Béla Bartók – Quartetto per archi n. 2 op. 17

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Diario e proclama: i Quartetti per archi di Béla Bartòk

 

 I sei Quartetti per archi di Béla Bartók occupano una posizione predominante non solo nell’opera del loro autore ma anche nella produzione quartettistica contemporanea e possono essere considerati un’espressione fra le più alte e compiute della musica del nostro secolo per quanto riguarda la ricerca linguistica, l’invenzione formale e la sensibilità timbrica. Al pari degli ultimi Quartetti di Beethoven, essi si presentano come un ciclo organico e hanno una funzione riepilogatrice di tutta una serie di esperienze stilistiche. Ma a differenza degli ultimi cinque di Beethoven, che circoscrivono un periodo limitato seppure di fondamentale importanza nella produzione del loro autore (ciò che comunemente va sotto il nome di tardo stile), i Quartetti di Bartók abbracciano quasi l’intera carriera del compositore e ne accompagnano lo sviluppo lungo il cammino verso la sempre più piena, matura realizzazione della sua personalità; con una pregnanza e una densità che hanno pochi riscontri nel panorama della musica contemporanea e non hanno mai cessato per questo di esercitare sugli esecutori e sugli ascoltatori un sottile fascino d’attualità. In questi lavori Bartók condensa all’estremo, come in una sorta di diario segreto, la propria ricerca compositiva: nell’essenzialità della scrittura di quella che fu da sempre considerata la più pura e nobile delle forme strumentali classiche egli rispecchia tutte le ansie e le aspirazioni di un’intima, e sia pure a tratti problematica, necessità creativa, confrontandola con le tendenze del proprio tempo e proclamandola in una concezione musicale interamente nuova.

Tra il primo e l’ultimo dei sei Quartetti intercorrono trent’anni: dal 1909 al 1939. Sono date significative, giacché segnano momenti fondamentali tanto nell’evoluzione stilistica di Bartók quanto nelle vicende della sua vita: rispettivamente la svolta dopo un periodo di crisi, che si attua proprio con la chiarificazione del Primo Quartetto, e la decisione di abbandonare l’Ungheria per motivi politici e di trasferirsi negli Stati Uniti (il Sesto Quartetto è l’ultima opera scritta da Bartók in patria). Non a caso in uno scritto pubblicato sulla “”Revue Musicale”” nel 1921, Zoltàn Kodàly, che di Bartók era stato il punto di riferimento negli anni più acuti della crisi (una crisi di identità provocata dalla difficoltà di armonizzare la tradizione colta con le nuove istanze di una musica nazionale e autenticamente popolare), riconosceva nel Primo Quartetto il superamento di un dramma interiormente vissuto: una specie di “”ritorno alla vita”” di un’anima approdata alla foce del nulla.

Bartók trovò la via di uscita da questo tunnel ripercorrendo a ritroso la strada che conduceva alle fonti originali della musica popolare contadina non solo ungherese, ma anche slovacca, rumena, balcanica (più tardi addirittura araba); da queste raccolte, e dagli studi compiuti su di esse, dapprima con l’aiuto di Kodàly poi da solo, Bartók pervenne a una nuova consapevolezza nell’impiego di questo materiale nella musica d’arte, che modificò anche la sua visione generale della tradizione romantica e tardo romantica. Il suo mondo artistico si arricchì così di nuovi contenuti, in duplice senso: le strutture melodiche, ritmiche e modali della musica popolare, riprodotte nella realtà concreta e originale della loro natura, si contrapposero alla densità cromatica e alla intensificazione espressionista della musica occidentale e del suo complesso linguistico-formale, per trovare poi una integrazione sul piano della più avanzata modernità. Il ciclo dei Quartetti rappresenta le tappe di questa integrazione: come se Bart6k ne distillasse via via gli elementi in un processo di riduzione alla pura essenza dei loro valori. E ciò incise indelebilmente non soltanto sull’architettura formale e sulla scrittura contrappuntistica, ma anche sul linguaggio e sulle scelte timbriche in generale. L’uso di tutte le risorse esecutive degli strumenti (alternanza di staccato, legato e pizzicato, di vibrato e non vibrato anche sulla stessa nota, glissandi, tremoli sul ponticello, colpi col legno) percorre fino in fondo la via dell’esplorazione del rumore e della creazione del suono, mettendola sullo stesso piano dell’invenzione melodica, armonica e ritmica.

