“La sposa venduta” tra nazionalismo e spirito europeo.
Il nome di Bedřich Smetana (1824-1884) è noto soprattutto per il ciclo di poemi sinfonici intitolato Mà vlast (La mia patria), composto tra il novembre 1874 e il ’79 e di cui fa parte la celeberrima Moldava. Se con questa popolare partitura Smetana raggiunse i pubblici di tutto il mondo affermandosi come il “”cantore”” dell’anima patriottica del proprio Paese (la Boemia), la sua produzione operistica, intesa a cementare un’unità nazionale, rimase per lungo tempo inscritta entro gli stessi confini che si era imposta, faticando a trovare una dimensione internazionale. E in tal senso, come espressione di scuola nazionale, viene per lo più ancora oggi considerata. Un’opera nazionale di confine legata alla storia, alle tradizioni e alla lingua indigene è un fenomeno per sua stessa natura limitato, anche se nell’Ottocento essa segnò il risveglio di una coscienza popolare e di una consapevolezza storica che a poco a poco finirono per abbracciare spazi più ampi della cultura liberale e del progresso, ed essere in una certa misura non solo accettata ma anche incentivata in tutta l’Europa romantica. Nel caso di Smetana questa aspirazione, senza tradire gli intenti riposti a creare un repertorio autentica-mente nazionale, per il quale egli si batté non solo come autore ma anche come intellettuale impegnato nelle schermaglie polemiche, si rivolse a individuare nella dignità di un’arte di prospettiva europea la prima e necessaria condizione dell’investitura a musicista nazionale.
Smetana fu un patriota prima che un nazionalista, e proprio nel senso ottocentesco del termine. La differenza stava anzitutto nell’atteggiamento e negli obiettivi che dovevano essere perseguiti. Per Smetana la creazione di un’opera nazionale non significò impermeabilità agli elementi provenienti dall’esterno, ma anzi adeguamento, sollevamento della condizione artistica del proprio Paese al livello di spirito e di coscienza della musica europea. Un atto dunque di apertura, non di chiusura, di riconoscimento di una dignità individuale, non di una estraneità o di una marginalità. Nella grande corrente della musica europea doveva esserci posto anche per una voce che parlasse di sé, della propria storia e delle proprie tradizioni peculiari, a queste attenendosi, ma investendo in esse per mettersi al passo con le altre voci di più lunga e sedimentata tradizione. Che ciò significasse necessariamente anche far ricorso a temi, motivi e spunti del proprio passato e del proprio presente, in funzione di un futuro di affrancamento e di liberazione (non esiste lotta di liberazione che non sia anche affermazione della propria cultura, ma non in contrasto con la cultura), non impediva affatto che si dovesse guardare a ciò che avveniva intorno, e che forse era già accaduto altrove.
Del resto la formazione di Smetana era stata nel segno di una educazione generale germanica; o meglio, più che germanica, internazionale, nell’ottica per così dire neoromantica di Weimar. In questo senso va letta la sua ammirazione sconfinata per Liszt, al quale chiese non soltanto sostegno ideale per la fondazione di una propria scuola a Praga (e si era nel 1848!), ma anche insegnamenti concreti. Fu durante il suo esilio in Svezia, nel 1857, che gli confidò: “”…non sono di quelli che si dicono, infondatamente, vostri allievi […]. Voi però siete il mio maestro e devo tutto a voi””. Da questo punto di vista la carriera di Smetana fu esemplare. Affrancatosi a poco a poco dall’ambiente contadino, provinciale in cui era nato e cresciuto, attratto ma non pago delle lusinghe di Praga, dove pure fu in prima linea nella partecipazione alle lotte politiche degli anni delle rivoluzioni, sempre più deciso a non disgiungere una promettente affermazione come pianista e direttore d’orchestra dall’urgenza creativa, Smetana conobbe il mondo della musica europea che si irradiava dal laboratorio di Weimar con intenso fervore e si sottopose di buon grado alla prova del fuoco di un lungo periodo, sei anni, dal 1856 alla fine del 1861, di esilio a Göteborg, dove oltre a continuare a svolgere l’attività di pianista e di insegnante assunse la guida della locale Società Filarmonica. Fu anche la prova di un apostolato musicale svolto intanto lontano dalla patria: una sua lettera a Liszt datata 10 aprile 1857 ci informa della programmazione di capolavori classici (Mozart e Beethoven soprattutto), nonché di importanti opere romantiche, tra le quali, oltre al poema sinfonico Tasso di Liszt e ai cori del Tannhäuser e del Lohengrin di Wagner, l’Elijas di Mendelssohn, Das Paradies und die Peri di Schumann e Elverskud del compositore danese Niels Gade, che lo richiamava allo stimolo di una musica nazionale.
