Beethoven e le ragioni del dover essere. Riflessioni sul pensiero forte in Beethoven

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Beethoven e le ragioni del dover essere. Riflessioni sul pensiero forte in Beethoven

Quando mi fu chiesto di partecipare a questa serie così prestigiosa di conferenze, che ha avuto presenze davvero considerevoli su temi musicali ma anche attorno alla musica, io ero reduce da un incontro che era stato fatto a Torino, quando programmai il ciclo completo delle nove sinfonie di Beethoven con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Un’occasione quindi di ascoltare nell’arco di due, tre settimane tutta la produzione sinfonica di Beethoven: non soltanto le sinfonie ma anche le ouvertures e quei pezzi, come la Fantasia per coro, pianoforte e orchestra, che hanno a che fare con il pensiero sinfonico di Beethoven. In quell’occasione organizzammo appunto un incontro al quale parteciparono due personaggi di grandissimo rilievo della nostra cultura, molto diversi fra loro, invitati da me espressamente proprio perché volevo che intorno a Beethoven si aprisse un discorso un po’ più ampio di quello musicologico, di quello semplicemente musicale: cioè Mario Bortolotto – che tutti voi conoscete come il più importante pensatore di musica, musicologo è dir troppo poco, che in Italia abbiamo oggi – e Gianni Vattimo – il filosofo che anche dalle pagine dei giornali, della “”Stampa”” in modo particolare, ci dice quello che pensa sugli argomenti più svariati. Entrambi, partendo da punti di vista distinti, ma arrivando alla stessa conclusione, fecero una intelligente analisi a tutto campo di Beethoven. Non soltanto del musicista, non soltanto di quello che Beethoven rappresenta come musicista nella storia, ma anche del pensiero che ne sta alla base. E questo pensiero, soprattutto Vattimo lo defini, in chiara antitesi con quello che è il suo credo filosofico, un pensiero forte, un pensiero forte che appartiene ad un’epoca e ad una visione del mondo del tutto diverse da quelle che poi il Novecento ci ha lasciato in eredità e che per Vattimo invece si identificano nella teoria del pensiero debole, ossia di un pensiero nel quale non esiste la possibilità di una certezza, non esiste la possibilità di una linea che porti da un punto di partenza a un punto di arrivo, non esiste quindi la possibilità di una visione positiva, ricompositiva, non dico ottimistica, del mondo.

Pensiero forte e pensiero debole mi hanno fatto venire in mente quello che per me è sempre stato il punto di partenza della musica di Beethoven, qualcosa che sta al fondo della sua unicità non soltanto di musicista ma anche di artista e in parte anche di uomo, per quanto sia sempre molto difficile mettere in relazione questi aspetti. Ed è appunto il concetto di dover essere: un concetto che si manifesta in maniera molto chiara attraverso le fasi della sua musica. Il dover essere, che in tedesco è racchiuso in un solo verbo – müssen – indica un imperativo categorico, il fatto cioè di non poter sottrarsi all’interno di una volontà che viene ad essere determinata da qualche cosa di più forte, di più alto. E’ chiaro che questa idea di Beethoven è in parte anche una acquisizione dell’Ottocento: per tutto l’Ottocento Beethoven fu associato all’immagine del titano. E’ ciò che Brahms, in procinto e comunque indeciso su come varcare quella soglia che l’avrebbe portato finalmente ad affrontare il campo sinfonico, esprime con queste parole: «E’ difficile compiere qualcosa quando si sente l’ombra di quel gigante dietro di noi». Parole che lo stesso Schubert aveva pronunciato con i medesimi accenti anni prima. L’idea che Beethoven rappresentasse qualche cosa di titanico, di gigantesco, di condizionante, era appunto un’immagine ricorrente nell’Ottocento, in cui non si era ancora in grado per vari motivi di conoscere fino in fondo come si fosse maturato e su quali basi Beethoven avesse sviluppato il suo pensiero. Esisteva la sua musica ed era una musica di fronte alla quale non bastava inchinarsi, ma era giocoforza, quasi, nutrire un atteggiamento di soggezione.

Ma facciamo un passo indietro e prendiamo un altro punto di vista, che può rappresentare nell’Ottocento il contraltare all’immagine titanica di Beethoven: ed è quello che Goethe ci presenta in due o tre testimonianze a ridosso dell’incontro avuto con Beethoven nel luglio 1812, per esempio quando al suo consigliere musicale di fiducia, Karl Friedrich Zelter, racconta l’impressione che gli ha fatto la conoscenza diretta di Beethoven. Scrive di lui lapidariamente Goethe: «Ho conosciuto Beethoven a Teplitz. Il suo talento mi ha stupefatto; ma egli è purtroppo una personalità del tutto indisciplinata, che certo non ha torto di trovare il mondo detestabile, ma che in tal modo non lo rende più gradevole né a sé né agli altri. Tuttavia egli è degno di essere pienamente scusato e anzi profondamente compianto, poiché il suo udito lo abbandona; il che nuoce forse meno alla parte musicale del suo essere che a quella sociale. Egli, che è già laconico per natura, lo diviene doppiamente ora a causa di questa infermità» (2). È chiaro che nella considerazione di Goethe non era tanto l’aspetto del pensiero forte, in un certo senso, coerente e fermo nella sua ricerca, a colpire in Beethoven, quanto quello del demonico sovvertitore, del visionario ispirato che per le idee di Goethe, in fatto di musica abbastanza limitate, molto ritagliate su se stesso, lo facevano apparire come una personalità di indiscusso talento ma priva di quella disciplina, di quel controllo e distacco che evidentemente Goethe identificava con la misura classica. Idea che fra parentesi condivideva anche Schubert. E di qui che probabilmente è nata, ripresa e amplificata non sol-tanto da musicisti come Schumann ma anche da letterati versatili come E.T.A. Hoffmann, l’idea di un Beethoven più romantico che classico, in cui l’aspetto dell’indisciplina sfrenata faceva aggio su quello del pensiero, della coerenza, dell’indomita forza di ricerca. È però interessante notare che questo giudizio di Goethe, reso per così dire a freddo e a un musicista, e quindi in un certo senso ufficiale, era stato in parte formulato diversa-mente da quanto aveva scritto a caldo alla moglie Christiane: «Non ho ancora visto un artista più concentrato, più energico, più profondo. Capisco molto bene come egli nei riguardi del mondo debba trovarsi in una strana condizione»(3).

