Béla Bartòk – Suite per due pianoforti op. 4b; Sette pezzi da “”Mikrokosmos”” per due pianoforti

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Le composizioni per due pianoforti di Bartók

 

La disposizione dei pezzi in questo concerto de-dicato alle composizioni per due pianoforti di Béla Bartók segue un ordine cronologico a ritroso: esso è non soltanto giustificato da ragioni musicali, secondo il principio di una progressione scandita dal carattere delle composizioni, ma anche avvalorato dalle intenzioni dell’autore. Quest’ordine fu stabilito e rispettato da Bartók ogniqualvolta suonò questo stesso programma in compagnia della seconda moglie, Ditta Pàsztory, sua allieva e brillante pianista: fu infatti lei a indurlo a riaccostarsi al pianoforte e alla carriera concertistica, che Bartók aveva abbandonato nonostante i suoi grandi successi giovanili e che ora riprese per metterla di nuovo al servizio della propria musica. Se la Sonata per due pianoforti e strumenti a percussione, composta tra il luglio e l’agosto del 1937, è in assoluto una delle vette della produzione di Bartók, gli altri due lavori sono strettamente legati alle circostanze successive all’abbandono dell’Ungheria nel 1940 e al trasferimento negli Stati Uniti in esilio volontario: qui i coniugi Bartók furono in un certo senso costretti, per vivere, a intensificare l’attività concertistica, sobbarcandosi pesanti tournées negli anni 1941-42. E in tali contingenze il musicista pensò di presentarsi al pubblico nella duplice veste di compositore e di esecutore; non dimenticando di favorire la moglie, che in quel momento era, almeno ufficialmente, la “”virtuosa”” della famiglia. Nacquero così, rispettivamente nel 1940 e 1941, l’elaborazione per due pianoforti di 7 pezzi da Mikrokosmos, originariamente per pianoforte solo, e quella della Suite op. 4b, a sua volta una libera trascrizione della Suite op. 4 per orchestra, risalente agli anni giovanili, essendo stata composta a Vienna tra il 1905 e il 1907; lavori, entrambi, per così dire propedeutici alla comprensione del capolavoro sommo in questo campo, appunto la Sonata per due pianoforti e percussione.

La Suite op. 4 per orchestra aveva rappresentato ai suoi tempi una composizione sperimentale in

un periodo di transizione e di trasformazione. Bartók si trovava allora alle soglie di un’epoca nuova, che per lui sarebbe cominciata col Primo Quartetto op. 7. Ancora legato alla tradizione straussiana

e brahmsiana da un lato, influenzato dal filone nazionalistico e cavalleresco di Liszt e Erkel dall’altro, si dibatteva in una crisi venata di pessimismo ma dominata con lucidità; presagiva che qualcosa stava per accadere, ma non aveva ancora fatto le due esperienze che sarebbero state fondamentali per la sua vita artistica: più ancora che la conoscenza dell’impressionismo francese e di Debussy, la rivelazione della vera natura del canto popolare contadino, la cui assimilazione dopo la conquista avrebbe dato frutti decisivi. Queste esperienze sarebbero avvenute proprio in quegli anni, e alcune premesse se ne intuiscono nella Suite op. 4, soprattutto se messa a confronto con la robusta animosità della precedente, op. 3: rispetto alla quale essa mostra un carattere di moderazione espressiva più scoperta e un accento più riflessivo e temperato.

Bartók stesso definì la sua trascrizione di molti anni dopo come una “”libera rielaborazione””. E in effetti si tratta di una nuova versione tutta pensata e calcolata per le possibilità timbriche e strumentali del nuovo organico. Nel senso di una depurazione del timbro va per esempio la scrittura pianistica, equamente distribuita fra i due strumenti, in un dialogo serrato che proprio nel processo di semplificazione e di chiarificazione presuppone un atteggiamento antiretorico e disciplinato, e richiede perciò un’esecuzione sensibile e delicata. L’energia ritmica tende a perdere peso e materia, per snellirsi in figure più incisive e a tratti quasi neoclassicheggianti; ma non mancano l’imperiosa vena barbarica caratteristica del compositore, il dinamismo ritmico nei passi ostinati e nei ribattuti martellanti, la foga nelle accensioni liriche ora strepitose ora ripiegate su se stesse e la visionarietà negli effetti armonicamente più avanzati. La fitta schiera di percussioni presente nell’organico orchestrale viene sfruttata nella rielaborazione sul modello della Sonata, con una varietà timbrica ricreata sul pianoforte in modo del tutto originale. Ognuno dei quattro pezzi ha un titolo che ne definisce il clima e lo spesso-re: il primo è una Serenata cantata su un motivo popolare, schietto e melodicamente espanso; il secondo un Allegro diabolico di nome e di fatto, nel quale la tastiera è trattata come uno strumento a percussione; il terzo s’intitola Scena della Puszta ed è di atmosfera tranquilla e trasognata; mentre il quarto, Per finire, ha un carattere di raccoglimento, nel duplice senso di raccoglimento interiore dello spirito e di compendio delle esperienze compositive precedenti.