Scoccò poi l’ora del ritorno a Praga (1862), dove dopo il fallimento della insurrezione di più di dieci anni prima si era avviato un lento ma costante processo di irredentismo, che Smetana non avrebbe fatto in tempo a veder concluso con l’indipendenza ma di cui seguì da vicino le tappe di avvicinamento, fortificandole con la sua presenza. Praga rimase fino alla morte il suo centro di azione. Proprio nel 1862 venne aperto, in vista di un Teatro Nazionale che sarebbe stato inaugurato solo nel 1881, un Teatro Provvisorio per le rappresentazioni operistiche, luogo di nascita delle opere di Smetana. Oltre a riorganizzare sulla base della propria esperienza la vita culturale cittadina, Smetana si prodigò per fondare nuove istituzioni musicali – una nuova scuola musicale, una nuova società corale, la fondazione dell’Associazione Nazionale degli Artisti Cèchi – e si dedicò a promuovere le nuove idee su giornali e riviste come critico e scrittore di cose musicali. La formazione di un repertorio operistico unicamente nazionale divenne la sua ossessione, spesso in aspra polemica con i circoli filoccidentali, che avevano la loro roccaforte nel Conservatorio, di impronta austro-tedesca; e a questa contribuì con il proprio esempio. Il 5 gennaio 1866 venne eseguita con grande successo la sua prima opera Braniboři v Čechàch (I Brandeburghesi in Boemia), di argomento storico. Il 15 marzo era già terminata la prima versione in due atti dell’opera comica Prodanà nevěsta (La sposa venduta), da lui diretta il 30 maggio 1866 e i cui primi spunti, tra i quali la brillante ouverture, risalivano al 1863-64. Questo nuovo successo gli valse nel settembre dello stesso anno la nomina a direttore d’orchestra del Teatro Provvisorio, carica che manterrà per otto anni. Fu in questo periodo che si intensificò la sua produzione operistica: l’opera tragica Dalibor, eseguita il 16 maggio 1868 per la posa della prima pietra del futuro Teatro Nazionale; due revisioni della Sposa venduta (nel 1869 e, quella definitiva in tre atti, nel 1870: prima rappresentazione al Teatro Provvisorio di Praga il 25 settembre 1870); l’opera “”festiva”” e celebrativa Libuše, terminata nel 1872 ma solennemente differita per la rappresentazione fino all’inaugurazione del Teatro Nazionale 1’11 giugno 1881, e la frizzante Dvě vdovy (Le due vedove), composta tra il 1873 e il ’74. Una grave malattia dell’udito lo costrinse a rinunciare all’attività concertistica, ma non alla composizione, anche se l’interesse per il teatro si affievolì. Accanto ai suoi capolavori d’altro genere, tra i quali, oltre alla già citata serie sinfonica della Mia patria, vanno ricordati almeno l’appassionato, autobiografico quartetto per archi Dalla mia vita (1876) e i due pittoreschi, virtuosisticamente descrittivi quaderni di Danze cèche per pianoforte (1877-79), scrisse ancora altre opere, presto cadute nel dimenticatoio: l’opera popolare Hubička (Il bacio, 1876), l’opera comica Tajemství (Il segreto, 1878), l’opera comica romantica Čertova stěna (Il muro del diavolo, 1882) e l’incompiuta Viola (ancora di genere comico, dalla Dodicesima notte di Shakespeare, 1883-84). Per un tragico paradosso gli ultimi anni della sua vita, segnati dalla progressiva sordità e dalla alienazione mentale, consacrarono un simbolo nazionale alla perdita della propria identità, con la quale aveva tuttavia contribuito come pochi ad animare di fervida e molteplice vita le vicende della musica boema del secondo Ottocento. Il primato di opera più rappresentativa di Smetana assegnato sul campo dalla vita teatrale alla Sposa venduta proviene da numerosi fattori. E se il primo e più evidente è la felicità inventiva profusa a piene mani nel corso di tutta la partitura (per la quale fa naturalmente fede la versione riveduta in tre atti del 1870), l’ultimo in ordine di importanza non è certamente il raggiungimento di un equilibrio pressoché perfetto tra stile nazionale e spirito europeo. Il fatto che La sposa venduta sia un’opera comica (komickà zpěvohra) non va visto come una distinzione di genere, men che mai in senso retroattivo, settecentesco o primottocentesco. Per quanto qua e là sopravvivano echi e riflessi sia del Singspiel tedesco sia dell’Opéra-comique francese, i modelli più vicini sono le commedie moderne di Cornelius, Nicolai e Lortzing: virate però nettamente dal fantastico e dall’esotico verso la concretezza del tono nazionale e popolare. Il pimento che la riveste è decisamente romantico, a tratti weberiano, come suggerivano l’anima e la civiltà del sentimento nazionale. Sul piano operativo Smetana però si distinse per una presa di posizione chiara nei confronti del concetto stesso