La lettera a Zelter, concepita in termini molto più meditati, mette meglio a fuoco gli aspetti che Goethe aveva rimarcato precedentemente e, al di là del giudizio oggettivamente distaccato, lascia intuire una verità: la concentrazione, l’energia, la profondità, la difficoltà di venire a patti con il mondo sottintendevano in Beethoven un’intima, sofferta necessità. La sua osservazione finale è straordinariamente penetrante e fine quando tira in ballo l’aspetto più clamoroso, diciamo così, della vita di Beethoven, il fatto cioè che per gran parte della sua vita, in pratica dal momento in cui la sua strada di compositore si individuò, Beethoven dovette lottare contro una menomazione paradossalmente contraria a ogni logica per un musicista, ovvero la sordità. Un musicista sordo è una contraddizione in termini, di proporzioni appunto addirittura gigantesche. Però Goethe aggiunge un’osservazione che non si ritrova in nessun’altra testimonianza, né precedente, e qui siamo nel 1812, quando ormai la sordità di Beethoven era un fatto conclamato, diciamo così, di fama europea, né successiva. E cioè che in realtà la sordità di Beethoven era qualcosa che danneggiava più l’aspetto sociale della sua vita di relazione che non il lato musicale del suo essere. Voi sapete che ancor prima di dover ricorrere per comunicare con il mondo esterno ai Quaderni di conversazione Beethoven teneva un taccuino privato, nel quale annotava cose che gli interessava, diciamo così, fissare: molto spesso sono frammenti isolati della cui importanza solo l’autore sapeva il senso, frasi significative tolte da opere, da autori a lui cari, o considerazioni magari marginali in cui ora un sentimento, ma anche un pensiero filosofico, si compendiano in frasi memorabili; altre volte invece queste annotazioni fanno parte più direttamente del costituirsi della personalità e della coscienza, anche musicale, di Beethoven. E appunto in un taccuino troviamo la famosa frase, sovente citata, impossibile non citarla quando si parla di Beethoven, riguardante Kant: «la legge morale in noi, ed il cielo stellato sopra di noi! Kant!!!». Kant, con tre punti esclamativi(4). Questo riconoscimento di una visione filosofica che unisce l’idea di una legge morale e di un cielo stellato, cioè un pensiero che come poi vedremo ha un significato ricorrente, anzi sempre più drammaticamente ricorrente, nelle opere dell’ultimo periodo, accompagna Beethoven lungo il corso di tutta la sua vita e riveste il significato di un principio spirituale basato sul concetto di dover essere.

Tale principio implica concetti di molteplice natura, anche fra di loro contraddittori.

Il primo e più importante è quello di destino. Per Beethoven il destino è qualcosa di già scritto, di prefissato, che non può essere cambiato ma che non deve essere solo accettato, bensì conosciuto fino in fondo: in un certo senso inverato in una scelta di dover essere. Quindi contro il destino bisogna lottare, sfidarlo: e se questa convinzione può avere un significato personale in relazione alle gravi battaglie che Beethoven dovette sostenere con la sua salute, essa diventerà poi anche e soprattutto una concezione dell’arte e della vita. Più volte nelle sue lettere, quasi ossessivamente soprattutto da quando intorno al 1800, 1801 cominciò a rivelarsi la gravità dei disturbi all’udito, Beethoven tocca questo tema. Ne potrei citare molte, mi limito soltanto a un paio. A un amico che si chiamava Wegeler, Franz Gerhard Wegeler, un amico ancora dei tempi di Bonn, di prima che Beethoven andasse a Vienna e che lo seguirà poi a Vienna nel 1801, egli scrive: «Se sarà possibile sfiderò il mio destino, anche se credo che finché vivrò vi saranno momenti in cui sarò la più infelice creatura di Dio. Rassegnazione, misera risorsa, eppure è tutto quello che mi è rimasto» (5). A un altro amico, Carl Amenda, due giorni dopo racconta i disturbi, le terribili prove che il suo udito ha dovuto soffrire anche con cure non sempre efficaci e conclude questa lettera con una nuova dichiarazione d’intenti: «devo ritirarmi da tutto, e i miei anni migliori fuggiranno via senza che io possa realizzare tutto ciò che il mio talento e la mia forza mi hanno richiesto di fare. Triste rassegnazione, nella quale sono costretto a cercare rifugio. E inutile dire che sono risoluto a lottare contro tutto ciò, ma in che modo?» (6). E ancora, poche settimane dopo, tornando a scrivere a Wegeler. «afferrerò il fato per la gola, non riuscirà certo a piegarmi e a schiacciarmi completamente – oh, è così bello vivere mille volte la vita – per una vita tranquilla, no, lo sento, non sono più fatto»(7). Per quanto Beethoven faccia riferimento alla rassegnazione come a una cura dell’anima, il suo stoicismo non giunge a esorcizzare il pessimismo né a soffocare la determinazione a resistere. Anzi, la sua energia interiore giungerà a ribaltare il concetto stesso di destino proprio attraverso le prove del dover essere.

Il documento centrale e risolutivo di questo atteggiamento che a mio parere fortifica in Beethoven il principio del dover essere è il cosiddetto testamento di Heiligenstadt(8). Questo famoso documento, che è stato, non dimentichiamolo, ritrovato tra le carte di Beethoven dopo la sua morte, e che quindi non fu reso ufficialmente pubblico nel momento in cui egli lo scrisse, cioè tra il 6 e il l0 ottobre del 1802 ad Heiligenstadt, dove si era ritirato per alcuni mesi nella speranza appunto di guarire dal suo male: questo documento, dicevo, è molto complicato da leggere – al di là dell’emozione che si prova ogni volta nel farlo – perché se da un lato sembra quasi erompere come una necessità interiore, dall’altro lato costituisce una specie di calcolata edificazione di un modo di essere e di presentarsi di fronte al mondo, dove Beethoven in parte dice la verità e in parte si nasconde dietro a una costruzione fittizia. Già l’inizio è significativo: Beethoven si rivolge non ai destinatari reali, cioè ai suoi fratelli Kaspar Karl e Johann van Beethoven, bensì all’umanità intera:

 

O voi, uomini che pensate o dite che io sono astioso, testardo o misantropo, come mi giudicate male. Voi non conoscete la causa segreta che mi fa apparire così ai vostri occhi. Sin dall’infanzia il mio cuore, il mio animo sono stati colmi del tenero sentimento della benevolenza, e io sono sempre stato propenso a compiere grandi azioni. Considerate però che negli ultimi sei anni sono stato tormentato da un male senza speranza, peggiorato per colpa di medici insensati. Di anno in anno sono stato ingannato con speranze di miglioramento, ed infine costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica la cui guarigione esigerà degli anni o sarà forse impossibile. Pur essendo dotato di un temperamento ardente e vivace, ed anche sensibile ai piaceri della società, sono stato presto costretto a ritirarmi in me stesso, a vivere in solitudine. Se a volte tentavo di dimenticare tutto ciò, con quanta durezza mi riportava alla realtà l’esperienza doppiamente triste del mio debole udito. Eppure mi era impossibile dire alla gente: “”parlate più forte, gridate perché sono sordo””. Ah, come potevo ammettere un’infermità proprio in quel senso che in me dovrebbe essere più perfetto che negli altri, un senso che un tempo raggiungeva in me il massimo della perfezione, perfezione che pochi nella mia professione posseggono o mai hanno posseduto. Oh, non posso farlo. Perdonatemi dunque se mi vedete ritirarmi in me stesso quando invece mi sarei con gioia unito a voi. Questa disgrazia è per me doppiamente dolorosa, perché sono destinato ad essere incompreso, non può esservi alcun conforto per me nella compagnia dei miei simili, né conversazioni elevate nel reciproco scambio di idee.

