Al Dramaten di Stoccolma il grande regista rilegge Molière e si scopre maestro d’ironia
Quanta comprensione per le miserie e i vizi umani
Successo pieno per un allestimento severamente classico nell’impostazione che rivisita il testo con umorismo e tenerezza proponendo una galleria di tipi senza tempo
Stoccolma – E per Ingmar Bergman risuonò l’ora di Molière. Un autore, a sentir lui, con il quale non ha mai avuto fortuna. Balle. Il suo Misantropo andato in scena trionfalmente al Dramaten di Stoccolma è una meraviglia da far stropicciare gli occhi: leggero e ammiccante, tenero e spiritoso, severamente classico nell’impostazione scenica eppure interamente rivissuto, recitato alla perfezione come un capo d’opera firmato.
Per Bergman Il misantropo è anzitutto commedia della retorica e tragedia dell’erotismo: l’una inimmaginabile al di fuori della cornice della sua epoca; l’altra sempre attuale, e dunque non bisognosa di ulteriori modernizzazioni. Dentro la scena stilizzante al passato sontuosi palazzi e abiti sfarzosi, ma come in un magico crepuscolo (rintocchi funebri di campane aprono ogni atto), il regista da un lato ne osserva con esaltata ammirazione il perfetto meccanismo teatrale, dall’altro mette in luce da par suo i temi che vi circolano sotterraneamente, nei loro risvolti psicologici drammatici.
Il suo Alceste ha la figura nervosa e scattante di Thorsten Flinck. Più che il vecchio petulante della tradizione, un giovane ribelle, un outsider che veste abiti borghesi, neri e sobri, proprio per esibire la sua diversità: incapace però di rompere la catena delle menzogne e degli intrighi che lo circonda e a cui lo lega anzitutto la presenza delle donne, al centro secondo Bergman di un’amara parabola di passione e tradimento, desiderio e ripulsa. Celimene ha le forme apparentemente innocenti e il fascino irresistibile di Lena Endre. Sensuale e inquieta, si è ormai concessa ad Alceste da lungo tempo (è l’unica libertà che Bergman si prende sul te-sto), tanto da presentarsi all’inizio del secondo atto a letto con lui, per una scena ordinaria di amorosa follia: tra la camicia da notte e gli abiti preziosi per la parata in società Bergman salda lucidamente il circolo della seduzione erotica e del mistero femminile. Altrove, in una sua aura mitica, l’Oronte di Jarl Kulle, già protagonista di tutte le commedie cinematografiche di Bergman, al quale è affidata la celebrazione somma del teatro nel teatro: trionfo dell’attore onnipotente alla Molière, che firma con un sorriso e un gesto d’intesa il tempo che passa.
Circola nello spettacolo, perfino nella spassosa caricatura di una nobiltà debosciata, la nostalgia per un teatro capace di ricreare con immediatezza il piacere gioioso dello scherzo e della realtà, senza preoccuparsi troppo di simboli e messaggi. Bergman non si serve di Molière per condannare moralisticamente il mondo e la società: al contrario si diverte a immedesimarsi con umoristica comprensione nella verità senza tempo di tipi umani che nel loro fatuo carattere scontano l’eterno inganno della vita e della storia. L’intransigenza di Alceste, quel suo vagheggiare un eremo nel deserto lontano dal mondo e dagli uomini, son guardati forse con ironia autobiografica ma senza alcun compiacimento o favore: il calore di un corpo anche infedele, la grazia di una carezza o di una promessa, ecco i miracoli che nessun isolamento potrà compensare. Quando alla fine il velo si squarcia e Celimene viene smascherata, a trionfare non è la verità del cuore bensì la perdita dell’illusione, che consegna ogni personaggio alla solitudine. Il dolore per la rivelazione che rompe l’equilibrio è reso da Bergman con una cupa riverberazione espressionistica, quasi un gesto di protesta per la fine di una recita così profondamente vera e umana.
Questa modulazione improvvisamente seria in una regia altrimenti elettrizzata dal gioco calcolato delle finzioni significa anche che fuori dall’incanto del teatro, ultimo baluardo della reinvenzione della vita in cui rifugiarsi, ci attende una notte senza speranza. E l’omaggio al genio di Molière, con le sue stupefacenti gallerie di personaggi e situazioni sempre attuali, si tinge così di una nota di affettuosa gratitudine.
da “”La Voce””