di opera nazionale. Le sue idee in proposito sono assai istruttive. Secondo Smetana per uno stile nazionale non bastava semplicemente imitare la canzone popolare, né trattare un soggetto autoctono in maniera folcloristica, eterogenea. Per un’esperienza artistica unitaria occorreva invece affermare il carattere specifico di una cultura: quindi, se il patrimonio popolare della tradizione musicale boema poteva offrire al compositore strumenti espressivi idonei, l’accento nazionale veniva realizzato riuscendo a conferire a idee e sentimenti un carattere concreto e ben definito anche linguisticamente. Non solo. L’impiego del canto popolare non era condizione sufficiente, per quanto necessaria: bisognava dunque innestarlo in un contesto capace di lavorare dall’interno con un linguaggio attuale (leggi romantico), utilizzandolo in senso genuinamente nazionale. E a ciò non bastava neppure l’appropriazione colta del canto popolare, delle sue melodie, delle sue armonie e dei suoi ritmi: occorreva invece la capacità inventiva di istituire un processo di assimilazione e di inserimento di questi dati nelle strutture della forma, tale da consentire gradi differenziati di assorbimento senza perdere in immediatezza espressiva. Questi principi furono attuati nella Sposa venduta con una leggerezza di tocco impagabile, insieme spontanea e consapevole. La sua riuscita indica come un soggetto comico e popolaresco fosse più congeniale al musicista di quelli seri o tragici, nei quali situazioni drammatiche grandiose (la leggenda favolosa dell’eroe boemo in Dalibor), propositi artificiosi, decorativi, celebrativi o intellettualistici (l’epopea mistica della profetica Libuse) finivano per appesantire la scrittura e alterare l’equilibrio di una fusione delicata.
L’esile trama del libretto, elaborato dal giornalista Karel Sabina (1813-1877) su un soggetto che si rifà a ben noti equivoci da commedia (qualcuno vi ha visto l’ascendenza di un vaudeville francese: si tratta piuttosto di stereotipi sedimentati nella tradizione teatrale cosmopolita di estrazione buffa), anziché limitare esaltò le qualità di una comicità fondata non sulla farsa o sul ridicolo, bensì sull’umorismo frizzante di una sana concezione del mondo e della vita, franco spaccato di vita popolare cui la musica aggiunge a sua volta brio e vitalità. Come ha acutamente individuato Sergio Martinotti, “”l’intreccio brioso e i dialoghi vivaci sono collegati da temi ricorrenti, sostenuti da un’ininterrotta risorsa di colore, ben resa da un’efficace e scaltrita orchestrazione, da un’ingenuità e cordialità umana tutta terrestre, da un’istintiva naturalezza che sopravanza i moti affettivi. Più dei personaggi divertenti e pittoreschi o degli episodi umoristici (ereditati da tradizioni italiane e francesi), sono ancora le traduzioni immediate dell’anima popolare – cori di contadini, descrizione di musi-cisti girovaghi di villaggio, danze rustiche quali la polka e il furiant, accenti marziali – a rappresentare il fondo più genuino capace di vitalizzare l’opera””. Se la melodia, pur priva di veri motivi popolari, accomuna in un tessuto espressivo compiuto entrambe le componenti vocale e strumentale, il ritmo tende a un preciso e individuato fondo etnico, per così dire emanazione degli impulsi fisici della natura e della terra, in un paesaggio insieme reale e ideale. Si aggiunga un’architettura resa compatta da pezzi chiusi (arie, duetti, terzetti, insiemi) sapientemente articolati anche nella declamazione e non rigidamente giustapposti, nonché una concezione, quanto a forma e stile, armonicamente classica e unitariamente svolta, e si avrà il quadro che fa di quest’opera un piccolo ma garbato capolavoro del tutto sui generis. In esso, spaziando dalle inflessioni ora arcaiche, ora liriche e idilliache, ora tenere e patetiche del canto solistico, degli insiemi e dei cori, fino alle vorticose danze contadi-ne accortamente acculturate nella loro rusticità, si è portati a riconoscere a prima vista un’immagine collettiva, una suggestione diretta d’intimità popolare, un carattere etnico e un respiro universale. Ed è di qui che quest’opera trae il suo fascino, la sua attrattiva e la sua grazia, è in grado di comunicare, in forza della sua autenticità, con i pubblici di ogni estrazione.
Julian Kovatchev / Vàclav Věžnìck, Daniel Wiesner, Eva Jenis, Adriana Kohùtkovà, Miro Dvorsky, Oto Klein, Monica Faralli, Alberto Noli, Vladimir Kubovčik, Bohuslav Maršik, Milan Rudolecki, Luigi De Donato, Lucia Mastromarino, Orchestra del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”
Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, Stagione lirica e di balletto 2002-2003