Sono costretto a vivere quasi completamente solo, come fossi stato bandito dalla società alla quale posso mescolarmi soltanto in caso di necessità. Se mi avvicino alla gente mi assale un violento terrore, ho paura di correre il rischio che si noti la mia condizione.

           

Ometto alcune descrizioni più specifiche delle esperienze che Beethoven qui ricorda quasi per accrescere ad arte, diciamo così, l’emozione in chi legge o leggerà o avrebbe dovuto leggere o forse non avrebbe mai letto questa confessione e passo direttamente alla parte finale, perché è la parte finale che autorizza l’ipotesi che questo documento sia una dichiarazione costruita con molta lucidità e con molta freddezza al fine di creare un’immagine di se stesso che certo parte dalla menomazione della malattia, ma che, nel momento in cui attraverso la confessione di questa menomazione cancella e travolge tutti quelli che erano i difetti caratteriali o quelli che molti ritenevano fossero i difetti caratteriali di Beethoven, indirizza tutto quanto verso un’altra dimensione, verso un altro obiettivo del tutto sottratto a sentimenti di commiserazione e di pietà:

           

Mi sembrava impossibile lasciare questo mondo prima di aver espresso tutto ciò che sentivo dentro di me, così ho cominciato a sopportare questa miserabile esistenza, davvero miserabile per un fisico così sensibile che può precipitare repentinamente dalle migliori alle peggiori condizioni. La pazienza, dicono, è la virtù che devo scegliermi come guida e così ho fatto, spero che la mia volontà rimanga tanto salda da sopportare tutto ciò sino a che l’inesorabile Parca vorrà recidere il filo.

Costretto a diventare filosofo a ventott’anni, non è semplice e per un artista è ancora più difficile che per chiunque altro.

           

Ora Beethoven non si rivolge più solo agli uomini, ma cambia il suo destinatario, alzando il tiro:

           

Divinità! Tu guardi nel mio intimo, tu conosci il mio cuore; tu sai che vi abitano l’amore per l’umanità, l’inclinazione a far del bene. O uomini, se un giorno leggerete queste mie parole, pensate che mi avete fatto torto, e l’infelice si consoli trovando un infelice come lui che, malgrado tutti gli ostacoli della natura, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per essere accolto nella cerchia degli artisti e degli uomini degni.

           

Infine si rivolge direttamente ai fratelli e il testamento si conclude con un’ultima serie di raccomandazioni:

 

Insegnate ai vostri figli la virtù; essa soltanto può rendere felici, non il denaro: parlo per esperienza. E’ stata essa che mi ha recato sollievo nella sofferenza, a lei, oltre che alla mia arte, debbo se non ho posto fine alla mia vita con il suicidio. Addio, e vogliatevi bene.

 

Eccetera. Segue un post scriptum, aggiunto quattro giorni dopo, in cui Beethoven si congeda dalla città che l’aveva ospitato:

 

Così ti dico addio con tanta tristezza, sì, quella cara speranza che ho portato qui con me di guarire almeno in parte ora debbo abbandonarla del tutto, come le foglie d’autunno cadono e avvizziscono, così la mia speranza è appassita. Parto da qui quasi nello stesso stato in cui ero arrivato, persino il grande coraggio che spesso mi ha ispirato negli splendidi giorni di estate è scomparso. Oh, Provvidenza, concedimi un giorno almeno di pura gioia, è trascorso tanto tempo da quando una gioia vera echeggiò nel mio cuore. Oh quando, quando, o Essere Divino, proverò di nuovo la gioia nel tempio della natura e dell’umanità… Mai? No, oh sarebbe troppo crudele.

 

In questo cosiddetto testamento, espressioni di sentimenti molto profondi e molto commoventi, anche di sincera disperazione per l’aggravarsi dei sintomi della sordità, si alternano a dichiarazioni quasi affettate, chiaramente ispirate da fonti letterarie e perfino musicali (per esempio la scena di Tamino solo davanti al tempio alla fine del primo atto del Flauto magico). Esse intendono però sottolineare solennemente un dato preciso: la determinazione a resistere, come aveva detto prima, e soprattutto la volontà di mettere a fuoco alcuni principi, che diventano l’essenza di ciò che Beethoven ha da quel momento concepito in musica. Il dover essere si presenta collegato qui con un altro principio, il principio di necessità, che ha il carattere di un imperativo categorico, ma che nello stesso tempo va inteso in un duplice senso: necessità come qualcosa che viene imposto, ma anche come qualcosa che si impone. E un po’ il duplice significato, poi, del müssen tedesco. Questa necessità, intesa in questo duplice senso, come qualche cosa che viene imposto, e come qualche cosa che si impone, è un principio che potremmo definire con un unico termine: necessità ideale. Ideale perché, come si evidenzia pur nella drammatica emotività del testamento di Heiligenstadt, non si concretizza nell’agire quotidiano, cioè nel modo di essere nel mondo (anzi Beethoven dice: il mio modo di essere nel mondo non è la realtà di quello che io sono), ma si esprime in una sfera che a poco a poco si individuerà in modo sempre più preciso e assoluto nella sfera della creazione artistica.

Impegno, messaggio, missione. Questi termini, oggi svalutati e derisi dal pensiero debole o tutt’al più ricondotti a un significato politico-sociale, avevano per Beethoven tale contenuto di idealità da divenire, attraverso la sua musica, quasi fisicamente reali.

Beethoven non era un letterato né un poeta, bensì un compositore, e quindi l’uso di certi termini va inteso per quello che essi rappresentano al di là del loro significato semantico primario. Essi indicano una meta ideale che diviene anche un modo di essere e di tendere verso un fine, perfino oltre i risultati oggettivi. C’è una frase, nei taccuini, molto istruttiva, una frase che non è una affermazione di poetica romantica alla Schumann, per così dire, dell’infinito come meta, bensì qualche cosa di molto più preciso, quasi di filosofico. Scrive Beethoven, quasi parlando a se stesso: «benedetto colui che, prima di trionfare su tutte le passioni, impegna la sua energia nel compimento delle opere che la vita impone, senza preoccuparsi del risultato. Lo scopo del tuo sforzo dev’essere l’azione, non il risultato» (9). Ciò che troviamo scritto, appunto, in una nota rapida, messa su carta per se stesso, quasi dandosi del tu, definisce un aspetto importante, importante anche per l’arte di cui Beethoven si occupava, cioè la musica: l’importanza del movimento, dell’azione, dell’energia che viene portata a compimento. Questo principio configura ancora una volta una necessità, ma non più di tipo astratto. E qui cerchiamo di entrare un po’ più addentro l’aspetto musicale: finora ci siamo girati un po’ intorno, adesso vediamo di bucare anche questa superficie.