La straordinaria varietà di atteggiamenti e di segni, tra echi struggenti e improvvise impennate, reminiscenze nostalgia le e fantastiche accensioni della materia, incursioni nell’ignoto e ritorni mai regressivi al passato, in una cifra che resta sempre riconoscibile e tagliente: tutto ciò fa dei Quartetti di Bartòk un capitolo esaltante e irrinunciabile nella storia della musica del Novecento. Il fatto che i suoi Quartetti siano divenuti col tempo possesso stabile del repertorio accanto ai capolavori dei grandi maestri, sta a dimostrare che anche nel nostro secolo l’impegno compositivo più radicale non è escluso dalla misura dei classici, ove le aspirazioni riposino sul dominio assoluto della forma e della comunicazione, nell’equilibrio e nella fantasia delle possibilità realizzative della creazione e nel costante affinamento dell’anima e dell’intelligenza.

 

 

 

Béla Bartók

Quartetto per archi n. 2 op. 17

 

Moderato

Allegro molto capriccioso

Lento

 

Quartetto per archi n. 2 op. 17 (1915-1917)

 

Sul Secondo Quartetto op. 17 sembrano pesare le ombre degli anni della prima guerra mondiale e le conseguenti ripercussioni esistenziali, che ne spiegano altresì la lunga e tormentata genesi. Bartòk lo compose fra il 1915 e il 1917 nel villaggio di Rakoskeresztur, vicino a Budapest, dove si era ritirato insieme con la prima moglie Marta. La prima esecuzione ebbe luogo a Budapest ad opera del Quartetto Waldbauer-Kerpely, a cui era dedicato, il 3 marzo 1918, appena un anno dopo la prima del balletto Il principe di legno e due mesi prima del debutto dell’opera Il castello del duca Barbablù. Mettendo l’accento su queste circostanze, si è soliti vedere in questo lavoro lo specchio rovesciato del Primo Quartetto, una sorta di ribaltamento dell’itinerario di liberazione che Bartók vi aveva percorso e che qui conduce invece a una discesa negli abissi oscuri di un destino tragico e desolato.

Come il Primo, anch’esso si compone di tre movimenti: ma qui il vasto, selvaggio Scherzo centrale (in forma di rondò, alternando barbariche figurazioni ritmiche a livide atmosfere sonore di potente

suggestione timbrica) è incorniciato da due movimenti lenti. Il primo (Moderato) si basa su cellule tematiche estremamente concentrate, che solo nell’epilogo giungono a distendersi in un ampio gesto melodico, abbandonandosi in modo quasi sorprendente al calore lirico di un idillio romantico, brutalmente spezzato dall’apparire dell’Allegro molto capriccioso. La relazione con il movimento finale (Lento) si chiarisce nella significativa riapparizione, in fantasmagorici svolgimenti delle stesse idee tematiche principali del primo movimento, ma per così dire trasfigurate in una visione oggettivata e priva di tensione, quasi metafisica. A sua volta anche il Finale è costruito in forma tripartita, con al centro una marcia funebre che si trascina senza meta, fino a scomparire nel nulla. La ripresa ha dapprima un carattere riepilogativo, poi si abbandona anch’essa a una progressiva dissolvenza verso il silenzio. Come ha scritto Massimo Mila, «questo Lento così disadorno e aspro nella sua disperazione, può ben essere inteso come la marcia funebre del secolo XX».

Almeno tre sono gli aspetti da rilevare in questo Quartetto, in rapporto al definirsi di uno stile personale di Bartók. Il primo è la prismatica rarefazione timbrica, sempre più incline a farsi espressione di uno stato d’animo interiore, sismografo delle vibrazioni dell’anima     e delle impercettibili variazioni del paesaggio sonoro notturno. Il secondo concerne la tecnica dell’elaborazione compositiva, basata sulla continua aumentazione e diminuzione degli intervalli (qui non ancora, come poi invece avverrà, anche dei ritmi) nella serie progressiva delle trasposizioni. Ne consegue – ed è il terzo aspetto – che la tendenza al superamento delle differenze modali e delle gerarchie tonali conduce verso una “”libera atonalità””, nella quale i dodici suoni della scala sono organizzati in rapporti armonici autonomi, a partire da semplici aggregazioni cellulari.

Principio e modello di questo affrancamento fu per Bartók una volta di più lo studio della musica popolare, e in ispecie delle scale su cui essa si fondava in antico: «La loro utilizzazione”” – scriverà nella sua Autobiografia (1921) – «rendeva possibile nuove combinazioni      armoniche; e fu infatti l’uso della scala diatonica che portò all’emancipazione dal rigorismo delle scale maggiori e minori, rendendo così possibile il libero e indipendente impiego dei dodici suoni della scala cromatica».

Quartetto Arditti
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Stagione di musica da camera 1999-2000

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