Da Bartók a Kurtàg, un percorso del Novecento
La serie dei sei Quartetti per archi di Béla Bartók costituisce uno dei cicli più rappresentativi non solo della personalità artistica del loro autore ma anche di tutta la musica del Novecento. Che si tratti di un ciclo, benché non organicamente concepito, lo dimostra il fatto che ogni pezzo affronta un problema compositivo diverso, ma riallacciandosi ogni volta alla soluzione data nel lavoro precedente, anche a distanza di anni: l’organicità del ciclo sta dunque non tanto nella concezione quanto nella serie completa, che porta a compimento la ricerca compositiva nell’ambito di una forma da sempre considerata la più pura e nobile delle forme strumentali classiche e le conferisce complessivamente unità. Tra il primo Quartetto, iniziato nel 1908 e finito il 27 gennaio 1909, e l’ultimo, composto nell’autunno del 1939 poco prima che Bartók abbandonasse l’Ungheria per motivi politici e si trasferisse negli Stati Uniti, corrono trent’anni: l’intera carriera del musicista vi è compresa e si rispecchia al massimo grado nella lucida tensione del confronto con le ansie e le aspirazioni di un’intima, e sia pur a tratti problematica, necessità creativa. Tanto che ognuno dei sei Quartetti definisce un punto di svolta nel suo cammino creativo: una tappa ogni volta conseguente verso quella “”estrema condensazione”” del linguaggio che era il traguardo a cui la storia stessa del genere lo spingeva, in prospettiva novecentesca.
Il Primo Quartetto op. 7 segna l’uscita da una crisi in cui Bartók si era venuto a trovare al termine dei suoi anni di apprendistato, dominati dallo studio del pianoforte ma fortemente influenzati anche dalla musica da camera, oggetto di un vero e proprio culto fin dall’infanzia. Brahms e Erno von Dohnnyi erano allora i suoi punti di riferimento: l’idea di unire la tradizione della musica europea nelle sue più consolidate esperienze con le tendenze più recenti della musica popolare ungherese era stata la linea lungo la quale Bartók si era mosso per cercare la sua strada. Ne è testimonianza un Quartetto composto nel 1899, intriso di queste esperienze: il fatto che Bartók non lo pubblicasse, lascia intendere che già allora egli nutriva dubbi sulla reale possibilità di questa unione. L’impressione di trovarsi in un vicolo cieco si fece a poco a poco sempre più netta. Data da quel momento l’inizio delle ricerche sulla musica popolare contadina ungherese, poi estese a quella delle zone linguistiche slovacche e rumene; un patrimonio allora assolutamente sconosciuto, che Bartók raccolse e studiò rifacendosi direttamente alle fonti: gli risultò così chiaro che le melodie ungheresi note come canzoni popolari non erano in realtà che motivi artificiali, alla moda, contraffatti nell’uso della musica colta, e da questa rielaborati.
Fu un’esperienza questa volta decisiva. Non tanto perché Bartók cominciasse o pensasse di usa-re tutto questo materiale alla vecchia maniera, rivendicandone solo una maggiore autenticità, quanto perché lo studio di esso gli suggerì la possibilità, come egli stesso si espresse, «di un’emancipazione completa dall’egemonia del sistema tonale esistente fino ad allora». In altri termini, ripensò su nuove basi la costituzione stessa del linguaggio musicale nei suoi elementi melodici, ritmici e non da ultimo armonici: giacché «l’utilizzazione di scale non tradizionali consentiva anche nuove combinazioni armoniche […], e l’uso delle possibilità diatoniche conduceva alla liberazione dell’ormai appesantita scala tonale e, conseguenza finale, alla disposizione assolutamente libera di ciascun grado del nostro sistema cromatico a dodici suoni». Contemporaneamente, la scoperta delle opere di Debussy, avvenuta su suggerimento di Zoltàn Kodàlly, suo collaboratore anche nello studio del folclore nazionale, gli aprì orizzonti impensati: «scoprii con stupore che alcuni giri pentatonici, assolutamente identici a quelli della nostra musica popolare, erano fondamentali nel suo stile melodico. […] Emerge quindi attualmente, e dai paesi geograficamente più lontani, la medesima esigenza: giungere alla musica colta attraverso gli elementi di una musica popolare
fresca, che non ha cioè subito i condizionamenti di quanto scritto in questi ultimi secoli» (Autobiografia, 1921).