 

Beethoven ha rappresentato nella storia della musica l’irruzione di una logica compositiva nella quale tutto si svolge in modo necessario e razionale, per deduzione e sviluppo. Il modo di pensare di Beethoven è un pensiero forte che si realizza attraverso lo sviluppo assolutamente logico e razionalmente conseguente di una forma organica: un organismo vivente, completo in ogni sua parte, in cui ogni parte è in rapporto con il tutto. Forse solo Bach, tra i musicisti dell’epoca moderna, aveva rappresentato qualcosa di simile: l’assoluta organicità di un metodo per cui il processo compositivo si svolge con coerenza strutturale necessaria, necessaria e interna, assolutamente interna, assolutamente connessa con il linguaggio, al punto che questo linguaggio determina esso stesso i suoi contenuti e le sue forme. Direi però che Beethoven va oltre: Beethoven crea questa necessità stabilendo per gradi le sue funzioni fino a farla apparire logica e razionale, addirittura immodificabile anche nelle sue novità. Non è che tutto questo si svolga senza sorprese, come qualcosa di predeterminato; ma anche le sorprese non sono tanto effetti emotivi devianti quanto snodi di un processo. In realtà la sorpresa sta nella fondazione del sistema, nel creare la necessità e nel farla apparire, appunto, conseguente, razionale, logica, immodificabile: un dover essere assoluto. Se l’assoluto preesiste come legge morale, questo dovere deve venir ricreato nel momento stesso in cui avviene lo sviluppo. Per così dire, Beethoven introduce nella storia della musica il principio della necessità della necessità. Se noi osserviamo questo processo generale – e qui per semplificazione mi riferirò alla tradizionale suddivisione nei tre periodi, nei tre stili, che è discutibile, ma che sarebbe argomento di un’altra conversazione -, noi vediamo come nel primo periodo Beethoven elabori le convenzioni, i sistemi che ha ereditato, lavorando alacremente all’interno di questi. Nel periodo successivo, di mezzo, viene messa in atto una tensione sempre più forte, sempre più determinata, che porta alla rottura di queste convenzioni e di questi sistemi: la tensione fa esplodere il sistema stesso. Ed è a questo punto che nasce il principio della necessità della necessità. La conseguenza che viene nel terzo periodo, ma che in realtà è già anticipata anche nelle opere precedenti e in maniera clamorosa perfino in certe opere dei primissimi anni, basti pensare alle prime tre Sonate per pianoforte dell’opera 2, definisce in modo a sua volta sistematico un nuovo ordine compositivo, che si dà da sé le sue leggi e le rende operative. Questo è l’elemento che distingue Beethoven da ogni altro musicista, anche da Bach, che queste leggi le trova già mature nella sua epoca e le può, in maniera somma, in proporzioni veramente divine, organicamente tessere insieme. Beethoven no. Beethoven creando si dà le sue leggi, e nel momento in cui queste leggi vengono date, immediatamente diventano anche normative. Ciò che scardina il sistema, in realtà crea un sistema più ampio, più comprensivo: sostituisce per così dire al vecchio un nuovo sistema. Questo processo avviene attraverso un altro principio basilare tra quelli che stiamo qui cercando di evidenziare, il principio della volontà, che è fondamentale nella visione beethoveniana del modo di pensare la musica, l’arte, la vita, del modo di pensare tutto quanto concerne gli atti umani, e in modo particolare i doveri di un’artista. Attraverso il principio della volontà e attraverso l’attuazione di questo principio le innovazioni sono rese non soltanto accettabili ma anche assolutamente necessarie, quasi senza resistenza. Di solito le innovazioni sono fratture contro cui, anche soltanto per il fatto che appunto introducono qualcosa di nuovo, ci si scontra con difficoltà. In Beethoven, questo lo sappiamo anche dalle testimonianze dei contemporanei, ciò non avviene: nel momento in cui queste innovazioni sono introdotte, esse divengono non soltanto accettabili ma anche assolutamente accettate, come se non potesse essere altrimenti. E questo perché nel momento in cui Beethoven crea un mondo sonoro nuovo, e anche ostico da un certo punto di vista, fornisce la chiave per comprenderlo. Le leggi di questa nuova costruzione sono sancite nel momento in cui vengono applicate anche nel modo più radicale e completo. Sancite al punto da essere considerate irripetibili e non passibili di modifiche. Tanto ricche di sviluppi quanto in se stesse compiute.

