Béla Bartòk – Il Mandarino meraviglioso, op. 19 – Suite da concerto

B

Béla Bartòk

Il Mandarino meraviglioso, op. 19 – Suite da concerto

 
La genesi della musica del Mandarino meraviglioso – terzo e ultimo lavoro per la scena di Béla Bartòk – ha una storia tormentata e abbastanza complessa, che ben si attaglia alle novità poco gradevoli dei suoi contenuti sia linguistici che drammatici. Siamo di fronte a un caso di strenua volontà da parte di un autore nei confronti della propria opera, fondata sulla convinzione della necessità delle sue scelte e forse sulla intuizione che quel che ne nascerà non è così inattuale e irreale, per quanto scandaloso possa sembrare.

La data d’inizio della composizione, registrata in una preziosa lettera, è il 14 settembre 1918, allorché Bartòk decide di mettere in musica il testo di Melchior Lengyel – drammaturgo ungherese suo coetaneo – nella forma di una pantomima in un atto. Ad attrarlo è il miscuglio di esotico e di realistico che emana dalla figura del Mandarino insieme meraviglioso e miracoloso (tale il significato dell’aggettivo csodàlatos), la cui apparizione misteriosa sembra provenire da un altro mondo e portare con sé un’atmosfera d’indescrivibile estraneità e abbandono. Quel che Bartòk immagina non è né un’opera né un balletto, ma una pantomima nella quale gesti stilizzati e riferimenti appena accennati alle immagini e alle suggestioni del testo consentano alla musica di espandersi liberamente e autonomamente in una traiettoria di fiaba, ai confini della fantasia onirica.

Il progetto è ardito, ma trova giustificazione nelle ceneri in cui si è consumato il teatro espressionista e simbolista e, più personalmente, nelle precedenti esperienze teatrali di Bartòk, l’opera Il castello del principe Barbablù (1911) e il balletto Il principe di legno (1916), che chiamano nuove esperienze. Nel maggio 1919 la composizione è ultimata nelle sue linee essenziali, ma si interrompe a causa dei tragici eventi che seguono alla catastrofe della prima guerra mondiale: al crollo dell’impero asburgico succede la parentesi rivoluzionaria della repubblica di Béla Kuhn, cui anche Bartòk aderisce, indi la reazione militare dell’ammiraglio Horthy, che prepara all’Ungheria anni di duro isolamento. Soltanto nel 1923 Bartòk può riprendere l’orchestrazione della sua partitura, ma le circostanze sono proibitive per una rappresentazione in patria; la ripresa dei contatti con la Germania apre spiragli favorevoli, e Il Mandarino meraviglioso può andare in scena a Colonia il 27 novembre 1926, provocando uno scandalo inaudito. Le repliche sono bloccate dalla censura e il direttore che aveva osato dirigerla, il fuoruscito ungherese Jenö Szenkàr, diffidato dal prendersi certe libertà. Sorte non migliore, anzi decisamente peggiore, tocca al primo tentativo di presentare la pantomima in Ungheria: all’Opera di Budapest il Mandarino fu accolto nel cartellone del 1931, ma la rappresentazione cancellata dopo la prova generale. Se a Colonia erano stati la crudezza dello spettacolo e il genere della «pantomima» ad apparire troppo «realistici» (al contrario delle intenzioni di Bartók), a Budapest fu il soggetto in quanto tale a suscitare le ire della censura: e dunque non si arrivò neppure alla prima. Nacque allora, non da parte di Bartók che pure pregiudizialmente non la rifiutò, l’idea di adattare la pantomima a balletto, provvederla cioè di una struttura coreografica che ne ammorbidisse la novità e distogliesse l’attenzione, o quanto meno la incanalasse in valori più tradizionali, dalla tagliente asprezza della musica. Il compromesso privò la storia del teatro musicale del Novecento di una delle più straordinarie proposte drammaturgico-musicali che mai si fossero concepite ma garantì la più ampia diffusione della creazione bartókiana; tanto più che a rendersene promotore era stata la grande personalità di Aurel M. Milloss, colui che impresse il sigillo alla nuova forma del Mandarino con la sua memorabile coreografia andata in scena alla Scala il 12 ottobre 1942: responsabile anche, auspice il futurismo surreale delle scene e dei costumi di Enrico Prampolini, della definizione di uno sfondo alienato e disumano – l’immagine mostruosa della città Moloch – sostanzialmente estranea alla stilizzata sospensione di tempo e spazio dell’originale, spoglio scenario bartókiano.