Tutto ciò avveniva attorno al 1907. Dopo l’iniziale entusiasmo, Bartók fu colto da una crisi profonda, provocata non tanto dal fatto di non credersi in grado di poter esprimere il risultato delle sue ricerche quanto dalla constatazione di non essere compreso, ma anzi fortemente osteggiato. La scelta di scrivere un Quartetto per archi fu la logica conseguenza di questa crisi e la soluzione del conflitto.
Proprio Kodaly, recensendo nel 1921 per la “”Revue Musicale”” il Primo Quartetto dell’amico, ne
metteva in luce retrospettivamente il travaglio di un dramma interiormente vissuto, vedendo in esso
«una specie di “”ritorno alla vita”” di un’anima approdata alla foce del nulla. È musica a programma,
che però non ha bisogno di alcun programma, giacché trova in se stessa la sua spiegazione». Anche
Massimo Mila sottolinea il carattere di «ardente diario lirico» del Quartetto, al quale «il compositore confida le parole più alte e definitive»; ma ne coglie altresì come manifesto «l’aggancio consapevole all’ultimo stile beethoveniano, in particolare alla lenta polifonia strumentale dell’Adagio ma non troppo e molto espressivo, con cui comincia il Quartetto in do diesis minore op. 131». Questo prendere a modello lo stile dell’ultimo Beethoven dei Quartetti appare il segno più evidente della raggiunta consapevolezza di Bartók, l’individuazione di un punto di partenza collocato molto in alto, da cui prendere le mosse per dare fisionomia compiuta all’espressione della sua chiarificazione compositiva.
Se gli elementi fin qui ricordati concorrono insieme a creare il materiale di base del Quartetto, la
forma presenta aspetti di indubbia originalità ed entra a pieno diritto, accanto ai coevi Quartetti di
Schönberg, a definire lo scenario della modernità novecentesca. I tre tempi hanno caratteri diversi,
che corrispondono a tre diversi momenti di un processo non solo di chiarificazione ma anche per così dire di liberazione. Dal Lento iniziale, con il fugato costruito su un tema ad ampi intervalli, nel quale una fondamentale diatonicità nasconde aggregazioni cellulari e densità cromatiche portatrici non solo di ulteriori sviluppi compositivi ma anche di una carica espressiva appassionata, fino all’Allegro vivace conclusivo, pregno di spunti popolari e preceduto da un’interrogativa Introduzione in forma di recitativo, il Quartetto non sembra conoscere ripartizioni o fratture: sono avvicendamenti necessari nell’articolazione musicale, aperture liriche che conducono alla sospensione attonita o riprese di energia che si accumula nell’intensificazione ritmica, come nel secondo movimento (Allegretto). Il traguardo di costruire una forma tanto compatta quanto vibrante in una scrittura strumentale ora aggressiva ora morbida, comunque lucidissima e timbricamente variegata, e insieme di esprimere una sorta di “”vicenda dell’anima”” che ritrova la sua capacità di esistere e di parlare gioiosamente, viene raggiunto con una sicurezza essenziale, che è già premessa di uno stile decantato dalle stesse molteplici relazioni di cui è intessuto.