 

La raccolta del Mikrokosmos, 153 piccoli pezzi in ordine di difficoltà progressiva divisi in sei libri, a cui Bartók attese tra il 1926 e il 1939, è uno dei monumenti della didattica pianistica del nostro secolo, uno strumento per insegnare il pianoforte legandolo alla evoluzione della musica moderna. Bartók sembra qui riallacciarsi a ciò che Johann Sebastian Bach aveva fatto due secoli prima, coniugare la pratica dell’apprendimento sulla tastiera con la realizzazione rigorosa di un linguaggio ad essa applicato: e questo linguaggio non è solo quello della modernità, ma anche della coscienza nazionale radicata nel canto popolare, nella quale nuovi modi, ritmi, scale e melodie prendono il posto della scala temperata e del sistema tonale. Nel trascrivere per due pianoforti 7 pezzi della grande raccolta Bartók sembra aver tenuto presente una sorta di rappresentatività capace non soltanto di reggere il peso di una elaborazione ma anche di offrire uno spaccato della sua ricerca tecnica e linguistica sul pianeta pianoforte. Così il primo (Ritmo bulgaro, in origine n.

113) è una combinazione delle possibilità metrico-ritmiche di un modello direttamente attinto alle

fonti del materiale popolare e immesso in una sfera colta senza venir deformato; il secondo (Studi sugli accordi, n. 69) è invece un esempio di ricerca armonica affacciato sull’atonalità; il terzo (Perpetuum mobile, n. 135) è una specie di toccata vertiginosa di piglio nuovamente barbarico; il quarto (Staccato e legato, n. 123) offre una soluzione originale, quasi umoristica, a problemi tecnico-esecutivi solo in apparenza contrapposti, mentre il quinto (Nuova canzone popolare ungherese, n. 127) è un prototipo di melodia popolare pittorescamente tzigana reinventata su spunti originali, con ironia e gusto impagabile; il sesto e il settimo (Invenzione cromatica e Ostinato, nn. 145 e 146) riassumono due principi basilari e peculiari dello stile di Bartók, l’esasperazione cromatica innervata di contrappunto e l’ossessione dell’ostinato, elemento primordiale del ritmo. Va da sé che ogni intenzione didattica viene trascesa in queste trascrizioni, che diventano a tutti gli effetti pezzi da concerto di straordinario impegno: un vero concentrato dello stile pianistico e

compositivo bartòkiano.

La Sonata per due pianoforti e strumenti a percussione venne eseguita per la prima volta il 16 gennaio 1938 a Basilea dall’autore e da sua moglie Ditta Pàsztory, in occasione del decimo anniversario della sezione svizzera della Società Internazionale di Musica Contemporanea: collaboravano alle percussioni Fritz Schiesser e Philipp Riihlig. Nel dicembre 1940 Bartók ne ricavò una seconda versione con accompagnamento orchestrale, intitolata Concerto per due pianoforti e orchestra, che differisce in più punti dalla prima. Nella versione originale, accanto ai

due pianoforti, l’organico delle percussioni comprende 3 timpani, xilofono, tamburo militare con e

senza corde, piatto sospeso, coppia di piatti, grancassa, triangolo e tam-tam: il tutto per due soli esecutori. L’aspetto pirotecnicamente virtuosistico, di un virtuosismo però scabro ed essenziale, di sostanza oltre che di apparenza, e che in alcuni momenti volutamente rasenta nella parte sia dei pianoforti sia della percussione le soglie dell’ineseguibile, senza mai peraltro superarle, è ciò che immediatamente colpisce al primo impatto: si resta quasi stupefatti, abbacinati dall’audacia delle invenzioni e delle soluzioni, cui contribuisce anche l’indubbia, programmatica gestualità della composizione (l’autore stesso prescrive in partitura la collocazione degli strumenti e le modalità dell’esecuzione, con intento quasi teatrale, se non spettacolare).

Per quanto vi venga esplorata tutta la gamma delle risorse timbriche e compositive della modernità, in uno stile assolutamente personale e maturo, per molti versi gemello di quello della coeva Musica per strumenti a corda, celesta e percussioni, la Sonata ha un impianto formale classico, e a questo si attiene nell’articolazione dei tre movimenti e nella distribuzione dei contrasti al loro interno. Il primo movimento, Allegro molto, è preceduto da una Introduzione lenta e oppone alla iniziale meditazione estremamente concentrata una energica accelerazione guidata da un impulso percussivo, martellante, violentemente dinamico e talvolta drammatico: a farsene carico sono soprattutto i pianoforti, usati anch’essi come strumenti a percussione, mentre la percussione alterna rilievi fortemente sbalzati a sfondi di colore ora brillante ora tenuemente impressionistico. Alle percussioni è affidata interamente la parte iniziale del secondo movimento, Lento ma non troppo, una di quelle pagine che sembrano abolire le barriere tra suono e rumore e silenzio per cercare nella musica il soffio o il brivido di una spiritualità latente nell’essenza stessa della materia. Le atmosfere sono quelle irreali, spettrali, sottilmente angosciose delle varie “”musiche della notte”” di Bartók: momenti in cui la rivelazione di un mondo sonoro segreto, interiore, si rifrange nelle vibrazioni del suono indeterminato, che a poco a poco si definisce e si anima per assumere linea e spessore, sino a che i frammenti si ricompongono in figure. Il terzo tempo, Allegro non troppo, si basa su un procedimento di alternanze e di riprese che ricorda alla lontana il rondò: il dialogo tra i pianoforti e gli strumenti a percussione assume qui un carattere quasi danzante, perfino divertito e pacificato, come se un’integrazione finalmente costruttiva giungesse ad accomunare i differenti elementi nello spazio e nel tempo. Anche in questa composizione densa e inquieta, turbolenta e tuttavia governata da una consapevolezza serena, Bartók affida ad accenti di umanistica speranza il messaggio ultimo della sua musica.

Bruno Canino e Antonio Ballista

Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1992-93

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