Farò alcuni esempi molto rapidamente. Qui mi affido anche alla vostra esperienza di ascoltatori. In fondo, badate bene, non è che essere contemporanei di Beethoven o ascoltare la sua musica oggi faccia, rispetto a quello che stiamo dicendo, molta differenza. Non si tratta di maggiore o minore novità o difficoltà o modernità: è una questione di logica, non di abitudine, se quello che avviene nella sua musica noi lo comprendiamo – e lo comprendiamo nel modo più naturale – senza doverci sforzare di interpretare ciò che ne sta, come premessa, alla base. Un esempio tra i più esplosivi – tutti conoscete benissimo questa sinfonia ma probabilmente non ci avete mai fatto caso – è la coda dell’Eroica: il fatto cioè che nel primo movimento della Sinfonia Eroica, della Terza Sinfonia, si presenti un episodio assolutamente abnorme, quasi in palese contrasto con la forma di un primo movimento di sinfonia. Quando tutto sembra finito, o dovrebbe essere finito, parte una coda, cioè una parte aggiuntiva, che di solito nella musica del tempo serviva da liquidazione del materiale fin lì esposto e sviluppato. Questa coda fa ricominciare a tutto un altro livello, più elevato, il discorso della sinfonia: in un certo senso lo rilancia e lo ispessisce. Noi non ce ne accorgiamo, e se ce ne accorgiamo la cosa ci sembra del tutto logica, anzi necessaria: mentre si tratta di una soluzione assolutamente non contemplata nelle possibilità delle convenzioni dell’epoca. Eppure il lungo episodio sembra del tutto naturale, e noi addirittura non ci rendiamo nemmeno conto che si tratti di una sezione formale aggiuntiva, che in quel momento si sviluppa in nodo abnorme e via via drammatico. Capiamo che ha una funzione, e anche se ancora non lo sappiamo lo accettiamo naturalmente, prima ancora di comprendere che quello che succede tragicamente dopo – la Marcia Funebre, ovviamente – è preparato proprio da questa coda (10). Ma anche nella Quinta Sinfonia, quel ritmo fatale scandito all’inizio, quasi senza melodia e senza armonia, che dominerà poi da cima a fondo il primo movimento: anche questa è una scelta che va contro le convenzioni del tempo. Eppure quel ritmo e quello sviluppo, che poi si estende in incredibili metamorfosi a tutta la sinfonia, ci appaiono non soltanto assolutamente logici, ricchi di sorprese e mai monotoni, ma sembrano addirittura esistere da sempre in quella forma: da quando noi, credo, ascoltiamo, o abbiamo ascoltato per la prima volta la Quinta Sinfonia, è come se questa musica l’avessimo avuta dentro di noi da sempre, come qualcosa che si riafferma come norma universale nel momento stesso in cui accade. Un altro esempio su un piano ancora diverso è la Sesta Sinfonia, cioè il nodo in cui una descrizione poetica programmatica, come se ne erano avute già in precedenza, o come anche in quell’epoca se ne avevano, divenga non pittura, ma espressione di sentimenti e di stati interiori, cioè non quadro naturalistico ma impressioni dell’anima integrate nella forma organica sinfonica, secondo una concezione della musica totalmente diversa da quella che era consueto attendersi nel genere di una sinfonia. Poi, certo, verranno altre sinfonie a programma e nascerà il Poema Sinfonico, ma senza che si ricrei mai più l’equilibrio innato di questa innovazione beethoveniana. Un’altra cosa possiamo semmai aggiungere. Considerando che la Quinta e la Sesta Sinfonia furono scritte, come sappiamo, quasi insieme, ne risulta che il mondo sonoro di Beethoven non è il risultato di una visione univoca e dogmatica, ma di una molteplicità di aspetti che viene però ricondotta a unità. Si vuol dire che siamo lontani per esempio da quanto accade in Schönberg, che può essere considerato a tutti gli effetti l’erede di Beethoven nel Novecento, in cui il sistema ultimo, quello dodecafonico, si impone preventivamente, richiedendo all’opera la sua applicazione. Beethoven è stato un compositore sistematico, ma non dogmatico.

Al principio di volontà è legato, nel campo musicale, quello che possiamo indicare come la caratteristica, o meglio il carattere, più evidente della musica di Beethoven, ossia il contrasto, il conflitto come mezzo di costruzione. Ora, il contrasto e il conflitto sono mezzi che nella musica esistono almeno da quando, in età classica, il movimento sonoro ha creato un discorso di più ampie dimensioni, compiuto e unitario. Ma il modo in cui questi caratteri si presentano in Beethoven ha un significato, a mio parere, ben preciso. In Beethoven ci sono contrasti di molti tipi, contrasti ininterrotti, contrasti di sorpresa, contrasti di antitesi. L’idea del contrasto è un mezzo di espressione fondamentale che conduce però a un punto di arrivo importante, non meno fondamentale, che contraddistingue Beethoven da ogni altro musicista che si sia impegnato in tal modo in questo campo: intendo dire il superamento totale, incondizionato, del negativo. Da questo punto di vista, come manifestazione di un pensiero forte contrapposto al pensiero negativo, Beethoven è sembrato, per esempio ad Adorno, un musicista inattuale, che non appartiene all’evoluzione del Novecento, dominato invece dal senso della perdita, dell’estraneazione e del gioco intellettuale: sintomi che hanno a che fare più con un pensiero negativo e disimpegnato (o tutt’al più impegnato su concreti temi sociali), che non con un superamento “”morale”” del negativo. Questo superamento del negativo si basa però in Beethoven su fatti musicali molto specifici, niente affatto astratti o ideali: e cioè sull’idea dell’insieme compiuto come entità chiusa (altro che opera aperta!), nella quale la globalità dell’opera non deve mai essere priva di quella identità, altra parola ai nostri tempi un po’ sospetta, che fa parte dell’essenza stessa dell’opera d’arte. Questa concezione si estende anche al modo di essere e di vedere le cose, diviene cioè un modo di pensare attraverso la musica: perché se scopo della musica è servire a dare piacere, a intrattenere, a comunicare sensazioni più o meno elevate, per Beethoven essa è principalmente un mezzo di conoscenza. un mezzo per affermare non solo il proprio essere nel mondo come personalità individuale, ma anche una superiore coscienza universale, che trascende la stessa individualità.

E qui ci spostiamo su una riflessione che ci permette di introdurre anche il primo brano musicale. Essa può sembrare in contraddizione con quanto ho detto finora, ma, come vedremo, non lo è: è anzi forse il piedistallo su cui fondare il discorso conclusivo. Voglio dire questo. In Beethoven il superamento del negativo è strettamente legato al superamento dell’eroismo. È chiaro, già lo abbiamo accennato, che l’eroe su cui è costruito il testamento di Heiligenstadt è una figura fittizia: un eroe a cui per primo Beethoven stesso non crede più. Verrà di li a poco l’Eroica, e sappiamo che nell’Eroica il tema dell’eroismo è fondamentale. Non voglio qui soffermarmi sulle vicende della dedica a Napoleone, della dedica stracciata, della dedica cambiata, anche se poi in realtà le varie fasi in cui si venne sviluppando l’Eroica mettono in luce un travaglio, che naturalmente non è soltanto un fatto aneddotico. Beethoven non parla nell’Eroica di un eroe preciso, di un eroe che si identifichi con un personaggio della storia ma parla dell’Eroe (con la «e» maiuscola) che incarna un ideale, come poi nella dedica della partitura si chiarirà: Sinfonia Eroica, composta per festeggiare il sovvenire di un grand’Uomo. Dove il grand’Uomo non è un eroe della storia, ma un artista, cioè Beethoven stesso. Appunto il superamento dell’eroismo è per Beethoven il superamento di uno stadio intermedio del principio di umanità. E questo lo rende, l’eroismo, una fase transitoria nella produzione di Beethoven, più che altro legata a un momento di identificazione personale con la storia, con un’illusione, con un’utopia: non per nulla di quest’eroe nato dalla coda del primo movimento, nella Marcia funebre, si celebra appunto la scomparsa e la rigenerazione. Proprio attraverso questa esperienza Beethoven sembra arrivare a sciogliere un nodo concettuale e filosofico, se vogliamo, per lui, che era un musicista, di grande profondità e di tragica grandezza: di elevatezza, direi, spirituale, oltre che umana. Cioè il superamento dell’idea che l’Eroe come persona reale possa illuminare e indirizzare il mondo.