Da questo punto di vista il Secondo Quartetto op. 17 è una riflessione che denuncia altre discendenze. Esso reca in calce la data 1915-1917, come se Bartók lo considerasse questa volta davvero un diario di due anni della sua vita. Anni di guerra, per lui come per molti altri terribili, in cui la musica sembra quasi una forma di difesa dalla minaccia dell’annientamento. Mettendo l’accento su queste circostanze, si è soliti vedere in esso un rovesciamento dell’itinerario percorso nel Quartetto precedente, una discesa dalla luce negli abissi di un destino tragico e desolato. Ancora tre movimenti, ma configurati in modo assai diverso, con il vasto, selvaggio Scherzo centrale incorniciato simmetricamente da due movimenti lenti: quasi parti a se stanti di un tutto frantumato, di cui si vien cercando la ricomposizione. Solo che questa ricomposizione si nega a ogni passo, soprattutto laddove cerchi una affermazione sicura, come nel Moderato iniziale, al suo compimento: sicché il contrasto tra figure ribollenti di energia e di potenziale costruttività e sviluppi che le bloccano in ostinate ripetizioni ruotanti su se stesse non conduce a sbocchi luminosi, ma accentua il senso di un’incertezza dubbiosa, quasi sarcastica nel suo virtuosismo. Il movimento che segue, Allegro molto capriccioso, è appunto uno Scherzo cui si vorrebbe dare l’etichetta di danza macabra; se il ritmo, duro, scabro, per così di-re messo a nudo come sostanza immanente della composizione, non facesse balenare continuamente la concretezza e l’euforia della vita, di una vita che si smarrisce e si scontra con se stessa per emergere dal vortice dell’abisso: realismo cupo e delirio visionario ne sono i connotati fondamentali, valori inassimilabili fra loro ma capaci di agire, di tener desta la volontà di esistere e di lottare. Come un collasso, il Lento che chiude il Quartetto segna il passaggio dall’attivismo alla paralisi, al gelo e alla vertigine dell’anima. Un’atmosfera notturna, lunare, avvolge nella più glaciale tristezza il sogno di una ricomposizione, che ora appare dolorosamente lontano. Siamo di fronte a una delle pagine più ardue e solitarie di Bartók: musica del silenzio prima del silenzio. Di essa Massimo Mila ha scritto che «questo Lento, così disadorno e aspro nella sua disperazione, può essere inteso come la marcia funebre del XX secolo».
E proprio qui, in questo vuoto che risucchia la pienezza, possiamo trovare la zona d’aggancio con
i 12 Microludiums di György Kurtàg: tanto da giustificare l’impaginazione del programma con l’inversione cronologica dei due lavori di Bartók. Di cui Kurtàg, nato nel 1926 a Lugoj in Romania ma ungherese a tutti gli effetti, musicista di rara profondità e ricercatezza, può essere considerato, e
non solo per motivi anagrafici, un erede, un continuatore. Assorbita l’opzione folclorica, che proprio
grazie a Bartók è diventata il fondamento dell’identità della musica ungherese, Kurtàg ne coglie soprattutto la lezione compositiva, la distillazione d’un linguaggio d’arte radicato negli insegnamenti
del canto popolare e astratto in una visione metafisica e oggettiva del suono. Ma ancor più sembra accettarne il valore morale, la ricchezza spirituale: che s’incarna nella purezza dello stile strumentale, nella dolorosa rivelazione di un vuoto tanto angoscioso quanto inaccettabile dall’artista creatore. Questi pezzi sfaccettati e cristallini hanno il carattere frammentario di schegge che aspirino a ridisegnare un mondo in miniatura, per porre le basi di una comunicazione che partendo dalla desolazione del Lento di Bartók non si ferma a contemplarne la tristezza, bensì ne ricava la certezza di una trasfigurazione. Intuita o sperata, più che realizzata, ma immanente nella fede dell’uomo che guarda avanti a sé, e dalla grandezza dei suoi antenati deriva il coraggio per fare nel presente di quattro archi di un Quartetto una ennesima testimonianza di vitalità trasognata.
Quartetto Keller
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione di musica da camera 1992-93