Zimmermann – Die Soldaten
Mark Munkittrick (Wesener), Nancy Shade (Marie), Milagro Vargas (Charlotte), Grace Hoffman (la vecchia madre di Wesener), Michael Ebbecke (Stolzius), Elsie Maurer (la madre di Stolzius), Alois Treml (Obrist Graf von Spannheim), William Cochran (Desportes), Guy Renard (Pirzel), Karl-Friedrich Dürr (Eisenhardt), Klaus Hirte (Haudy), Raymond Wolansky (Mary), Ursula Koszut (Gräfin de la Roche); Chor des Staatstheaters Stuttgart, Staatsorchester Stuttgart, direttore Bernhard Kontarsky
Teldec 9031-72775-2
È questa la prima edizione in Cd dell’unica opera composta da Bernd Alois Zimmermann per il teatro, rappresentata per la prima volta a Colonia nel 1965, cinque anni prima della sua morte avvenuta per suicidio. Il soggetto è tratto dal dramma omonimo di Jakob Lenz, altra figura tormentata di un’epoca di passaggio e di trasformazioni profonde, lontana nel tempo ma non dissimile da quella che visse e sentì pesare su di sé Zimmermann. L’aspetto che le accomuna è tragicamente paradossale: entrambi vollero scrivere un’opera di denuncia, di protesta contro la disumanità della guerra e della vita militare, finendo per soccombere psicologicamente e umanamente al tema che avevano scelto di affrontare. Per scrivere un’opera di denuncia occorrono certezze incrollabili e una fede salda, altrimenti il peso dell’impresa rischia di diventare insostenibile e di attirare nel baratro della follia chi non abbia la forza di sostenerlo. Tanto Lenz quanto Zimmermann pagarono in modo drammatico questo destino, e li sentiamo a noi vicini per la sincerità dell’anelito alla verità e all’assoluto che li muoveva come uomini e come artisti.
Per Zimmermann l’adozione della tecnica seriale doveva bastare a conferire unitarietà e coesione all’opera. Pur non rinunciando a stimoli eterogenei, dai corali di Bach ai rumori ricostruiti su nastro magnetico, a strutture formali classiche e preclassiche tolte dalla musica strumentale (al modo di Berg, ma con meno senso del teatro), l’opera I Soldati porta però all’eccesso, fino a limiti davvero insostenibili, il linguaggio dell’espressionismo; o meglio, il suo stato d’animo: nervoso, inquieto, esacerbato ed esasperato. Ciò a cui mira è innalzare all’ennesima potenza il grido originario, l’ Ur-schrei, cioè la protesta e la denuncia di una condizione esistenziale e morale inaccettabile, feroce, quasi bestiale.
Siamo di fronte a un caso in cui una disposizione architettonica e formale perfettamente delineata sulla carta si sbriciola in una serie di violenze e di esplosioni che annientano la materia, come a voler rappresentare l’effetto di un terremoto, o un caos primordiale. E un terremoto si può descrivere, ma non collocandosi al suo epicentro. Al caos primordiale non si oppone alcun ordine, religioso, sociale o semplicemente individuale: Zimmermann si limita a registrare un malessere, forse sentito come immodificabile, e gli dà un significato cosmico. Quest’opera ne è l’espressione visionaria, e come tale ci coinvolge e a tratti ci commuove: ma senza comunicarci un’emozione o una riflessione che rechi l’impronta di un segno artistico, di un giudizio anche estetico.
L’esecuzione dello Staatstheater Stuttgart è eccellente, sia nella parte orchestrale diretta da Bernhard Kontarsky sia nella compagnia di canto, dove ognuno interpreta assai bene la parte di una scheggia impazzita. Dall’ascolto si esce un po’ provati, come da un ingorgo autostradale della domenica sera, felici di ritrovare la quiete e il silenzio. Ciò non significa dimenticare l’orrore della guerra, delle autostrade, e non provar pietà per coloro che la morte ha brutalmente falciato, magari mentre si apprestavano a soccorrere il prossimo, o a testimoniare per gli altri, per noi tutti.
Musica Viva, n.1 – anno XVI