Da questo punto di vista la visione beethoveniana dell’Eroe è diametralmente opposta a quella di Wagner, dove l’eroe o l’eroina, spesso, diviene strumento di redenzione attraverso il sacrificio, la rinuncia, e la pietà intesa come compassione ma anche come amore: Parsifal, per intendersi, alla fine di tutto questo cammino. Per Beethoven l’Eroe, che pure è una figura di riferimento nella sua opera, si universalizza in un ideale sovrumano che, per cosi dire, si rispecchia sulla terra, ma che non può essere completamente incarnato se non dall’opera d’arte. Come dire, questo valore cala sulla terra con una forza superiore assai più simbolica e universale, come un principio di individuazione di qualcosa che trascende la realtà stessa dell’epifania, perfino nel momento estatico in cui si manifesta e indica una meta di giustizia.

Se prendiamo come termine di paragone, visto che prima abbiamo fatto un accenno a Wagner, l’unica opera teatrale di Beethoven, Fidelio, vediamo che Beethoven ha espresso questo concetto in una forma altamente rappresentativa. E il momento in cui Don Pizarro irrompe nel sotterraneo del carcere per compiere la sua vendetta e uccidere Florestano, il suo nemico. Leonora, travestita da uomo, è riuscita a introdursi nel carcere e lo attende al varco. Leonora-Fidelio, travestendosi, diviene appunto l’eroina del titolo: e già è interessante, in questo caso, l’assorbimento di un aspetto tipicamente maschile in un personaggio femminile; anzi, meglio, la fusione dell’eroe e dell’eroina in un’unica figura di donna che per amore si finge uomo. Leonora, o Fidelio, punta la pistola contro il malvagio e si rivela come la moglie del prigioniero. Ma in quel momento, in modo inatteso e assolutamente sorprendente per le convenzioni operistiche dell’epoca, perfino nelle opere di salvataggio, come si chiamavano questo genere di opere di derivazione soprattutto francese, chiaramente ispirate a ideali rivoluzionari, in quel momento, dicevo. Leonora cessa di essere un’eroina e si sublima in un simbolo. Infatti punta la pistola, si, verso il malvagio Don Pizarro per impedirgli di uccidere colui che adesso si svela essere, oltre che una vittima dell’ingiustizia, suo marito, e naturalmente questa rivelazione accresce la sorpresa generale e la concitazione drammatica: ma in quel momento, ella non ha bisogno di sparare, di macchiarsi di un delitto sia pure a fin di bene. Quella pistola puntata non fa altro che arrestare l’azione, sospenderla e trasportarla di colpo in un’altra dimensione. E la fanfara della tromba che irrompe fuori scena ad annunciare la liberazione. L’eroismo di Leonora-Fidelio, questo stadio primitivo, o se vogliamo primario, dell’eroismo, si scioglie in qualche cosa d’altro, in un appello trascendente proveniente dall’alto, che ha la forza di un ultimatum. Non è l’eroe, in quanto tale, che salva la situazione, ma è come se sulla scena irrompessero il bene e la giustizia stessi, ripristinando, e non per un atto eroico del singolo, la legge morale. E in tutto ciò non vi è nulla di retorico, anzi, al contrario, è la drammaturgia teatrale a creare e risolvere un culmine drammatico in modo vero e commovente. Ascoltiamo questo passo che è ben noto, ma che in questo momento, per il mio ragionamento, va riascoltato.

 

Ascolto della scena terza del secondo atto del Fidelio.

 

Ho detto, è come se sulla scena irrompessero il bene e la giustizia stessi, ripristinando, e non per un atto eroico del singolo, la legge morale. È un caso in cui il simbolo della fanfara non ha un significato di guerra o di minaccia, ma anzi scioglie una situazione bloccata e minacciosa. Dico questo perché vedremo poi altri aspetti in cui questo stesso simbolo si trasforma in qualche cosa di completamente diverso. Qui, in questo preciso momento, la fanfara della tromba è l’irruzione di un dover essere, ed esso non può provenire altro che da fuori del teatro, cioè dal di fuori della finzione della scena, perché, nello stesso tempo, è parte integrante della verità ideale dello spirito. Una legge morale ripristinata che cala eternamente sul palcoscenico del mondo.

Questa osservazione ci riporta a un altro importantissimo concetto che dobbiamo aggiungere a questa serie abbastanza lunga, che già abbiamo individuato: il concetto di divinità. Il concetto di divinità secondo Beethoven è certamente sostanziato da una profonda fede religiosa ed è la fede religiosa di un credente, ma non si esaurisce nell’attestazione di un dogma di fede. È anch’esso piuttosto la conseguenza di un dover essere, di una necessità che, ove non esistesse la divinità, sanzionerebbe non solo il caos e probabilmente la disperazione, ma anche l’impossibilità per l’uomo di agire e di vivere per una meta superiore. E questo è fondamentale per il modo di concepire non soltanto la musica ma anche il suo significato: se mancasse questo punto di riferimento, tutto quanto perderebbe la possibilità di venir detto, di avere un significato. E quindi anche il concetto di divinità si identifica piuttosto con una legge morale interiore: esso è la bussola che consente di non perdere l’orientamento nel cammino che porta dalla terra al cielo. Questi termini chiaramente simbolici, e mi rifaccio naturalmente all’immagine kantiana della legge morale e del cielo stellato, accompagnano il cammino che unisce l’essere al dover essere e ne costituiscono la giustificazione. Anche il passaggio compositivo dalla fase dell’ideazione alla fase del compimento non può essere legata che a un principio di necessità, inerente alla visione beethoveniana della divinità in termini di universalità.

 

