Stravinsky – Oedipus Rex
Vinson Cole (Oedipus), Anne Sofie von Otter (Giocasta), Simon Estes (Creonte e Messaggero), Hans Sotin (Tiresia), Nicolai Gedda (Pastore), Patrice Chéreau (Narratore); Orchestra Sinfonica della Radio Svedese, Coro della Radio Svedese, The Eric Ericson Chamber Choir, Orphei Drängar, direttore Esa-Pekka Salonen
(registrazione: Berwald Hall, Stoccolma, maggio 1991; pubblicazione: 1992)
Sony SK 48 057
Se ancora non conoscete 1′Oedipus Rex di Stravinsky e non ne avete una registrazione, correte a comprare questo disco. Se già conoscete l’ Oedipus Rex di Stravinsky e ne avete già una registrazione, fatelo lo stesso: anzi, questo disco è soprattutto per voi. Giacché ascolterete un Oedipus Rex di Stravinsky (le martellanti ripetizioni del nome vi introducano al clima ostinato dell’opera-oratorio) un po’ diverso dal solito, ma di grande suggestione. Se poi riuscite a immaginare su questa una ipotetica messa in scena di Ingmar Bergman, che infatti ci sta pensando (e chissà che non si convinca a farlo, magari recitando anche la parte del Narratore), allora potrete dire di aver intravisto qualcosa di compiuto.
Il Narratore qui è Patrice Chéreau. Naturalmente anche lui andrebbe benissimo per un’ipotetica regia, ma sarebbe un’altra cosa. La sua dizione stringata, tagliente, che incide più che scolpire le parole, è la prima meraviglia che s’incontra ascoltando il disco. La seconda meraviglia è di natura puramente musicale, l’attacco del coro, anzi dei cori svedesi istruiti da Eric Ericson, di una morbidezza e di una forza espressiva antica, dolorosa, veramente mai udita prima a tal grado d’intensità e di chiarezza: cori da tragedia greca, ma con l’anima sofferente del ventesimo secolo, che ci comunicheranno alla fine un’idea non solo vaga di che cosa si debba intendere sotto il concetto di catarsi. Abbiate pazienza se Vinson Cole e poi Simon Estes nella parte del Messaggero non sapranno mantenersi all’altezza di queste meraviglie (non tutto può essere sempre meraviglioso); ci penseranno l’entrata di Giocasta (la Otter disegna un personaggio di donna giovane, fiera, sensibile, capace quasi di sostenere la sciagura, o di riscattarla con la sua dolcezza femminile) e poi le rivelazioni di Tiresia intonate da un caldo, accorato Hans Sotin e il racconto del Pastore, implacabilmente squadernato da un ancor strepitoso Nicolai Gedda, a rimettere le cose a posto. Fino alla lugubre chiusa, da cui s’innalza il vessillo di una fantomatica pietà, prima della dissolvenza amara, del congedo triste ma non disperato. Se l’epoca moderna è nata nel momento in cui la coscienza si è sostituita al sentimento, qui il sentimento è la ragione stessa della coscienza.
Esa-Pekka Salonen smorza considerevolmente il colore barbarico della partitura, e segnatamente mitiga l’asprezza dei ritmi, allenta la tensione dei contrasti, riduce la monumentalità sofoclea delle forme. Vengono alla mente per associazione altre interpretazioni, altre possibili, diverse scelte di lettura: per esempio quella di Abbado, che sembrava voler mettere a nudo squarci che dalla profondità del dramma risalivano fino alle vette stesse del linguaggio moderno, della verità implacabile, amara del destino.
Salonen recupera invece il mistero del rito, la sacralità dell’ineluttabile: tutto sembra già scritto, e nell’atto di rappresentarlo non si rivive, ma si contempla da lontano, e nel farlo stupendamente si soffre e si muore inconsapevolmente un’altra volta. Tutto sta nel capire che non c’è nient’altro al di là del sogno e del rimpianto, dell’amore e della compassione.
Musica Viva, n. 8/9 – anno XVI