Ma già molti anni prima l’autore aveva deciso di estrarre dalla partitura una Suite da concerto che consentisse la circolazione almeno parziale della musica: segno, da un lato, della consapevolezza che gli ostacoli maggiori stavano proprio nel contenuto della vicenda e nella forma drammatica scelta a rappresentarlo; dall’altro lato, però, anche della convinzione che la musica fosse dotata di una sua autonomia e non dovesse essere rigettata in quanto tale, per quanto nuova e dissonante potesse suonare. La stesura definitiva della Suite fu ultimata nel 1927 ed eseguita per la prima volta a Budapest il 15 ottobre 1928 dall’Orchestra Filarmonica ungherese sotto la direzione di Ernö von Dohnànyi. Essa comprende i due terzi circa della partitura completa, dall’inizio della grande scena centrale della lotta selvaggia fra la ragazza e il Mandarino, che culmina in un forsennato amplesso: la conclusione sinfonica si concentra su questo culmine, interrompendo la scena all’apice della tensione e rinunciando così alla trasfigurazione che nella pantomima segue con l’intervento stupefatto del coro invisibile, che accompagna lo spegnersi dell’azione con attoniti vocalizzi.

La vicenda drammatica, supporto essenziale per la comprensione della musica ben oltre le implicazioni narrative, è riassunta da Bartók come segue nella prefazione alla partitura: «In una miserabile stanza di periferia tre vagabondi costringono una ragazza ad adescare dalla strada uomini per derubarli. Un sordido cavaliere e un giovane timido, che si sono lasciati attirare, vengono messi alla porta come miseri pezzenti. Il terzo ospite è l’enigmatico Mandarino. La ragazza tenta di sciogliere la sua spaventosa immobilità con una danza, ma fugge inorridita quando egli cerca timidamente di abbracciarla. Dopo una caccia selvaggia il Mandarino la prende; in quel momento i tre vagabondi balzano fuori dal loro nascondiglio, derubano il Mandarino e cercano di soffocarlo sotto dei cuscini. Ma egli si risolleva e guarda appassionatamente la ragazza. Lo trafiggono con la spada: vacilla, ma il suo desiderio è più forte delle ferite: si scaglia sulla ragazza. Allora lo impiccano: ma egli non può morire. Solo quando staccaao il corpo dalla corda e la ragazza lo prende fra le sue braccia, le ferite cominciano a sanguinare e il Mandarino muore».

Il realismo della vicenda è solo la facciata esteriore di un simbolismo dai molteplici significati: sullo sfondo di un’umanità degradata e comicamente tragica (i tre vagabondi e i due clienti, l’anziano e gaudente libertino, il giovane timido e ignaro della vita), l’apparizione del misterioso Mandarino getta i bagliori di una magica inquietudine, che si fa sempre più tesa e allucinata. La metafora della forza elementare, violenta dell’istinto sessuale, strumento di contatto e di comunicazione, trova riscontro nella pietà e nella tenerezza con cui la ragazza, dopo i primi momenti di attrazione e di disgusto per la mostruosa estraneità del Mandarino, consente a lui di morire, accogliendolo fra le sue braccia: variazione estrema del motivo romantico di amore e morte.

La musica del Mandarino meraviglioso galleggia sulle acque tumultuose della cascata espressionista, ma lascia intravedere di continuo che quella piena travolgente sottintende argini saldi e chiuse regolari. Le tensioni allucinate, le atmosfere visionarie, gli aspri addensamenti armonici e contrappuntistici, i parossismi ritmici, le incandescenze timbriche riposano su rigorose strutture formali che non soltanto rendono compatti i singoli episodi ma stabiliscono anche una coerenza fra le relazioni tematiche, che illuminano in profondità anche i simboli della vicenda.

Adam Fisher / Boris Belkin, Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione di Concerti 1985

Articoli