E dobbiamo adesso affrontare quelle che sono anche per la loro relazione con un testo le due opere in cui tutta questa costruzione che abbiamo fatto intorno a un principio, se è vera, giunge essa stessa a compiersi. La prima è la Nona Sinfonia, in modo particolare l’itinerario che l’ultimo movimento compie dal momento in cui la citazione dei temi dei movimenti precedenti porta alla enucleazione e alla affermazione del tema della gioia e quindi del concetto che l’Inno alla Gioia esprime. Non ci interessa qui vedere in che senso Beethoven intenda il concetto schilleriano di gioia, ci interessa quello che succede dopo l’enunciazione, perché a quel punto la sinfonia, che in un certo senso avrebbe compiuto il suo percorso, anche in modo, se vogliamo, dimostrativo, rimette tutto in discussione. Il passaggio dall’essere al dover essere è da Beethoven concepito non come un passaggio automatico e tranquillo, ma come un percorso pieno di dubbi, che per essere realizzato ha bisogno di continue verifiche e prove. E uno degli esempi più drammatici, inattesi e dunque ancora più impressionanti, del peso a volte quasi distruttivo che questo dubbio può avere si ha appunto nel finale della Nona Sinfonia. Partiamo dalla sezione “”Allegro assai vivace. Alla Marcia””. I simboli della battaglia e della guerra che risuonano in tutta la loro terribile attualità e brutalità nella Marcia, questa volta non come una liberazione, ma come una minaccia, sembrano scacciati, messi definitivamente da parte dal ritorno del tema della gioia. Segue bruscamente un momento di riflessione, un invito alla fratellanza universale che dall’ “Andante maestoso” precipita nel dubbio e poi nella perorazione religiosa dell’””Adagio ma non troppo, ma divoto””; e qui viene compiuto un ulteriore passo in avanti: la gioia non più semplicemente scintilla divina ma realizzazione di una unione tra uomo e divinità diviene sospensione sull’orlo di un abisso. Ma ecco che succede qualche cosa di assolutamente inatteso. L’“Allegro energico, sempre ben marcato” che attacca sembra offrire una definitiva conclusione. E invece improvvisamente tutto si oscura, tutto si blocca, tutto si sospende nuovamente, la musica si fa incerta, ansimante, anche armonicamente esitante, per sette battute non abbiamo altro che accordi fondamentali di triade combinati fra di loro in un modo volutamente sospensivo sulle parole interrogative Ihr stürzt nieder, Millionen? «Dubitate, o gente?» Millionen sta qui per l’umanità indifferenziata: i milioni sono appunto gli uomini, la massa. E la domanda non è niente affatto retorica: di fronte a questo compimento esterno della gioia che è stato quasi fatto sopra le loro teste, come reagiscono gli uomini? Beethoven riprendendo e manipolando il testo di Schiller chiede: “”Ma, che fate, vi abbattete? Cadete a terra?”” E va avanti per domande incalzanti, non più al plurale ma al singolare: “”Non senti il Creatore?”” A questo punto non sono più i Millionen a cui Beethoven si rivolge ma gli individui singoli, i suoi fratelli; e in modo ansimante e concitato, Beethoven ripete queste parole, e le ripete con una tensione sempre più forte che la musica ovviamente sottolinea. “”Cercalo, il Creatore, sopra la volta celeste!””. Such’ihn ,ber’m Sternenzelt! Brüder! “”Cercatelo sopra la volta celeste! Fratelli!””: cioè cercatelo ognuno sopra di voi, il cielo è sopra di voi che non siete più una massa ma individui singoli, responsabili, affratellati dalla divinità e dalla legge morale. Ora dovete riconoscerlo. Che prima il testo dica Millionen e poi Brüder non è un fatto casuale, tutt’altro: c’è una logica ben precisa di convincimento, di dubbio e di convincimento e di superamento del dubbio e di affermazione del convincimento. A questo punto Beethoven inverte gli appelli: Brüder, cioè fratelli, non è più il termine finale dell’esclamazione, della successione, ma il punto iniziale che porta alla risposta. Sempre più piano e scomparendo, la musica ripete incantata due volte über’m Sternenzelt muss ein lieber Vater wohnen: e questa non è più una domanda, non è più una implorazione, ma è un’affermazione categorica. “”Sopra la volta celeste deve esserci un caro Padre””. Muss. Così deve essere, così è. Tutto ruota intorno a questa parola, muss, che in questo momento, nel modo più antiretorico possibile, non viene urlata, non è al termine di un crescendo, ma viene interiorizzata, fatta propria da tutti gli uomini. Lo sfaldamento e il dubbio vengono ricompattati, ma sempre più piano, più intimamente: perché le cose importanti Beethoven non le dice, e questa è un’altra immagine falsa che di lui si ha, col volto corrucciato e con la fronte corrugata, ma in un modo disteso e sommesso che vale più di ogni esclamazione. A nome dell’umanità, Beethoven si prende addosso la responsabilità di dire che il Padre esiste, deve esistere, e quindi di fugare, con uno sforzo estremo, il dubbio. Qui in un certo senso Beethoven si sostituisce alla divinità, è lui stesso la divinità che rassicura e testimonia dell’esistenza di Dio. E come se assumesse su di sè la prova dell’esistenza di Dio, un’esistenza che ha il significato di una presenza non astratta, ma direttamente determinante, anche per il comportamento dell’uomo, dei Millionen prima, e soprattutto dei Brüder, poi.

 

Ascolto del Finale della Nona Sinfonia.

 

Qualcosa di analogo, proprio come se questo cammino venisse ripercorso, come se questo percorso venisse esattamente rifatto, ma in un contesto diverso, accade nell’ultimo brano della Missa Solemnis, nell’Agnus Dei. Anche lì, a un certo momento, riappaiono i segnali di fanfara della guerra, la battaglia, la lotta, la durezza dello scontro con una realtà che non si riesce ad annullare, che esiste nel mondo. Questo contrasto è rappresentato con la massima evidenza anche musicalmente, in modo del tutto inedito nell’ambito di un pezzo sacro posto a conclusione di una Messa (se ne ricorderà però Schubert nel finale della sua ultima Messa). Tutti i momenti che hanno a che fare con l’immagine della guerra sono collegati alla sezione del testo che dice miserere nobis, la prima parte dell’invocazione dell’Agnus Dei; mentre la distensione che va oltre questa immagine è espressa con le parole dona nobis pacem. In mezzo c’è ancora una volta il superamento della precarietà e del dubbio, posti come elementi terreni estremamente concreti nelle figure che li rappresentano. Il contrasto è qui addirittura un mezzo retorico, filosofico perfino, del modo beethoveniano di concepire l’affermarsi del dover essere nel mondo: il suo superamento quasi un ordine. L’invocazione all’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo affinché doni la pace si amplia a dismisura, diviene ripetizione ossessiva, e finisce così per avere un carattere non solo perentorio ma perfino irato, imperativo: qui è proprio come se Beethoven, assumendo su di sé il peso della decisione, desse ordini a Dio, gli intimasse di dare la pace, e attraverso questi ordini ristabilisse la pace e la libertà. E allora ci chiediamo: ma perché accade questo, perché il dover essere ha delle ragioni che non possono essere eluse? Perché altrimenti niente avrebbe senso. Se tutte le pene e le lotte e le guerre non portassero a un’affermazione del dover essere, niente avrebbe senso, e tutto quanto si perderebbe, anche la testimonianza che nella Missa Solemnis è affidata all’inizio e alla fine in un’estrema dichiarazione di intenti a parole di fede e di speranza. Dai cuori – possa tornare ai cuori. E poi. Preghiera per la pace interiore ed esterna.

 

Ascolto dell’Agnus Dei della Missa Solemnis.

