADIMIR VOGEL, Ricordi personali, citato in SERGIO SABLICH Cit., pp. 68-69.
(11) FERRUCCIO BUSONI, Sui tempi che corrono, in Lo sguardo lieto, Milano 1977, pp. 142-143.
(12) KARL SCHEFFLER, Berlin – Ein Stadtschicksal, Berlino 1910, cit. in Berlino 1910-1933 a cura di Eberhard Roters, Milano 1983, p. 12.
Da Il flusso del tempo, Scritti su Ferruccio Busoni, Ferruccio Busoni e la Germania degli anni Venti, Bolzano, Assessorato alla Cultura del Comune di Bolzano, centro Studi musicali “F. Busoni” di Empoli, Quaderni di Musica/Realtà n. 11