 

Anche le strade del dover essere sono infinite. E non prendono sempre direzioni così serie, profonde, impegnative come nel Fidelio, nella Nona Sinfonia e nella Missa Solemnis. Mi riferisco all’ultimo quartetto di Beethoven, il Quartetto in fa maggiore op.135, dove prima dell’inizio dell’ultimo movimento Beethoven segna un’epigrafe, che suona: Der schwer gefasste Entschluss, ossia: “”La decisione presa gravemente””: e sotto aggiunge un triplice motto musicale, accompagnato dalle parole: Muss es sein? Es muss sein! Es muss sein!, ovvero: “”Deve essere? Deve essere! Deve essere!””. Di quale decisione si tratta? E dove stanno la gravità del dilemma, e insieme la ponderatezza, la riflessione, la risposta risolutiva presa con difficoltà ma con cognizione di causa? Questo motto enigmatico che chiude l’ultimo dei quartetti di Beethoven sottintende una sprezzatura e un’ironia che anziché diminuire il peso del cimento lo rende per così dire più semplice e naturale. C’è anche un aspetto chiaramente simbolico legato a questo motto concentrico, il fatto cioè che la domanda sia in tempo “”Grave”” e su tre note basse legate a certi intervalli – sol, mi, la bemolle – quindi, diciamo, un intervallo dolce di terza minore discendente e poi una quarta diminuita ascendente ma dissonante, e che la risposta avvenga invece in tempo “”Allegro”” all’acuto su una semplicissima e perfino banalissima giusta cadenza dapprima in una tonalità falsa (e quindi è, se vogliamo, una risposta sbagliata: la do sol, cioè in do maggiore), e poi finalmente – sol, si bemolle, fa – in fa maggiore, che è la tonalità d’impianto in cui si chiude il Quartetto. Questa estrema semplicità che si fa beffe del problema e lo risolve quasi scolasticamente è la premessa soltanto materiale di quello che accade dopo. In realtà, e questo è l’altro aspetto, in fondo, così vitale e leggero del dover essere, questo motto enigmatico, ripeto, espresso in maniera molto didascalica e anche un po’ ironica, un po’ buffonesca con questo sol, nei, la bemolle che circoscrive un’area tonale un po’ stramba e poco chiara, e poi con questa doppia cadenza deboluccia e un po’ birichina, sembra prendersi scherzosamente in giro e sollevare d’ogni aura di sacralità il motivo al quale si riferisce. La sproporzione tra la solennità dell’enunciazione e la giocosità della risposta è evidente, ma non perde di sostanza concettuale: la decisione presa con grande riflessione, dopo difficili ponderazioni, noi non sappiamo a che cosa si riferisca, ma è comunque un atto risolutivo che involge la totalità dell’uomo e del creatore. E. in altri termini, un simbolo. E ciò non viene affatto contraddetto da testimonianze che, come dire, raffreddano il nostro sacro entusiasmo e le nostre costruzioni ideali, che magari vorrebbero vedere celato nel motto il destino che viene interrogato se così debba essere, e quindi notare con soddisfazione che il punto interrogativo si trasforma in un eroico punto esclamativo del tutto in consonanza con l’immagine più convenzionale di Beethoven: perché anche se fosse vero, come asserisce Schindler, che in quella figura si nascondesse la risposta irata che Beethoven dette a una domestica petulante che gli chiedeva il suo salario e che continuava a tempestarlo. ciò non diminuirebbe affatto la ricchezza di risvolti e di piani che convivono, dal più alto al più basso, nella coscienza beethoveniana del dover essere. E’ proprio dei grandi artisti, del resto, dare una veste comica anche ai pensieri più seri.

Vorrei che ascoltassimo adesso l’ultimo movimento del Quartetto in fa maggiore op. 135 come se si trattasse di una salutare autocritica, ma non banalizzazione, dell’imperativo categorico del dover essere. Mi pare che questa musica comunichi soprattutto uno stato di euforia con un fondo di inquietante mistero, nel quale sono inserite nell’elaborazione delle quattro parti degli archi le cellule motiviche, che ritornano a un certo punto, con la ripresa del tempo grave, accompagnate da angosciosi tremoli molto drammatici, fortissimi e sforzati: a indicare che quello che importa non è il contenuto, il quale come abbiamo visto può essere sublime o banalissimo, ma l’atteggiamento, la forza di volontà e la determinazione a seguire la strada della ragione. Il dover essere di Beethoven è si un pensiero forte, ma è anche uno stato d’animo a cui non è estraneo il buonumore. E un esempio di risolutezza, di coraggio, di coscienza e insieme di umorismo nei confronti di tutte le decisioni gravi che vanno prese con difficoltà, ma che nello stesso tempo sono già segnate. E quest’ultimo movimento, nella sua ambiguità tra serio e faceto. è proprio l’affermazione di questo principio, al di là di quelli che sono i suoi contenuti, e forse anche dei livelli nei quali l’urgenza del dover essere si può presentare. Beethoven. con i suoi estri e le sue invenzioni, non ha soltanto scritto questi capolavori, ma ci ha anche dato la chiave per comprendere il carico di responsabilità che vi è sotteso. Il senso galvanizzante, euforico, ammiccante e in fin dei conti affermativo che permea l’ultimo movimento del Quartetto op. 135, tocca le corde della tragedia e della commedia ma con la gravità e la leggerezza di chi sappia, nel dare addio alla musica e alla vita, che alla eterna domanda Muss es sein?, la riposta non può essere che una sola: Es muss sein! Qualunque cosa accada nel prendere la decisione.

 

Ascolto dell’ultimo movimento del Quartetto op. 135.

 

 

NOTE

 

(1) Pur rielaborando il testo per questa pubblicazione, ho inteso volutamente mantenere il tono discorsivo della conferenza, nata con questo carattere per essere esposta in pubblico e non letta come saggio scritto. Ho altresì mantenuto l’indicazione degli ascolti musicali, che ne erano parte integrante.

(2) Lettera del 2 settembre 1812.

(3) Lettera del  19 luglio 1812.

(4) Lettera del 29 giugno 1801.

(5) Lettera del 29 giugno 1801.

(6) Lettera del 1 ° luglio 1801.

(7) Lettera del 16 novembre 1801.

(8) Una nuova traduzione del «Testamento di Heiligenstadt» si può leggere nel primo volume   dell’Epistolario completo di Beethoven in corso di pubblicazione a cura dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per l’editore Skira, Milano 1999.

(9) La nota è del 1815 e può forse essere ispirata a un frammento di filosofia indiana. Vedi Scritti e conversazioni di Beethoven, Bologna 1962: in facsimile, Maynard Solomon, Beethovens Tagebuch, Mainz 1990.

(10) Si veda la mirabile analisi di Walter Riezler, in appendice a Beethoven, Milano 1977.

Conferenza del giorno 11 maggio 1999, Associazione Mozart Italia, Brescia, I Martedì –  Quaderni

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